Le novelle della nonna/Il berretto della saggezza

Il berretto della saggezza

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Il berretto della saggezza

La festa dell’Assunta, che ricorre il 15 d’agosto, è una delle più solenni dell’anno, anche per gli abitanti del Casentino. Le donne di casa Marcucci, che in quel giorno aspettavano da Camaldoli i signori Durini, erano andate alla prima messa, e dopo si eran messe subito a trafficare per casa. Chi faceva le lasagne, chi pelava i polli, chi puliva la casa e ravviava i figliuoli. Anche la Regina aveva voluto adoprar le mani, e si era messa a fare una certa bocca di dama di cui le avevano insegnato la ricetta, mezzo secolo prima, le monache di Pratovecchio, e che i figliuoli rammentavano di averla mangiata soltanto nelle grandi occasioni. Ella era lieta, quel giorno, e non sapeva neppur lei il perché. Le ragioni di cruccio erano aumentate, eppure si sentiva l’animo sollevato, come se un soffio prenunziatore di serenità le avesse fatto dimenticare i dolori; e sorrideva ripensando alle liete occasioni nelle quali aveva impastata una bocca di dama simile a quella. I ragazzi, benché non fossero andati nei boschi a coglier fragole o lamponi, pure non stavano d’intorno alle donne a intralciar le loro faccende. In casa non c’era nessuno, e soltanto uno dei piccini capitava qualche volta e tirava Vezzosa in disparte per dirle qualche parolina nell’orecchio. La giovane sposa sorrideva, rispondeva a bassa voce, e dopo riprendeva le faccende. - Ma mi dici che segreti ci sono oggi? - le domandò la Carola, dopo che questa scenetta si fu ripetuta quattro o cinque volte. - Non posso dirlo; ho promesso di stare zitta e non svelerò il segreto. - A noi lo puoi dire, - ribatté l’altra. - Non lo riferiremo certo ai ragazzi. - Non importa; ho promesso di non fiatare e non voglio che, per un’imprudenza, essi mi tolgano la stima. - Mi fai celia! - esclamò la Carola, paga, peraltro, della risposta. - Si tratta certo di una ragazzata! La Vezzosa non rispose, perché ella non voleva mettersi a tu per tu con la cognata, ma le pareva che la Carola avesse torto di trattar leggermente certe faccende che i ragazzi prendono sul serio. Una mancanza di parola da parte sua, li avrebbe certo afflitti, ed ella voleva vederli gai e allegri. La bella bocca di dama, fatta dalla Regina, fu messa nel forno appositamente scaldato, e, mentre coceva, la Carola apparecchiava per i signori. Intanto le cognate badavano alle pietanze che erano al fuoco. Vezzosa era andata nell’orto a cogliere le pèsche e i fichi, accomodando queste frutte in una specie di rozzo catino di terraglia scura, disponendole sulle felci e ornandole di garofani e di ciuffetti di gerani. - Brava moglie mia! - disse Cecco tornando a casa - tu sai render bello tutto ciò che tocchi. A quel complimento la bella sposa arrossì e posò nel mezzo della tavola quel trionfo gaio di frutta e fiori. La Carola non aveva messi altro che quattro posti, ma la signora Maria protestò. Non voleva che per conto loro i Marcucci ritardassero il loro desinare; dovevano mangiare tutti insieme alla stessa tavola. E questo lo confermò anche la signora Durini giungendo insieme col marito e con l’Annina, la quale, dall’ultima volta, s’era fatta anche più carina e più composta, e si diede subito ad aiutar Vezzosa ad apparecchiar per tutti. Quando le lasagne, condite con l’eccellente sugo di pollo, furono messe in tavola in tre grandi vassoi, il signor Durini volle, con premura insistente, che la Regina si mettesse in capo tavola, ed egli prese posto alla sua sinistra, mentre il professor Luigi le si sedeva a destra. La buona vecchia, commossa da tanto onore, guardava sorridendo i figli, e specialmente Cecco, indovinando che ne fosse molto felice. Infatti il giovane non stava nei panni dalla consolazione, e ascoltava i complimenti che i signori rivolgevano alla Regina per aver saputo educar così bene una numerosa famiglia, e mantenerla saldamente unita dall’affetto. Quando fu portato in tavola la bocca di dama, l’attenzione, distolta momentaneamente dalla Regina, fu richiamata su di lei dalla Vezzosa, la quale fece il giro dei commensali, ed empiendo i bicchierini col vin santo, diceva: - Facciamo un brindisi alla salute della mamma. Allora il signor Durini si alzò, e in poche parole tessé gli elogi di quella buona madre, esprimendo l’augurio che ella rimanesse per lunghi anni ancora a vegliare sulla sua famiglia. Uno scoppio di applausi accompagnò quelle parole; ma mentre la Regina tendeva il bicchiere per cozzarlo con quello del signor Durini, diventò bianca come un cencio lavato e ricadde sulla sedia. Figuriamoci se tutti si spaventassero! Cecco le era balzato accanto e, muto dal dolore, la guardava. Il signor Durini aveva subito spruzzato il viso della vecchia con acqua fresca, ed ella lentamente riaprì gli occhi. - Oh! mamma, che spavento! - disse Cecco. - Oh! mamma, - ripeterono gli altri figliuoli, che si erano alzati. - Non è stato proprio nulla; - disse la Regina, - ma guardate di non darmi troppe consolazioni per non farmi morire. - Mamma, incolpate me! - esclamò Vezzosa, - volevo farvi un bene e vi ho fatto un male. - Il male è passato e la consolazione rimane, - replicò la vecchia. Tutti lodarono moltissimo la squisita bocca di dama; ma Regina si accorgeva che i suoi non erano abbastanza rassicurati. Allora prese a dire: - È una giornata afosa; volete che racconti ora la novella? Più tardi, per il fresco, i signori preferiranno di andare a far due passi. - Brava! brava! - esclamarono tutti. E la Regina, che voleva dimostrare di sentirsi bene, subito incominciò:

- C’era una volta un vecchio di Arezzo, che tutti credevano molto ricco, perché era tanto elemosiniero che nessuno gli chiedeva mai invano la carità. Quest’uomo viveva solo con i suoi due figli; il primo aveva nome Enzo e l’altro Barnaba. La moglie gli era morta da molti anni, e servi non ne voleva intorno sé. Un giorno egli venne a morte, e quando sentì che per lui non v’era più speranza di guarigione, chiamò due amici, nonché suo figlio Enzo, e disse: - È mio desiderio che tutti i miei beni passino a questo mio primogenito; voi potete testimoniare che questa è la mia volontà. Poi fece uscire Enzo e chiamò Barnaba, al quale disse: - A tuo fratello ho lasciato il mio patrimonio; a te non lascio altro che questo berretto che mi fu dato da un uomo che beneficai, e sono sicuro che questo lascito ti renderà più felice delle ricchezze, perché ti darà la saggezza. Nel dir questo, gli dette un logoro berretto di rozzo panno marrone. Il figlio avrebbe voluto respingere il dono e supplicare il padre di metterlo a parte dell’eredità; ma in quel momento lo udì rantolare, e poco dopo era morto. I due testimoni si accòrsero bene che Barnaba non era contento; ma sapendo che era d’animo mite, lo esortarono a rispettare i voleri del padre e a non maledire la memoria di lui, che lo aveva, forse per suo bene, condannato alla povertà. Un altro figlio che si fosse veduto diseredare come Barnaba, sarebbe fuggito di casa senza neppur assistere ai funerali del padre; ma Barnaba era un buon figliuolo, e rimase. Però, vedendo Enzo che subito incominciava ad atteggiarsi, anche con lui, a padrone, attese che il cadavere del padre fosse rinchiuso in un avello della chiesa di San Francesco, e poi, senza prendere neppure gli abiti che gli appartenevano, si mise in testa il berretto e, con pochi piccioli nella scarsella, si pose in cammino per Roma. Prima d’intraprendere il viaggio si sentiva afflitto e accorato; ma appena si fu messo il berretto di rozzo panno, si sentì consolato e gli parve che tutti i beni ereditati a suo danno dal fratello Enzo, non meritassero alcun rimpianto. Egli aveva camminato poche ore quando giunse a un’osteria e chiese pane e vino per rifocillarsi. Nello spiedo giravano delle grasse beccacce, l’ostessa era tutta affaccendata a preparare il fritto e la minestra, e una tavola era già imbandita nel centro della cucina. Dai discorsi dell’oste e della moglie, Barnaba capì che erano attesi due cavalieri di riguardo, che avevano inviato innanzi un servo ad avvertire del loro arrivo. Infatti i due cavalieri non tardarono a giungere insieme con numeroso seguito. Erano ambedue assai giovani e riccamente vestiti, e parevano fra loro amici sviscerati. Essi si sederono a tavola, e Barnaba li vide senza invidia mangiare le pietanze gustose, mentr’egli si contentava di pane e coltello, annaffiato da un vino così aspro da far allegare i denti. - Non sono io felice quanto loro, - diceva fra sé, - dal momento che quel poco che ho mi basta e non provo nessuna invidia? Mentre i due cavalieri mangiavano, presero a parlare delle loro faccende, e Barnaba capì che essi venivano da Firenze, dove avevano combattuto a difesa della città nelle schiere di Malatesta Baglioni. Uno di essi accusava il capitano di aver venduto la città ai Medici e ai loro alleati; l’altro difendeva il Malatesta. Intanto che discutevano animatamente, essi tracannavano bicchieri di vino, che infondeva loro maggior fuoco. Così presero a scambiarsi parole offensive; da queste passarono alle minacce, e finalmente misero mano alle spade. Barnaba si alzò allora e, con mossa rapida, gettò il suo berretto in testa al più accanito dei combattenti, il quale, tiratosi indietro e abbassata la spada, dette in una risata, dicendo: - Amico, siamo due pazzi! - Perché? - domandò l’altro sbalordito dal cambiamento dell’avversario. - Perché a noi non deve premer punto se Malatesta è un traditore o no. Noi non siamo fiorentini: mettemmo la nostra spada al servizio della Repubblica; ci siamo coraggiosamente battuti; abbiamo avuto il danaro promessoci, e perché dovremmo ucciderci per una cosa che non ci riguarda? L’altro, però, non si mostrava convinto e sosteneva di essere stato offeso e di voler riparazione. Allora Barnaba tolse il berretto di testa al cavaliere saggio, e lo fece volar sul capo dell’ostinato, il quale si calmò subito, e disse: - Riconosco, amico, che tu hai ragione; stringiamoci la mano e ritorniamo a bere. - Una parola, messere, - rispose Barnaba. - La vostra saggezza vi viene dal mio berretto; ora che siete divenuti ragionevoli, vi prego di restituirmelo, perché esso è la mia sola ricchezza. I due cavalieri, meravigliati, invitarono il giovine alla loro tavola e gli domandarono spiegazione delle sue parole; e Barnaba narrò loro come suo padre, in punto di morte, glielo avesse consegnato. Egli stesso aveva esperimentato su se stesso la sua virtù, poiché, invece di arrabbiarsi vedendosi spogliato di ogni avere, aveva sopportato in santa pace la sua sventura e si sentiva pago e contento del proprio stato. - E su di noi pure l’hai esperimentata, - dissero i cavalieri. - Noi ti siamo grati di averci trattenuti dal commettere una vera pazzia; e, per dimostrarti la nostra gratitudine, ti preghiamo di accettare questa borsa, in memoria della nostra riconciliazione. Barnaba l’accettò, perché sapeva di averla meritata, e riprese il viaggio, sentendosi il più felice dei mortali. Un passo dopo l’altro giunse a Cortona, e appena posto il piede nell’antica città, vide un insolito correr di gente affaccendata. I mercanti chiudevano lo sporto delle botteghe, i servi sbarravano i portoni dei palazzi, e la campana del palazzo pretorio faceva udire i suoi rintocchi chiamando i cittadini alle armi. «Qui c’è da far per me», pensò Barnaba. E si diresse verso la piazza municipale, supponendo che là vi fosse bisogno del suo aiuto. Ma prima di farlo, volle sapere di che cosa si trattava, e, domandatone a una donna, fu informato che il popolo, malcontento del gonfaloniere Venuti, che era accusato di parteggiare per i Medici, lo voleva destituire per sostituirgli un Diligenti. Il Gonfaloniere non voleva cedere, e aveva fatto dare nella campana. Intanto il Diligenti, riuniti i suoi partigiani, si preparava a dare l’assalto al palazzo pretorio, nel quale il Gonfaloniere si era rinchiuso. - Correrà del sangue, - concluse la donna tristamente. - Non correrà, - rispose Barnaba. E fattosi indicare da qual parte sarebbe giunto il Diligenti, lo attese sul canto di una via. In breve vide una turba di cittadini armati, e dietro a loro un cavaliere bello e ardito, che la gente acclamava al grido di: «Viva il nostro Gonfaloniere!». Il Diligenti, poiché era proprio lui, salutava agitando il cappello, Barnaba approfittò di quel momento in cui il cavaliere era a capo scoperto per lanciargli in testa il suo berretto. All’improvviso, messer Diligenti, mentre stava per entrare sulla piazza, fermò il cavallo, come se fosse assalito da un subito pentimento alla vista del palazzo pretorio. - Avanti! Avanti! - gridava la folla vedendo che esitava. - Un momento, amici, - disse il capo dei rivoltosi. - Non dobbiamo distruggere un monumento, che è vanto della nostra città. Lasciatemi solo; io andrò a parlare col Gonfaloniere, ed egli mi cederà il governo di Cortona. Il berretto era caduto di testa a messer Diligenti, ma la saggezza gli era rimasta nel cervello. Infatti egli scese da cavallo, ordinò alla folla di sgombrare la piazza, e si avviò solo verso l’imponente edifizio, sormontato dalla torre. Barnaba gli tenne dietro e lo fermò. - Messere, - gli disse, - voi dovete la saggezza al mio berretto; permettetemi di accompagnarvi, perché possa infonderla anche al Gonfaloniere. Messer Diligenti guardò il giovane meravigliato, ma rammentandosi di aver sentito svanire dal cervello i bellicosi propositi appena quel berretto, che ora vedeva in testa a Barnaba, gli aveva sfiorato il capo, annuì, e insieme con lui chiese di essere ammesso alla presenza del Gonfaloniere. Questo permesso non gli fu negato, sperando che volesse far atto di sottomissione, e venne introdotto alla presenza di messer Lorenzo Venuti. - Che volete da me, messere? - gli chiese il Gonfaloniere appena lo vide. - Nulla, - rispose l’altro. - Voglio rammentarvi soltanto che noi siamo entrambi figli di questa terra e che sarebbe perfidia se per le gare che ci dividono si esponessero alla morte i cittadini. - Dunque fate atto di sottomissione? - domandò il Gonfaloniere. - Piena ed intera. Voi, però, dovete sgombrare questo palazzo, che sarà affidato alla custodia degli Anziani, ed essi eleggeranno il nuovo Gonfaloniere. Se voi rimanete qui, io non potrei trattenere i miei partigiani dal dar l’assalto al palazzo, e il sangue correrebbe a rivi per le vie. Il Gonfaloniere stava per rispondere che non si sarebbe mosso di lì, quando Barnaba, accostatosi a lui, gli mise in testa il proprio berretto. Sparì a un tratto dal volto di messer Venuti l’espressione di truce risentimento e, sorridendo, disse: - Non capisco davvero perché io fossi così ostinato a rimaner qui a dispetto del popolo, che non mi ci vuole. Il posto di gonfaloniere, se ci penso bene, non mi ha dato altro che noie; e io ci rinunzio. - Siete pronto a fare in pubblico questa rinunzia? - domandò il Diligenti. - Sì, pronto a tutto. - Ebbene, venite. E i due pretendenti andarono sul balcone del palazzo dove messer Diligenti fece cenno ai suoi di avanzarsi. Essi si avvicinarono, e messer Diligenti disse: - Cittadini, il Gonfaloniere rinunzia alla sua carica, e fra poco lascerà il palazzo. Un grido di giubilo partì dalla folla, e allora messer Venuti disse: - Cittadini, riconosco di aver governato con poca saggezza, e me ne vado, chiedendovi scusa. Infatti, pochi istanti dopo, il Gonfaloniere scese lo scalone e comparve sulla piazza, e quello stesso popolo che si era ammutinato contro di lui e lo voleva morto, gli fece una calorosa dimostrazione. Ma fu ben sorpreso quando, dietro al Gonfaloniere, vide uscire anche messer Diligenti. - Perché ve ne andate? - gli domandò la folla. - Amici, - rispose il cavaliere, - io mi riconosco più inetto a governarvi del mio predecessore. Lasciatemi sorvegliare i miei poderi; io non ho l’ambizione di essere il primo cittadino di Cortona, ma il suo figlio più fedele. Questa saggezza e quella di cui ha dato prova messer Venuti, ce l’ha infusa questo giovane. E accennava Barnaba, il quale aveva ripreso il berretto. - Egli è veramente saggio, e, se dovessi darvi un consiglio, vi spingerei a metterlo a capo della vostra città. Ma Barnaba, di certi onori non voleva saperne, e il popolo, rinsavito anche esso ora che non era più sobillato alla rivolta, si mostrò gratissimo a colui che aveva risparmiato a Cortona gli orrori della guerra, e lo festeggiò in ogni modo. I principali cittadini lo volevano loro ospite, e nella prima seduta che tennero gli Anziani, gli decretarono un ricco donativo in denaro. Messer Venuti e messer Diligenti gli fecero pure ricchi regali e gli dettero un cavallo per sé e uno per un servo, sapendo che egli aveva intenzione di proseguire il viaggio fino a Roma. Salutato, acclamato dall’intera cittadinanza e assai ben provvisto di denaro, il nostro Barnaba prese la via della città eterna. Giunto a Orvieto, egli prese alloggio in un modesto albergo di fronte al superbo palazzo dei Gualterio, e stando alla finestra udì grida strazianti partire da una stanza sotterranea di quel palazzo. La curiosità lo spinse a domandare all’oste chi si lagnava così insistentemente, e seppe che l’infelice era la figlia stessa del Conte, che la matrigna, donna vana e ambiziosa, teneva sempre rinchiusa in una stanza terrena, aspettando che avesse l’età per entrare in un convento. Il Conte era vecchio e malaticcio, e la moglie, gelosa della bellezza della figliastra, non voleva essere esposta a un odioso confronto con lei, motivo per cui la condannava alla reclusione in casa, e poi in monastero. - Io debbo parlare alla Contessa, - disse Barnaba fra sé, - ma come fare? Allora, pensa e ripensa, partì per Viterbo, e là comprò ricche stoffe e monili. Tornato che fu a Orvieto, si spacciò per mercante, facendo vedere ai frequentatori dell’osteria le cose preziose che aveva seco. Naturalmente la notizia giunse anche agli orecchi della contessa Gualterio, la quale, vaghissima com’era di ornarsi, fece dire al mercante di andare al palazzo e recarle le sue mercanzie. Barnaba scelse le più belle stoffe, e, accompagnato dal proprio servo che recava gl’involti, andò dalla Contessa, la quale lo accolse cortesemente, e pareva invaghita di tutto. Egli le disse molte cose circa le nuove fogge di abiti e di acconciature usate dalle dame fiorentine, che vantavasi di servire, e poi, mostrandole un drappo d’oro, aggiunse che esse solevano foggiarsene berretti, con i quali si ornavano il capo. - E qual forma hanno questi berretti? - chiese la dama. - La forma di quello che io porto, madonna. Provatevelo, e vedrete come si dice bene al vostro volto. La Contessa se lo provò, e parve, dopo essersi specchiata, contenta, così che domandò a Barnaba se gliene sapesse foggiare uno simile in drappo d’oro. Ma prima che egli le avesse risposto, esclamò: - Ma per chi dunque mi orno? Mio marito è vecchio e cagionevole; ora spetta a Selvaggia ad ornarsi. E preso un mazzo di chiavi scese in fretta, e risalì in compagnia di una giovinetta pallida, scarna, ma bella come un occhio di sole. Barnaba fu commosso nel vederla, e in cuor suo benedì suo padre per avergli legato quel portentoso berretto, cui doveva la liberazione della bellissima Selvaggia. Costei era rimasta sbalordita, vedendosi trattare così bene dalla matrigna, dalla quale era solita sentirsi sempre schernire, e guardava ora il mercante ora la Contessa, non sapendo a che cosa attribuire quel repentino cambiamento. Barnaba, però, che non aveva fede che la semplice imposizione del berretto potesse aver virtù di sradicare l’invidia dal petto della perfida donna, la persuase ad affidargli la commissione di foggiare un berretto di drappo d’oro per lei, e uno per Selvaggia. La Contessa annuì, e dopo aver comprato alcune stoffe, lo congedò. Il giovine, appena fu ritornato all’osteria, mandò in cerca di una cucitrice e le fece fare due berretti quasi simili, soltanto, in quello destinato per la Contessa fece porre, fra la stoffa e la fodera, il suo berretto di lana, e operò saggiamente, perché non era ancora notte, che udiva di nuovo i lamenti dell’infelice Selvaggia. La matrigna, pentita di aver ceduto a un impulso di compassione, l’aveva rinchiusa nella solita stanza. La mattina dopo, Barnaba portava i due berretti alla Contessa, la quale, appena si fu posto in testa il proprio, mandò a liberare la figlia e, fattala venire in sua presenza, le ornò il capo con quello destinatole. Barnaba allora, profittando delle buone disposizioni che leggeva in volto alla vana signora, e acceso sempre più d’affetto e di compassione per l’infelice Selvaggia, prese a dire che doveva essere ben difficile collocare una signorina in una piccola città, che il pensiero dell’avvenire della figliastra doveva certo essere tedioso per una signora. Una parola tira l’altra, e così, incoraggiato dalle domande della Contessa, rivelò chi era, a qual famiglia apparteneva, e come con la sua abilità si fosse in breve tempo acquistata una certa fortuna, che era sicuro di triplicare appena giunto a Roma. Disse pure che aveva intenzione di ammogliarsi e che avrebbe sposato una ragazza, anche senza dote, purché fosse di buona famiglia. La Contessa lo ascoltava, e siccome non s’era tolto di capo il ricco berretto che celava quello della saggezza, così la sua mente era piena di saggi pensieri. Ella rifletteva che Barnaba, cortese di modi, educato e civile, sarebbe stato un eccellente partito per la figliastra. Inoltre, maritandola senza dote, avrebbe serbato tutto ai propri figli, e così, senza sacrificarla alla vita monastica, si sarebbe liberata di lei. Barnaba si accorgeva dei pensieri che aveva suscitati nella mente della signora, e chiamatala in disparte le fece la proposta di sposar Selvaggia. La Contessa rispose che avrebbe dovuto interrogare il marito, ed invitò Barnaba a tornare la sera stessa. Intanto egli era riuscito a dire a Selvaggia: - Abbiate fiducia in me, io vi porto la liberazione. Il volto pallido dell’infelice ragazza si era illuminato a quelle parole, nelle quali egli aveva trasfuso tutta l’anima sua. La sera Barnaba si vestì riccamente e tornò a palazzo. La Contessa era raggiante di gioia, e lo condusse dal conte Gualterio, il quale disse: - Prendetevi questa povera figlia mia e rendetela felice. Selvaggia, piena di gratitudine per il suo liberatore, gli dette la sua manina a baciare, e Barnaba disse che le nozze dovevano esser celebrate subito, perché aveva fretta di condurre la sposa a Roma. La Contessa era tutta felice che gli portasse via la figliastra, e non fece nessuna opposizione. Con le stoffe donate a Selvaggia da Barnaba, le furono preparate ricche vesti nuziali, e il giovane disse che alla famiglia della moglie non chiedeva altro che il berretto di drappo d’oro della Contessa e una lettiga. Il matrimonio fu celebrato senza alcuna pompa e i due sposi partirono. Selvaggia, in quei pochi giorni, pareva divenuta un’altra e la gioia le si leggeva in viso. Però, quando furono a qualche distanza da Orvieto, Barnaba, che era di animo gentile, scese da cavallo, ed accostatosi alla lettiga in cui era adagiata Selvaggia, le disse: - Madonna, io ebbi pietà delle vostre sofferenze, e vedendo che il solo mezzo di liberarvi era quello di darvi il mio nome, vi chiesi e vi ottenni in isposa. Però io non voglio violentare per nulla la vostra libertà, e se voi non avete per me nessun affetto, siete libera di ordinarmi di condurvi dai parenti di vostra madre, che sono a Foligno, e io sarò sempre lieto di ubbidirvi. - Sposo mio, io vi ho accettato perché ho indovinato che avete un cuore generoso, e questa ultima proposta me lo conferma. Io vi seguirò ovunque, altera e lieta di affidarmi al vostro affetto e di non avere altri che voi sulla terra. Barnaba fu contentissimo della risposta della moglie, e giunto a Roma, si stabilì in una casa modesta, dove, lasciandosi guidare dalla saggezza, il giovane divenne in breve uno dei più ricchi e stimati mercanti della città. Selvaggia fu moglie affettuosa e lo pagò largamente del bene che le aveva fatto.

- E ora la novella è finita, - disse la Regina - e chiedo scusa ai signori di averli tediati così lungamente. - Se ce ne raccontaste un’altra, saremmo molto lieti di ascoltarla, - disse la signora Durini. - Ora però c’è altro da fare. Prego tutti di lasciarmi un momento sola con la Regina, la Carola e Maso. Il rimanente della famiglia Marcucci uscì dalla stanza, e allora la signora disse: - Volete maritare l’Annina? Io ho per lei un buon partito. - Ma ha soltanto quindici anni! - osservò la Carola. - Lo so, - replicò la signora, - ma non tutti i giorni capitano certe fortune. Voi sapete che a Camaldoli c’è il direttore dell’albergo, un uomo assennato, che gode la fiducia dei suoi padroni. Egli ha un figlio, per nome Carlo, che ora ha ventiquattro anni. Costui segue la carriera del padre ed è pur direttore in un altro albergo a Firenze. È un giovane serio, ben educato e abbastanza facoltoso. Ha visto l’Annina, gli è piaciuta e me l’ha chiesta in moglie. Io non ho potuto risponder nulla; sta a voi a risolvere. - E l’Annina l’ha interrogata, lei? - domandò la Carola. - No, ma mi sono accorta che Carlo le piace. Se ricusate, io non lo farò venir qui; ma se accettate, domani torna a Firenze e ve lo manderò. - E a lei che gliene pare, signora? Che farebbe se l’Annina fosse sua figlia? - domandò Maso. - Io gliela darei a occhi chiusi. - Allora me lo mandi, ma non dica nulla all’Annina. - Non dirò nulla. Il matrimonio si farebbe l’anno venturo in estate, da quanto ho potuto capire, e Carlo provvederebbe la sposa anche del corredo. La Regina piangeva dalla gioia e pregava, pregava che la felicità potesse arridere all’adorata nipotina. Maso e la Carola erano sbalorditi.