Le mie prigioni/Cap XV
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Capo XV.
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Due giorni appresso, mio padre tornò. Io aveva dormito bene la notte, ed era senza febbre. Mi ricomposi a disinvolte e liete maniere, e niuno dubitò di ciò che il mio cuore avesse sofferto e soffrisse ancora.
— Confido, mi disse il padre, che fra pochi giorni sarai mandato a Torino. Già t’abbiamo apparecchiata la stanza, e t’aspettiamo con grande ansietà. I miei doveri d’impiego mi obbligano a ripartire. Procura, te ne prego, procura di raggiungermi presto. —
La sua tenera e melanconica amorevolezza mi squarciava l’anima. Il fingere mi pareva comandato da pietà, eppure io fingeva con una specie di rimorso. Non sarebbe stata cosa più degna di mio padre e di me, s’io gli avessi detto: — Probabilmente non ci vedremo più in questo mondo! Separiamoci da uomini, senza mormorare, senza gemere; e ch’io oda pronunciare sul mio capo la paterna benedizione! —
Questo linguaggio mi sarebbe mille volte più piaciuto della finzione. Ma io guardava gli occhi di quel venerando vecchio, i suoi lineamenti, i suoi grigi capelli, e non mi sembrava che l’infelice potesse aver la forza d’udire tai cose.
E se per non volerlo ingannare, io l’avessi veduto abbandonarsi alla disperazione, forse svenire, forse (orribile idea!) essere colpito da morte nelle mie braccia?
Non potei dirgli il vero, nè lasciarglielo tralucere! La mia foggiata serenità lo illuse pienamente. Ci dividemmo senza lagrime. Ma ritornato nel carcere, fui angosciato come l’altra volta, o più fieramente ancora; ed invano pure invocai il dono del pianto.
Rassegnarmi a tutto l’orrore d’una lunga prigionia, rassegnarmi al patibolo, era nella mia forza. Ma rassegnarmi all’immenso dolore che ne avrebbero provato padre, madre, fratelli e sorelle, ah! questo era quello a cui la mia forza non bastava.
Mi prostrai allora in terra con un fervore quale io non aveva mai avuto sì forte, e pronunciai questa preghiera:
— Mio Dio, accetto tutto dalla tua mano; ma invigorisci sì prodigiosamente i cuori a cui io era necessario, ch’io cessi d’esser loro tale, e la vita d’alcun di loro non abbia perciò ad abbreviarsi pur d’un giorno! —
Oh beneficio della preghiera! Stetti più ore colla mente elevata a Dio, e la mia fiducia cresceva a misura ch’io meditava sulla bontà divina, a misura ch’io meditava sulla grandezza dell’anima umana, quando esce del suo egoismo, e si sforza di non aver più altro volere che il volere dell’infinita Sapienza.
Sì, ciò si può! ciò è il dovere dell’uomo! La ragione, che è la voce di Dio, la ragione ne dice che bisogna tutto sacrificare alla virtù. E sarebbe compiuto il sacrificio di cui siamo debitori alla virtù, se nei casi più dolorosi luttassimo contro il volere di Colui che d’ogni virtù è il principio?
Quando il patibolo o qualunque altro martirio è inevitabile, il temerlo codardamente, il non saper muovere ad esso benedicendo il Signore, è segno di miserabile degradazione od ignoranza. Ed è non solamente d’uopo consentire alla propria morte, ma all’afflizione che ne proveranno i nostri cari. Altro non lice se non dimandare che Dio la temperi, che Dio tutti ci regga: tal preghiera è sempre esaudita.