Le mie prigioni/Cap LXXIV

Capo LXXIV

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Capo LXXIV.

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Lo sforzo d’attenzione che feci per ricevere i sacramenti, sembrò esaurire la mia vitalità, ma invece giovommi gettandomi in un letargo di parecchie ore che mi riposò.

Mi destai alquanto sollevato, e vedendo Schiller e Kral vicini a me, presi le lor mani e li ringraziai delle loro cure.

Schiller mi disse: — L’occhio mio è esercitato a veder malati: scommetterei ch’ella non muore.

— Non parvi di farmi un cattivo pronostico? diss’io.

— No, rispose; le miserie della vita sono grandi, è vero; ma chi le sopporta con nobiltà d’animo e con umiltà, ci guadagna sempre vivendo. —

Poi soggiunse: — S’ella vive, spero che avrà fra qualche giorno una gran consolazione. Ella ha dimandato di vedere il signor Maroncelli?

— Tante volte ho ciò dimandato, ed invano; non ardisco più sperarlo.

— Speri, speri, signore! e ripeta la dimanda.

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La ripetei infatti quel giorno. Il soprintendente disse parimente ch’io dovea sperare, e soggiunse essere verisimile, che non solo Maroncelli potesse vedermi, ma che mi fosse dato per infermiere, ed in appresso per indivisibile compagno.

Siccome, quanti eravamo prigionieri di stato, avevamo più o meno tutti la salute rovinata, il governatore avea chiesto a Vienna che potessimo esser messi tutti a due a due, affinchè uno servisse d’ajuto all’altro.

Io aveva anche dimandato la grazia di scrivere un ultimo addio alla mia famiglia.

Verso la fine della seconda settimana la mia malattia ebbe una crisi, ed il pericolo si dileguò.

Cominciava ad alzarmi, quando un mattino s’apre la porta, e vedo entrar festosi il soprintendente, Schiller ed il medico. Il primo corre a me, e mi dice: — Abbiamo il permesso di darle per compagno Maroncelli, e di lasciarle scrivere una lettera a' parenti.

La gioia mi tolse il respiro, ed il povero soprintendente, che, per impeto di buon cuore, aveva mancato di prudenza, mi credette perduto.

Quando riacquistai i sensi, e mi sovvenne dell’annuncio udito, pregai che non mi si ritardasse [p. 257 modifica]un tanto bene. Il medico consentì, e Maroncelli fu condotto nelle mie braccia.

Oh qual momento fu quello! — Tu vivi? sclamavamo a vicenda. Oh amico! oh fratello! che giorno felice c’è ancor toccato di vedere! Dio ne sia benedetto! —

Ma la nostra gioia ch’era immensa, congiungeasi ad una immensa compassione. Maroncelli doveva esser meno colpito di me, trovandomi così deperito com’io era: ei sapea qual grave malattia avessi fatto. Ma io, anche pensando che avesse patito, non me lo immaginava così diverso da quel di prima. Egli era appena riconoscibile. Quelle sembianze, già sì belle, sì floride, erano consumate dal dolore, dalla fame, dall’aria cattiva del tenebroso suo carcere!

Tuttavia il vederci, l’udirci, l’essere finalmente indivisi ci confortava. Oh quante cose avemmo a comunicarci, a ricordare, a ripeterci! Quanta soavità nel compianto! Quanta armonia in tutte le idee! Qual contentezza di trovarci d’accordo in fatto di religione, d’odiare bensì l’uno e l’altro l’ignoranza e la barbarie, ma di non odiare alcun uomo, e di commiserare gl’ignoranti ed i barbari, e pregare per loro!