Le pantere di Algeri/Capitolo 29 - La cascata del Keliff

Capitolo 29 — La cascata del Keliff

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Capitolo 29 — La cascata del Keliff
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29.

LA CASCATA DEL KELIFF


Quando la principessa ed il suo fedele servo giunsero in vista del duar, cominciava ad albeggiare. Avevano traversata la considerevole distanza che separava il duar dalla città quasi d'un solo tratto, spinti dal timore di arrivare troppo tardi.

Erano certissimi di avere alle spalle Zuleik con buon nerbo di cavalieri, quantunque fino a quel momento nulla avessero notato nelle vaste pianure di Blidah, né in quelle di Medeah. Sentivano per istinto che il pericolo non doveva essere molto lontano.

Zuleik, sicuro del fatto suo, non doveva aver perduto il suo tempo e doveva essersi messo subito in campagna per sorprendere il barone, prima che questi avesse potuto sospettare qualche cosa e mettersi ancora una volta in salvo. Quando Amina giunse sulla collinetta, il cabilo e il suo schiavo stavano spingendo fuori dalla cinta i cammelli ed i montoni per condurli al pascolo, aiutati dai due negri che erano stati incaricati di vegliare sul barone e sui suoi compagni. Anche il Normanno, da vero marinaio, si era già alzato e fumava beatamente la sua pipa fra due tazze di caffè, seduto dinanzi ad una delle due tende. Vedendo quei due cavalieri scendere a precipizio la collina, un certo panico si era manifestato fra gli abitanti del duar, che da quarant'otto ore vivevano in continua ansietà. Non avendo potuto ancora riconoscerli, causa la semioscurità che ancora regnava, tutti si erano ripiegati precipitosamente verso la cinta, abbandonando il bestiame e correndo alle armi. Il Normanno pel primo aveva impugnato il moschetto, credendo in buona fede che quei due cavalieri fossero l'avanguardia di qualche stormo di giannizzeri ed aveva dato ordine d'insellare i cavalli e di svegliare il barone e Testa di Ferro. Un grido però mandato da Hady, li aveva subito rassicurati.

— La principessa! — aveva esclamato il fregatario, deponendo il fucile e correndo verso l'uscita della cinta. — Che cosa significa questo improvviso ritorno? Non recherà certo una buona notizia.

Il barone, che era già stato svegliato, lo aveva raggiunto. Anche egli non era tranquillo rivedendo la mora che l'aveva lasciato il giorno innanzi. — Quali nuove, signora? — le chiese, aiutandola a scendere.

— Cattive, barone — aveva risposto la giovane donna. — Se vi preme la vita partite senza indugio tutti, perché fra poco qui piomberanno i cavalieri del bey.

— Siamo stati traditi? — chiesero ad una voce il Normanno ed il barone, con inquietudine.

— Mio fratello ha scoperto il vostro rifugio e forse non è lontano che poche miglia. Non perdete un istante, verreste presi tutti.

Il cabilo si era accostato al Normanno.

— Chi ci minaccia? — gli chiese.

— Gli algerini; mio povero amico, sarai anche tu costretto ad andartene se non vorrai venire arrestato e fors'anche ucciso.

— Bisogna nascondersi?

— È necessario.

— So dove condurvi.

— Ma tuo fratello ed il tuo bestiame?

— Ahmed lo porterò io; pel mio bestiame non preoccuparti. Al mio ritorno saprò ritrovarlo.

— Tu non perderai nulla — disse Amina. — Io rispondo delle tue ricchezze e sarai largamente indennizzato d'ogni perdita. Quello che preme è di partire subito.

— Non domando che due minuti per allestire un cammello per Ahmed. Non è ancora guarito completamente e non voglio lasciarlo qui.

— Affrettati.

I tre negri avevano rapidamente bardati i cavalli, mentre lo schiavo dei cabili aveva condotto due cammelli corridori scelti nel branco, impareggiabili animali che resistono meglio dei più robusti e più agili destrieri. Mentre Ibrahim ed il Normanno si occupavano del ferito, la principessa in poche parole aveva raccontato al barone in quale modo Zuleik era riuscito a scoprire il luogo ove avevano trovato asilo.

— E voi credete, signora, che vostro fratello sia già sulle nostre tracce? — aveva chiesto il gentiluomo.

— Sono certissima che sta per giungere ed a capo d'un buon numero di cavalieri. Ormai le autorità d'Algeri sanno che fra i rinnegati che hanno assassinato Culchelubi ci eravate anche voi e faranno il possibile per catturarvi e farvi fare la miseranda fine che hanno subita quei disgraziati.

— Sono stati uccisi tutti? — chiese il barone con accento di dolore.

— Fra i più spaventevoli martiri ed a voi toccherebbe l'egual sorte, se doveste cadere nelle loro mani.

— Io tremo per voi, Amina — disse il giovane. — Per proteggere me, esponete la vostra vita. Se vi prendessero assieme a noi?

— Chi oserebbe toccare una discendente dei califfi? Nemmeno il bey lo farebbe. È la vostra vita che è in pericolo e non già la mia. Andiamo barone e pregate il vostro Dio che non sia troppo tardi.

Tutti erano saliti sulle loro cavalcature. Ahmed, le cui ferite avevano già cominciato a rimarginarsi, era stato posto sul miglior cammello, assicurando il fratello di non aver bisogno d'alcun aiuto e di poter resistere ad una lunga corsa.

Il segnale della partenza fu dato ed il drappello mosse velocemente verso la vicina foresta, scortato dai tre negri della principessa, i quali si erano messi alla retroguardia per proteggere la ritirata.

Avevano appena raggiunte le prime piante, quando in lontananza si udì lo scalpitìo di numerosi cavalli, i quali dovevano già galoppare sul terreno roccioso delle colline.

— Vengono — disse Amina, stringendo forte il braccio del barone, il quale cavalcava al suo fianco.

Il Normanno si era accostato rapidamente a Ibrahim.

— Ove vuoi condurci? — gli chiese.

— Sulle rive del Keliff.

— Vè un rifugio sicuro colà?

— Sì. E si trova sotto una cascata.

— La conosce il tuo negro?

— È lui che ha scoperto quel luogo, un giorno in cui veniva inseguito da alcuni predoni giunti dal deserto.

— Occupati dei miei amici, io ti raggiungerò più tardi col tuo schiavo. Desidero sorvegliare le mosse dei miei nemici.

— Non lasciarti cogliere.

— Non temere, Ibrahim.

Fece segno al barone e alla principessa di seguire il cabilo il quale spingeva il suo mahari a corsa sfrenata e tornò verso il margine del bosco, seguito dal negro il quale montava, come il suo padrone, un cammello corridore. Il Normanno, visto un macchione foltissimo, vi si cacciò dentro. Scese dalla sella, coprì la testa del cavallo colla gualdrappa di lana azzurra affinchè non nitrisse e si sdraiò fra le piante, imitato dal compagno. Da quel luogo poteva osservare i nemici, senza correre il pericolo di venire scoperto. Il duar non era che a cinquecento metri e la collina gli stava quasi di fronte.

Non erano ancora trascorsi dieci minuti, quando udì, sulla cima dell'altura, delle grida:

— Il duar! Il duar!

Zuleik era comparso pel primo, slanciandosi a corsa furiosa giù per la china e dietro di lui scendevano, in disordine, una cinquantina di giannizzeri tutti bene montati e formidabilmente armati.

Dovevano aver percorso quelle quaranta e più miglia, tutto d'un fiato perché erano coperti di polvere ed i loro cavalli erano bianchi di schiuma. La banda si era divisa in due colonne, in modo da prendere in mezzo il duar ed impedire la fuga ai suoi abitanti.

— Se la principessa non giungeva in tempo era ben finita per noi — mormorò il Normanno. — Chi avrebbe resistito a tanti nemici?...

Zuleik con un solo salto aveva fatto varcare al cavallo la piccola palizzata ed era piombato sulla tenda più vicina colla scimitarra in pugno, gridando:

— Arrendetevi!

Naturalmente nessuno aveva risposto. Il moro, inquieto, era sceso da cavallo e si era precipitato sotto il feltro mentre i giannizzeri irrompevano nell'altra. Urla furiose avvertirono il Normanno che era tempo di andarsene. I giannizzeri erano tornati precipitosamente ai loro cavalli per perlustrare i dintorni e la foresta era troppo vicina perché il fregatario si indugiasse ancora.

— Andiamocene — disse al negro. — Ne sappiamo abbastanza e non potremo resistere a tutti quei giannizzeri.

Salirono l'uno sul cavallo, l'altro sul mahari e si slanciarono attraverso la foresta, mentre gli algerini si disperdevano per la pianura cercando le tracce dei fuggiaschi.

Il Normanno, almeno pel momento, non aveva alcun timore di venire raggiunto ed era certo di guadagnare un bel numero di miglia, avendo il cavallo ben riposato, mentre quelli degli algerini dovevano essere stremati da quella lunga corsa. Quello che paventava era che potessero rilevare le orme dei suoi compagni, ma però confidava sulla sicurezza del rifugio scoperto dal negro.

Attraversarono così la foresta in tutta la sua lunghezza, impiegando un paio d'ore, poi piegarono verso il sud-ovest passando attraverso una doppia linea di colline rocciose e quasi prive di vegetazione.

Il barone ed i suoi compagni galoppavano al di là delle alture, su una pianura ondulata e semisabbiosa, dirigendosi anche essi verso il sud-ovest, dove si scorgevano le foreste fiancheggianti senza dubbio il Keliff.

Avendo rallentata la corsa per lasciare un po' di riposo al cavallo della principessa e del negro che l'aveva accompagnata al duar, i quali avevano trottato quasi tutta la notte, fu cosa facile al Normanno raggiungere il drappello prima che scomparisse sotto le boscaglie. — C'inseguono? — chiesero ad una voce il barone ed Amina.

— Non ancora — rispose il Normanno. — Non tarderanno però a scoprire le nostre tracce e sono in cinquanta.

— Guidati da mio fratello? — chiese Amina.

— Sì, signora.

— Quanto è vendicativo Zuleik — disse la principessa. — Nei suoi odi è implacabile e non perdona. Se crede però di vincere contro di me s'inganna e glielo proverò.

— E tutto per me — disse il barone.

— No, per la cristiana — rispose Amina, coi denti stretti.

Allentò le briglie del cavallo forzandolo a riprendere la corsa, probabilmente per troncare quel colloquio che doveva esserle assai penoso. Alle dieci del mattino il drappello si cacciava sotto i boschi che fiancheggiavano il fiume. Ibrahim ed il suo negro si scambiarono alcune parole, poi si misero alla testa del gruppo dirigendosi sempre verso il sud. In lontananza si cominciava ad udire un rombo sonoro che pareva prodotto da un'enorme massa d'acqua precipitantesi dall'alto.

— È la cascata — disse il cabilo al Normanno che lo interrogava. — Fra un quarto d'ora noi avremo trovato un rifugio che sfiderà tutte le ricerche dei tuoi nemici.

La traversata del bosco si compì senza difficoltà e venti minuti dopo i cavalieri si arrestavano sulla riva del Keliff.

In quel luogo il fiume, largo oltre cento metri, si precipitava con estrema violenza da una rupe alta non meno di cinquanta piedi, lanciando in aria turbini d'acqua polverizzata in mezzo ai quali spiccava uno splendido arcobaleno.

La massa, nella caduta, formava un semicerchio senza toccare la parete rocciosa che era piuttosto rientrante anziché sporgente.

— Dov'è il rifugio? — chiese il Normanno al cabilo.

— Sotto la cascata.

— Dietro la colonna d'acqua?

— Sì.

— Come scenderemo noi?

— Ho portato con me una solida fune che ci permetterà di raggiungere la roccia. Vi è là sotto una specie d'antro dove noi ci nasconderemo senza correre pericolo alcuno.

— E credi tu che i giannizzeri non verranno qui?

— Vengano pure.

— Ed i cavalli?

— Li sacrificheremo e li getteremo nel fiume. Vieni a vedere, fratello.

Prese il fregatario per una mano e lo trasse sull'orlo della cascata.

In quel luogo la riva del fiume era tagliata a picco, ma un metro più sotto si scorgeva una specie di cornicione, sufficientemente largo per permettere il passaggio ad un uomo e che si inoltrava sotto l'immenso getto d'acqua, il quale, per la spinta ricevuta, cadeva molto al largo dalle pareti rocciose.

— Vedi quel margine? — disse il cabilo.

— Sì — rispose il fregatario.

— Seguendolo, arriveremo al rifugio.

— Diavolo! — esclamò il marinaio. — Prenderemo una doccia che ci inzupperà fino alle ossa e qualcuno proverà le vertigini.

— Meglio bagnarsi che farsi uccidere — rispose il cabilo.

— Non parlavo di me; è la principessa che si troverà a mal partito. Potrà resistere alla spinta dell'aria e all'attrazione dell'abisso?

— La aiuteremo. D'altronde non scenderemo che all'ultimo momento.

Tornarono verso i compagni i quali si erano seduti sull'erba, all'ombra di un gigantesco fico e si preparavano a far colazione.

Non sapendo quanto sarebbe potuto durare quella corsa, Testa di Ferro, da uomo previdente, prima di lasciare il duar aveva fatto riempire i sacchi appesi alle selle dei mahari di focacce d'orzo, di formaggi e di datteri e si era anche incaricato di portare un mezzo agnellino arrostito avanzato la sera innanzi. Avevano però prese le loro precauzioni per non venire sorpresi, mandando due negri sul margine della foresta a sorvegliare la pianura. La principessa che pareva di buon umore e che rideva volentieri col barone, lieta forse di aver giuocato così bene Zuleik, aveva dato per la prima l'assalto alle focacce e all'arrosto e tutti l'avevano imitata.

— Approfittiamo finché abbiamo tempo — aveva detto.

Terminato il pasto si erano seduti in circolo, discutendo animatamente sulla loro situazione. Tutti si chiedevano, con una certa ansietà, come sarebbe terminata quell'avventura e quando avrebbero potuto far ritorno in Algeri per tentare l'ultimo colpo, ossia la liberazione della contessa di Santafiora. Stavano chiacchierando da qualche ora senza riuscire a trovare una risoluzione dell'arduo problema, quando videro tornare i due negri che avevano mandato in perlustrazione.

Vedendo i loro visi sconvolti, compresero subito che non dovevano recare buone notizie.

— Vengono, è vero? — aveva chiesto Amina, alzandosi.

— Sì, signora — aveva risposto uno dei due. — Un grosso drappello di cavalieri ha attraversato le gole delle colline e trotta lentamente attraverso la pianura.

— Hanno trovato le nostre tracce — disse il barone guardando con inquietudine la principessa. — Certo giungeranno qui.

Il cabilo si era alzato coll'yatagan in pugno.

— Conducete i cavalli ed i cammelli sull'orlo della cateratta, bisogna farli scomparire.

— Ammazzare dei cavalli di così gran valore! — esclamò il Normanno, con dolore.

— È necessario, fratello.

— Sacrificateli pure — disse Amina. — Nelle mie scuderie ne ho ben altri.

I negri avevano prontamente obbedito. Trassero gli animali fino alla cascata, con pochi colpi di yatagan uno ad uno li abbatterono facendoli cadere nell'abisso spalancato.

— Ecco dei bei zecchini che se ne vanno — disse Testa di Ferro, che assisteva al massacro.

Fatti sparire gli animali, il cabilo si era spinto sopra il cornicione legando una corda di pelo di cammello alla punta d'una rupe.

— Io scendo pel primo, — disse, — poi la signora.

— Un momento — disse il Normanno. — Chi staccherà la fune? Se la lasciamo legata alla roccia e pendente nell'abisso i giannizzeri s'immagineranno che noi abbiamo cercato un rifugio sotto la cascata.

— Il mio negro, che scenderà ultimo, s'incaricherà di levarla — rispose il cabile. — È agile come una scimmia e si è calato altre volte da solo.

S'aggrappò alla fune e si lasciò scivolare fino sul cornicione che conduceva sotto il salto d'acqua.

La principessa, il barone, poi tutti gli altri lo raggiunsero stringendosi contro la parete e guardando con terrore l'abisso che si apriva sotto i loro piedi. L'enorme massa d'acqua nel cadere produceva una corrente d'aria violentissima che minacciava di spazzare via quel gruppo umano. Spruzzi mostruosi cadevano da tutte le parti, inondando i fuggiaschi i quali si trovavano avvolti, certi momenti, in una vera nube di schiuma che impediva loro di vedere il cornicione.

Il rombo poi prodotto dalla gigantesca colonna frangentesi in fondo all'abisso era tale, che tutti si sentivano il cervello intronato.

— Chi soffre le vertigini chiuda gli occhi! — aveva gridato il Normanno.

Il cabilo si era fatto passare la fune che il suo servo aveva staccato prima di lasciarsi scivolare lungo la parete. Fece annodare una estremità ad una radice che spuntava da un crepaccio, prese l'altro capo e si cacciò risolutamente sotto la colonna d'acqua, scomparendo fra un turbinìo di spuma. Passarono alcuni istanti d'angosciosa attesa. Il cabilo però doveva aver raggiunto felicemente il rifugio perché la corda si era bruscamente tesa.

— Ho compreso — disse il Normanno. — Egli ci offre un buon punto di appoggio.

Poi accostando le labbra ad un orecchio della principessa gli gridò:

— Aggrappatevi alla fune, signora. Io vi precedo.

La mora fece col capo un segno affermativo. Tutti tenendosi stretti alla fune e ben addosso alla parete, si misero in marcia seguendo lentamente e con infinite precauzioni il cornicione.

Ben presto si trovarono sotto il salto d'acqua il quale, in causa della spinta, formava una meravigliosa arcata, lasciando un vasto vuoto dietro di sé. Il momento era terribile. Perfino il Normanno si era sentito gelare il cuore e per un istante aveva chiuso gli occhi per non subire l'attrazione dell'abisso entro cui le acque muggivano e scrosciavano con un frastuono spaventevole.

Getti di spuma, che la corrente d'aria prodotta dalla cascata, spingevano da ogni parte, s'abbattevano sugli audaci avviluppandoli e acciecandoli. Strane luci che avevano tutti i bagliori dell'arcobaleno e che ad ogni istante variavano tinta, si riflettevano dietro la cascata che il sole faceva scintillare come una immensa campana del più puro cristallo.

Ansanti, inzuppati d'acqua, col cervello intronato, il cuore sospeso i fuggiaschi si erano arrestati un momento per riprendere lena, tenendosi disperatamente aggrappati alla fune. La voragine esercitava su di loro un'attrazione irresistibile e si sentivano, certi momenti, mancare e come presi da un pazzo desiderio di abbandonarsi e di lasciarsi cadere fra tutti quei nembi di spuma che muggivano sotto i loro piedi.

Un grido che echeggiò dentro la cascata, gli strappò da quella pericolosa situazione.

— Presto! Giungono!

Era stato Ibrahim a lanciarlo.

— Avanti! — aveva gridato il barone sorreggendo con una mano Amina.

Guardando dove posavano i piedi per non scivolare sul cornicione e tenendosi sempre addosso alla parete e bene aggrappati alla fune, si spinsero innanzi. Fra le ondate d'acqua polverizzata si scorgeva vagamente il cabile il quale agitava le braccia facendo segno che si affrettassero.

Erano giunti quasi in mezzo alla cascata. Il cabile afferrò il Normanno che veniva pel primo e lo trasse a sé, gridandogli in un orecchio: — I giannizzeri.

Poi lo spinse entro una cavità che s'apriva nella parete. Era un antro, prodotto forse da qualche scoscendimento, di forma irregolare, capace di contenere una diecina di persone. L'acqua filtrava da tutte le parti ma essendo il terreno molto pendente sfuggiva subito.

Dinanzi la cascata strapiombava, lasciando fra la sua curva e la parete rocciosa uno spazio di parecchi metri, un vuoto che si prolungava dall'una all'altra riva e dove l'aria si agitava violentemente.

Il rombo era anche colà così intenso che le rocce tremavano ed i fuggiaschi non potevano intendersi se non gridando a squarciagola. Appena tutti si furono accomodati entro la cavità, il cabilo prese per una mano il barone e lo condusse verso l'uscita, additandogli la riva destra. Attraverso la colonna d'acqua la cui trasparenza non impediva di scorgere le due sponde, il giovane gentiluomo distinse parecchi cavalieri i quali galoppavano innanzi ed indietro come se cercassero delle tracce.

— Sì, i giannizzeri — mormorò il barone.

Anche il Normanno li aveva raggiunti e li spiava attentamente. I cavalieri, una ventina se non di più, erano saltati a terra e continuavano a guardare le erbe allargando sempre più le loro ricerche. Dovevano aver seguite le orme lasciate dai cavalli e dal mahari, specialmente sull'umido suolo delle foreste, ma non ne trovavano più la continuazione.

Dovevano essere ben sorpresi, poiché non potevano ammettere che i fuggiaschi avessero attraversato il fiume, che anche al disotto della cascata correva turbinoso, formando dovunque dei gorghi pericolosissimi assolutamente insuperabili.

— Che bella occasione per fucilarli, — disse il Normanno — e senza correre il pericolo di venire scoperti, dietro a questa cortina d'acqua e che non possono udire le detonazioni fra questo rombo assordante. Peccato che i nostri moschetti siano pieni d'acqua.

Per più di un'ora i giannizzeri continuarono a cercare, vagando sulla riva, poi, disperando di poter ritrovare le tracce si erano decisi ad allontanarsi, seguendo il corso del fiume.

Un po' più tardi un altro drappello giungeva presso la cascata riprendendo le ricerche con egual esito negativo. Furono veduti quei cavalieri radunarsi e discutere a lungo, poi anche quelli se ne andarono, prendendo la medesima direzione dei primi.

Quantunque fossero certi di non venire più importunati, i fuggiaschi non osarono abbandonare il loro rifugio.

Volevano aspettare il tramonto prima di riguadagnare la riva, temendo un nuovo ritorno dei nemici.

Le ore però trascorsero senza che i cavalieri si facessero rivedere. Certo avevano continuato a dirigersi verso ponente, convinti che il barone ed i suoi compagni fossero fuggiti verso Milianah per poter raggiungere di là la costa. Un po' prima che il sole calasse, lo schiavo di Ibrahim, servendosi delle radici e dei crepacci, risalì la riva per andare a esplorare i dintorni. Vedendolo tornare verso la cateratta con passo tranquillo, il Normanno ed il cabilo diedero il comando della partenza.

La traversata del cornicione fu compiuta con meno difficoltà essendosi ormai tutti abituati a guardare l'abisso. La fune fu lanciata dal negro che stava sulla cima della roccia e uno ad uno lasciarono finalmente quel baratro, rifugiandosi nella vicina boscaglia.