Le pantere di Algeri/Capitolo 15 - I due rivali alle prese

Capitolo 15 — I due rivali alle prese

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Capitolo 15 — I due rivali alle prese
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15.

I DUE RIVALI ALLE PRESE


Cominciavano ad apparire i primi raggi del sole, quando i tre cavalieri giungevano nelle pianure di Blidah, che in quel tempo erano solamente occupate da boschi di querce, di palmizi, da macchioni di fichi d'India altissimi, da cespi enormi di aloè e da rari duar, dispersi a grandi distanze gli uni dagli altri, formati da una diecina o meno di tende, ed abitati da famiglie di pastori. Era su quei terreni sgombri da coltivazioni che i ricchi mori della nobiltà berbera, si abbandonavano alle corse sfrenate sui loro velocissimi destrieri, eseguendo le fantasie turbinanti dei giuochi della polvere per addestrarsi alla guerra e alle cacce, coi falchi, divertimento riserbato ai personaggi d'alto lignaggio, agli sceikki, ai cadi, ai capitani di galere e ai principi nelle cui vene scorreva il sangue dei califfi.

Come lo è anche oggidì, in quei tempi, la falconeria teneva un posto importantissimo fra i divertimenti dei barbareschi, forse ancor più che fra i feudatari europei.

Il possedere falchi e levrieri, il cacciare con questi ausiliari, erano indizi di nobiltà d'origine o di funzioni importanti occupate. Un individuo qualunque, per quanto ricco, non poteva usare né gli uni né gli altri, senza incorrere in pene talvolta gravi oltre lo scherno degli abitanti.

Tutti i ricchi mori avevano i loro falconieri, ma anche i padroni si interessavano con grande passione dei falchi, i quali occupavano nella famiglia un posto eguale a quello del cavallo, che come si sa, pel berbero e per l'arabo viene anteposto perfino alla donna. Però, cosa strana, un falco non veniva quasi mai tenuto prigioniero e usato più d'una stagione per quanto valente fosse. Terminate le grandi cacce che avevano luogo per lo più in autunno, dimostrando quei rapaci maggior bravura e slancio nei giorni brumosi e freddi piuttosto che caldi, li si rimetteva in libertà e si noti che sovente uno di quegli uccelli si pagava molto più d'un buon cavallo.

Anche oggidì gli algerini li prendono in estate, non usando mai falchi nati in schiavitù, li addestrano per due o tre mesi e verso la fine dell'anno li lasciano andare.

Curiosissimo poi è il sistema usato dai falconieri per prenderli. Saputo dove vi sono nidi, avvolgono un piccione in una sottilissima rete di crine che non impedisce al volatile alcun movimento, tanto è leggera, e lo lasciano in libertà. I falchi non tardano a piombare sulla preda e i loro artigli si impigliano nelle fitte maglie della reticella, in modo da non poter più riprendere il volo e allora vengono facilmente presi.

Quando il Normanno ed i suoi compagni giunsero nella pianura di Blidah, la caccia era già cominciata. In un vasto spiazzo, racchiuso da boschi di palme e di quercia, due dozzine di cavalieri si erano già radunati presso alcune tende che erano state rizzate durante la notte da alcuni schiavi.

In mezzo a quel brillante gruppo di mori e di falconieri sfarzosamente vestiti, con mantelloni bianchi infioccati e giubbetti ricamati in oro ed argento e grandi turbanti variopinti, il barone, che si era arrestato su una piccola altura ombreggiata da gigantesche querce, aveva subito riconosciuto Zuleik. L'ex-schiavo della contessa di Santafiora, tornato principe, montava un superbo cavallo nero di forme perfette, bardato in rosso e oro e teneva uno sulla spalla destra, un altro in pugno due grossi falchi colla testa chiusa in un cappuccio di marocchino guernito di piccole penne di struzzo e ricamato in argento. Cavalcava dinanzi a tutti in attesa della selvaggina che gli schiavi stavano scovando.

Nel vedere il suo rivale, un'ondata di sangue aveva imporporato il volto del giovane e le mani, istintivamente, avevano afferrato il lungo fucile appeso alla sella.

Il Normanno che lo sorvegliava attentamente, si era subito accorto di quell'atto.

— Che cosa fate, signor barone! — aveva esclamato, con tono di rimprovero. — Essi sono una ventina, senza contare gli schiavi, mentre noi non siamo che in tre, o meglio in due. Non è questo il momento di agire.

— Sì, avete ragione — rispose il povero giovane. — Stavo per commettere una grave imprudenza.

— Se avrete pazienza, la buona occasione non mancherà. Quando i battitori avranno scovata qualche gazzella o delle lepri, i cavalieri saranno costretti a disperdersi. Mi pare che per ora vogliano lanciare i loro falchi contro gli aironi e le pernici; più tardi li lanceranno sulla selvaggina più grossa. Fermiamoci qui e aspettiamo.

Scesero dai cavalli che legarono al tronco d'una quercia e si stesero sull'erba, dietro alcuni cespi d'alloro che li nascondevano interamente. Dominando quella collinetta la vasta pianura potevano seguire senza fatica le diverse fasi della caccia e non perdere di vista Zuleik, il cui turbante verde spiccava fra tutti gli altri che erano invece variegati.

Il moro guidava i suoi compagni verso una piccola palude che si estendeva quasi alla base della collinetta, dove si vedevano svolazzare numerosi aironi dal lungo e acutissimo becco, i soli volatili che possano contendere la vittoria anche ai più valorosi falchi.

— Vogliono provare prima l'abilità dei loro rapaci — disse il Normanno, che aveva già assistito ad altre di quelle cacce. — Quando li avranno agguerriti, scoveranno qualche gazzella e sarà quello il buon momento. Signor barone, non perdete mai di vista Zuleik.

— L'avrò sempre sotto i miei occhi — rispose il giovane. — Voi non potete immaginare quanto io l'odio e quanta sete abbia del suo sangue.

— Brutto affare — sospirò Testa di Ferro. — Se il padrone ci si mette, chissà dove andremo a finire e se questa sera saremo ancora vivi. In questo maledetto paese non si può rimanere un momento tranquilli.

La cavalcata, sempre preceduta da Zuleik, si era arrestata sul margine della piccola palude, disponendosi su una doppia linea, coi falconieri alle estremità. Il moro, dopo d'aver constatato che fra i canneti si trovavano parecchi aironi occupati a dar la caccia ai pesciolini ed agli insetti acquatici, aveva levato il cappuccio al falco che teneva sul pugno, sciogliendogli contemporaneamente la catenella d'oro che lo teneva prigioniero.

Era un bellissimo terakel, o falcone sacro, specie piuttosto rara anche in Algeria e molto stimata per la robustezza del becco e delle ali e per la violenza dell'attacco. Il falcone, abbagliato dalla luce, era rimasto un momento fermo, sbattendo vivamente le ali, ma ad un fischio del suo falconiere che si era collocato a fianco di Zuleik, spiccò la volata, innalzandosi quasi verticalmente sul drappello dei cavalieri.

Giunto a cinquanta metri d'altezza, cominciò a roteare e questa volta sopra la palude.

Un airone, dal ciuffo copioso, scorgendolo e presentendo il pericolo, erasi levato fra i canneti, cercando di mettersi in salvo sulla riva opposta, dove sorgevano numerose querce fra i cui rami poteva trovare un rifugio. Il rapace, che si teneva pronto, si era lasciato cadere con una velocità fulminea, costringendolo a posarsi su un isolotto.

Il trampoliere, un vero valoroso, si era subito rizzato sulle lunghe zampe respingendo l'assalto coll'aguzzo becco. Lavorava di testa con rapidità vertiginosa, colpendo senza tregua, ora alzandosi ed ora abbassandosi, evitando di lasciarsi cogliere alle spalle.

I cavalieri invano eccitavano il falco il quale aveva ben da fare a salvarsi dai colpi di becco e si esauriva in inutili attacchi. Volteggiava, s'innalzava per poi lasciarsi cadere di colpo, s'avventava arruffando le penne e mostrando gli artigli pronti a lacerare, e senza riuscire a stancare l'avversario che anzi opponeva sempre una ostinata resistenza. La lotta durava già da una diecina di minuti con grande interesse dei mori, quando Zuleik sciolse il secondo falcone, che teneva appollaiato sulla spalla.

Era un altro terakel, più grosso del primo e certamente più robusto. Vedendo il compagno alle prese coll'airone, con una volata rapidissima fu sopra i due combattenti e col suo potente becco colpì il povero trampoliere sulla testa, spaccandogli la scatola ossea. La lotta era appena finita, quando nella vicina boscaglia si udirono gli schiavi a urlare a squarciagola:

— La gazzella! Pronti i falchi!

Un grazioso animale, che somigliava ad un capriolo e dal pelame fulvo, si era slanciato attraverso la radura fiancheggiante la piccola palude; seguito quasi subito da altri quattro. Vedere i cavalieri e scomparire colla rapidità delle frecce, fu un momento solo.

I mori avevano spronato i loro cavalli senza più occuparsi dei due falchi. Ne avevano già ben altri da lanciare dietro agli animali.

Il Normanno si era alzato.

— Signor barone — disse. — Fra poco tutti quei cavalieri si disperderanno e credo che non sarà difficile incontrare il moro in mezzo alla foresta. Eccolo, guardate: galoppa già col suo falconiere verso quel palmeto dietro una delle gazzelle, mentre gli altri danno la caccia alle altre che hanno prese diverse direzioni. Venite: conosco questi luoghi.

Balzarono in arcione e scesero la collina dal lato opposto, trottando sull'altra riva della palude.

Le grida dei mori si perdevano in lontananza, ma il Normanno aveva ben osservato la direzione presa da Zuleik e dal suo falconiere. Attraversò il bosco di querce, spingendo i cavalli a corsa sfrenata, quindi un palmeto assai folto che si prolungava sulla riva d'un fiumicello e salì una seconda collinetta, più alta della prima, dalla cui cima poteva seguire tutte le peripezie della caccia e tenere d'occhio l'ex-schiavo.

Zuleik, sempre seguito dal suo falconiere, galoppava a quattro o cinquecento metri dalla collina, seguendo il margine d'un macchione, tentando di stancare la gazzella che gli fuggiva dinanzi, prima di lanciarle contro i due falchi incaricati di strapparle gli occhi. Gli altri si vedevano dispersi qua e là, a due, a quattro, a grande distanza però. Alcuni erano già scomparsi dietro le macchie e galoppavano forse in mezzo ai boschi.

— Lo incontreremo — disse il Normanno. — Ciò si chiama aver fortuna.

— A me Zuleik, a voi il falconiere — disse il barone. — Testa di Ferro lo terremo in riserva.

— Rimarrò invece qui per sorvegliare gli altri, signore. Possiamo venire sorpresi alle spalle. Quale segnale dovrò dare? — chiese il catalano, ben felice di rimanersene inoperoso.

— Scaricate il vostro fucile — disse il Normanno. — Signor barone, Zuleik si è spinto nel bosco. È nostro!

Ridiscesero la collina e si cacciarono fra le palme, le quali formavano una vera foresta, mescolandosi a fichi d'India e ad aloè immense.

Udendo sulla sua destra il galoppo dei due cavalli di Zuleik e del falconiere, il Normanno dopo aver percorsi centocinquanta passi s'arrestò in mezzo ad una piccola radura, dicendo al barone:

— Preparatevi, signore.

Il giovane aveva già la scimitarra in pugno e un lampo terribile negli sguardi.

— Voi volete ucciderlo? — gli chiese.

— Sì — rispose il barone con voce risoluta.

— Vi consiglierei invece di farlo prigioniero. Quando sarà in nostra mano potremo esigere pel suo riscatto la libertà della contessa.

— Lo credete?

— Sarebbe buona politica, signore. Morto servirebbe più a nulla; vivo sarebbe un ostaggio prezioso. Tentate di disarmarlo mentre io mi sbarazzo del falconiere.

— Preferirei ucciderlo — disse il barone con voce cupa.

— Quando la contessa sarà libera, nessuno vi impedirà di mandarlo all'altro mondo. Oggi, signore, fareste un pessimo affare. Ecco la gazzella! Le armi in pugno, signore e sbrighiamoci presto.

Il grazioso animale si era slanciato nella radura col pelame grondante di sudore, gli occhi dilatati dal terrore, la lingua penzolante, i fianchi ansanti. Sopra di lui volteggiavano i due avvoltoi del moro, pronti a piombargli addosso alla prima sosta e divorargli gli occhi.

Accortosi della presenza di quei due cavalieri, si era arrestata cercando da qual parte poteva fuggire. Quel momento di esitazione era stato subito messo a profitto dai due rapaci.

Lesti come fulmini, si erano precipitati di comune accordo sul capo della povera bestia, la quale si era piegata, mandando un doloroso gemito.

I suoi occhi, strappati di colpo, erano già nei becchi dei falchi.

Quasi nel medesimo istante giungevano Zuleik ed il suo falconiere coi cavalli coperti di schiuma.

Scorgendo il Normanno ed il suo compagno, fermi in mezzo alla radura e colla scimitarra in pugno, con una violenta strappata avevano arrestati i loro corsieri.

— Chi siete voi e che cosa volete? — chiese il moro, aggrottando la fronte e posando la destra sull'impugnatura dell'yatagan, che teneva appeso alla sella.

Il barone aveva rigettato il capuccio, dicendo:

— Mi conosci, Zuleik Ben-Abad, ex-schiavo e suonatore di tiorba della contessa di Santafiora? Che cosa voglio da te? La tua vita o la tua libertà.

Il moro era rimasto muto, guardandolo con terrore. Quantunque il barone avesse la pelle bruna l'aveva subito riconosciuto dai suoi capelli biondi e dai suoi lineamenti femminili.

— Voi... qui... — esclamò finalmente, stringendo le ginocchia e snudando con un gesto rapido l'yatagan.

— Non vi aspettavate certo d'incontrarmi, — disse il gentiluomo con ironia, — che cosa ne avete fatto della contessa, traditore?

Se il barone era coraggioso, anche il moro aveva sangue di guerrieri nelle vene e lo sgomento non poteva quindi durare molto in lui.

— Ah! Volete la mia vita! — disse, facendo impennare il cavallo. — A me, falconiere! Spazziamo via questi cristiani!

Il suo compagno era un uomo robusto, tozzo, barbuto come un orso, un avversario degno di misurarsi col Normanno e armato al pari del padrone. Udendo quell'appello, lanciò il cavallo contro il barone, credendo di aver buon giuoco con quel cavaliere che aveva più le apparenze d'una bella fanciulla araba che d'un guerriero, ma il fregatario, che fino allora era rimasto immobile, con una speronata gli si avventò contro sbarrandogli il passo.

— Bada! — gridò. — È con me che devi misurarti e t'uccido!

— Fuggi Malek! — gridò Zuleik. — Corri a chiamare i mori!

Era troppo tardi per eseguire quell'ordine. Il Normanno aveva attaccato a fondo il falconiere, incalzandolo a gran colpi di scimitarra e costringendolo ad accettare il combattimento.

Intanto Zuleik ed il barone, si erano scagliati l'uno contro l'altro, cogli occhi sfavillanti d'odio, i lineamenti contratti dall'ira; risoluti ad impegnare un duello mortale.

Entrambi erano destri, rotti a tutti gli esercizi delle armi e valorosissimi. Se il moro era molto più robusto, il barone era più agile ed aveva il pugno pure solido non ostante le sue apparenze ed era molto più abituato al maneggio della spada. Facevano impennare e balzare i loro cavalli, indietreggiare o scartare bruscamente, guidandoli più colla pressione delle ginocchia che colle briglie e si avventavano colpi tremendi l'uno colla scimitarra e l'altro coll'yatagan, cercando di toccarsi.

Il moro, più astuto, contando certo sull'arrivo dei compagni che potevano preoccuparsi della sua assenza, cercava di prolungare più che poteva la lotta, sfuggendo di quando in quando agli attacchi impetuosi del giovane barone. Con una sapiente speronata, costringeva il cavallo a scartare di frequente e ad indietreggiare colla speranza di raggiungere il margine del bosco e farsi vedere dagli altri. Il barone, che non pensava più ai mori, lo incalzava incautamente, gridando:

— Fa' fronte all'attacco, traditore! Tu hai paura!

E raddoppiava le cariche ed i colpi, allontanandosi sempre più dal Normanno, il quale aveva ben da fare a tener testa al falconiere che si difendeva valorosamente, spiegando un'abilità straordinaria e resistendo tenacemente al furioso tempestare dell'avversario, quantunque fino dal primo urto avesse perduto le dita della mano sinistra.

Zuleik non cessava intanto di indietreggiare. Qualche volta, per mascherare meglio il suo giuoco, caricava e scambiava qualche colpo ma sapendo ormai per prova con quale nemico aveva da fare e che altra volta per poco lo aveva accoppato, s'affrettava a sfuggirgli.

— Finiscila di scapparmi! — gridava il barone esasperato, tentando di spaccare la testa al cavallo. — Se è vero che hai nelle vene sangue di califfi attaccami. Sei un vile e non già un guerriero.

— Tu non mi hai ancora toccato.

— Perché mi fuggi.

— Al momento opportuno ti ucciderò, barone di Sant'Elmo — rispose Zuleik. — Ti farò vedere se ho buon sangue nelle vene.

— Sei un codardo e ti starebbe meglio in mano la tiorba anziché, la spada o l'yatagan.

A quell'insulto sanguinoso Zuleik aveva mandato un urlo di belva ferita. Con una speronata fece balzare innanzi il cavallo e piombò sul gentiluomo menandogli un tale colpo di yatagan che se l'avesse colto gli avrebbe spiccato il capo. Il barone però non era uomo da lasciarsi sorprendere. Parò rapidamente e allungò una botta che lacerò il corsetto di seta del moro, mettendo a nudo la maglia d'acciaio che portava sotto. — Toccato! — gridò.

— Non ancora — rispose il berbero, digrignando i denti. — Sarai tu che ora verrai toccato.

In quell'istante era giunto, sempre indietreggiando, sul margine del bosco e con uno sguardo aveva scorto dei cavalieri che s'avanzavano lungo la riva del fiume.

Mandò un grido formidabile:

— A me, amici!

Nel medesimo istante il falconiere cadeva al suolo col cranio spaccato da un terribile colpo di scimitarra, mentre sulla cima della collinetta rimbombava il moschettone di Testa di Ferro.

Il Normanno, che non vedeva più il barone, aveva spronato il cavallo per correre in suo aiuto, ma non aveva percorso cinquanta passi quando udì alzarsi improvvisamente grida feroci.

— Barone! — gridò. — Fuggite!

Sette od otto cavalieri, fra mori e falconieri, erano sboccati fra gli alberi, tagliandogli il passo.

Approfittando della loro sorpresa, allargò le gambe, raccolse le briglie, poi piantò gli speroni nel ventre del destriere il quale fece un balzo gigantesco, partendo poscia ventre a terra. Passò come un uragano fra i cavalieri che non avevano avuto nemmeno il tempo di porre mano alle armi, minacciandoli con la scimitarra ancora grondante sangue e si spinse verso l'orlo del bosco, gridando:

— Barone! Barone!

Il giovine gentiluomo era già alle prese con quattro o cinque falconieri accorsi alle grida di Zuleik e, quantunque si difendesse disperatamente, stava per venire oppresso.

Il Normanno con una carica irresistibile piombò alle spalle del gruppo, sciabolando a destra ed a manca, poi afferrando il cavallo del barone per la briglia, gli gridò:

— Fuggite, signore! Ci sono alle spalle!

Zuleik aveva riannodati i falconieri per caricare a sua volta, urlando a squarciagola:

— Addosso ai cristiani! Cento zecchini a chi agguanta il giovane!

Il fregatario ed il gentiluomo erano già lontani e galoppavano furiosamente per la pianura, dirigendosi su Blidah i cui minareti spiccavano nettamente sull'azzurro orizzonte.

Alle loro spalle mori e falconieri cavalcavano tumultuosamente, urlando sempre:

— Addosso ai cristiani!

— Cercate di risparmiare le forze del vostro cavallo — disse il Normanno, sbarazzandosi del mantellone. — Eccoci addosso una muta di cani idrofobi che ci darà ben da fare, signor barone. Quel maledetto moro non ci lascerà più, ve lo assicuro.

— E Testa di Ferro?

— Che il diavolo se lo porti! — esclamò il fregatario. — Ha aspettato a dare il segnale quando avevamo i mori alle costole! Penserà a salvarsi come potrà. Non possiamo far nulla e poi credo che nessuno abbia fatto attenzione a lui.

— E Zuleik m'è sfuggito ancora!

— Vi ha giuocato con un abilità diabolica, signore e voi siete caduto nel laccio. Egli vi ha attirato fuori dal bosco, fingendo di non poter tenervi testa.

— È vero — rispose il capitano della Sirena, coi denti stretti. — Ed io che credevo di tenerlo finalmente in mano e di squarciargli il cuore! Ed è la terza volta che evita la punta della mia spada!

— Non conoscete ancora l'astuzia di questi mori. Bah! Partita rimandata che riprenderemo in altra occasione, signore. Ora pensiamo a trarci d'impiccio meglio che potremo. Fortunatamente i nostri cavalli sono riposati e di buona razza e faremo ben correre quei bricconi. E poi, chissà, abbiamo i moschetti e una palla può giungere a segno, anche se siamo in piena corsa.

— Ah! Potessi spezzargli il cuore! — disse il barone. — Sento che se non sopprimo quell'uomo il mio bel sogno sarà per sempre distrutto. È necessario che egli muoia.

— Specialmente ora, signore — rispose il fregatario, che era ben più preoccupato che non volesse sembrarlo. — Ora che sa che voi siete qui, metterà sossopra tutte le autorità di Algeri per farvi prendere e la nostra missione diventerà dieci o cento volte più difficile.

«Se quei maledetti avessero tardato un po' a giungere, tutto sarebbe stato finito a quest'ora, perché ho ben veduto, signor barone, la vostra superiorità nel maneggio delle armi sul moro.

«Ma se riusciamo a sfuggire a questa caccia, riprenderemo la partita. Diamine! Come galoppano quei dannati! Cercano di cacciarci su Algeri; noi non saremo così sciocchi da prestarci al loro giuoco. È verso il deserto che noi dobbiamo fuggire. Se entriamo in città con questa muta arrabbiata alle spalle, per noi la sarebbe finita presto.

«Signor barone, bisogna resistere fino a sera.»

— Dureranno i nostri cavalli?

— Non sono inferiori a quelli dei mori e giuocheremo d'audacia e d'astuzia. Conosco il paese e li faremo trottare a lungo. Proviamo e cerchiamo di guadagnare via per ora.