Capo XCVI

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Capo XCVI.

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Il commissario mi condusse alla polizia, per presentarmi al direttore. Qual sensazione nel rivedere quella casa, mio primo carcere! Quanti affanni mi ricorsero alla mente! Ah! mi sovvenne con tenerezza di te, o Melchiorre Gioja, e dei passi precipitati ch’io ti vedea muovere su e giù fra quelle strette pareti, e delle ore che stavi immobile al tavolino scrivendo i tuoi nobili pensieri, e de' cenni che mi facevi col fazzoletto, e della mestizia con cui mi guardavi, quando il farmi cenni ti fu vietato! Ed immaginai la tua tomba, forse ignorata dal maggior numero di coloro che ti amarono, siccom’era ignorata da me! — ed implorai pace al tuo spirito!

Mi sovvenne anche del mutolino, della patetica voce di Maddalena, de’ miei palpiti di compassione per essa, de’ ladri miei vicini, del preteso Luigi XVII, del povero condannato che si lasciò cogliere il viglietto e sembrommi avere urlato sotto il bastone.

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Tutte queste ed altre memorie m’opprimeano come un sogno angoscioso, ma più m’opprimea quella delle due visite fattemi ivi dal mio povero padre, dieci anni addietro. Come il buon vecchio s’illudeva, sperando ch’io presto potessi raggiungerlo a Torino! Avrebb’egli sostenuto l’idea di dieci anni di prigionia ad un figlio e di tal prigionia? Ma quando le sue illusioni svanirono, avrà egli, avrà la madre avuto forza di reggere a sì lacerante cordoglio? Erami dato ancora di rivederli entrambi? o forse uno solo dei due? e quale?

Oh dubbio tormentosissimo e sempre rinascente! Io era, per così dire, alle porte di casa, e non sapeva ancora se i genitori fossero in vita; se fosse in vita pur uno della mia famiglia.

Il direttore della polizia m’accolse gentilmente, e permise ch’io mi fermassi alla Bella Venezia col commissario imperiale, invece di farmi custodire altrove. Non mi si concesse per altro di mostrarmi ad alcuno, ed io quindi mi determinai a partire il mattino seguente. Ottenni soltanto di vedere il Console Piemontese, per chiedergli contezza de’ miei congiunti. Sarei andato da lui, ma essendo preso da febbre e dovendo pormi in letto, lo feci pregare di venire da me.

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Ebbe la compiacenza di non farsi aspettare, ed oh quanto gliene fui grato!

Ei mi diede buone nuove di mio padre e di mio fratello primogenito. Circa la madre, l’altro fratello e le due sorelle, rimasi in crudele incertezza.

In parte confortato, ma non abbastanza, avrei voluto, per sollevare l’anima mia, prolungare molto la conversazione col signor Console. Ei non fu scarso della sua gentilezza, ma dovette pure lasciarmi.

Restato solo, avrei avuto bisogno di lagrime, e non ne avea. Perchè talvolta mi fa il dolore prorompere in pianto, ed altre volte, anzi il più spesso, quando parmi che il piangere mi sarebbe si dolce ristoro, lo invoco inutilmente? Questa impossibilità di sfogare la mia afflizione accresceami la febbre: il capo doleami forte.

Chiesi da bere a Stundberger. Questo buon uomo era un sergente della polizia di Vienna, faciente funzione di cameriere del commissario. Non era vecchio, ma diedesi il caso che mi porse da bere con mano tremante. Quel tremito mi ricordò Schiller, il mio amato Schiller, quando il primo giorno del mio arrivo a Spielberg, gli [p. 329 modifica]dimandai con imperioso orgoglio la brocca dell’acqua, e me la porse.

Cosa strana! Tal rimembranza, aggiunta alle altre, ruppe la selce del mio cuore, e le lagrime scaturirono.