Le mie prigioni/Cap LXX
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Capo LXX.
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Gli confidai la tremenda melanconia ch’io avea provato, diviso da lui; ed egli mi disse aver dovuto egualmente combattere il pensiero del suicidio.
— Profittiamo, diceva egli, del poco tempo che di nuovo c’è dato, per confortarci a vicenda colla religione. Parliamo di Dio; eccitiamoci ad amarlo; ci sovvenga ch’egli è la giustizia, la sapienza, la bontà, la bellezza, ch’egli è tutto ciò che d’ottimo vagheggiammo sempre. Io ti dico davvero che la morte non è lontana da me. Ti sarò grato eternamente, se contribuirai a rendermi in questi ultimi giorni tanto religioso, quanto avrei dovuto essere tutta la vita. —
Ed i nostri discorsi non volgeano più sovr’altro che sulla filosofia cristiana, e su paragoni di questa colle meschinità della sensualistica. Ambi esultavamo di scorgere tanta consonanza tra il Cristianesimo e la ragione; ambi nel confronto delle diverse comunioni evangeliche vedevamo, essere la sola cattolica quella che può veramente resistere alla critica, e la dottrina della comunione cattolica consistere in dogmi purissimi ed in purissima morale, e non in miseri sovrappiù prodotti dall’umana ignoranza.
— E se per accidente poco sperabile, ritornassimo nella società, diceva Oroboni, saremmo noi così pusillanimi da non confessare il Vangelo? da prenderci soggezione, se alcuno immaginerà che la prigione abbia indebolito i nostri animi, e che per imbecillità siamo divenuti più fermi nella credenza?
— Oroboni mio, gli dissi, la tua dimanda mi svela la tua risposta, e questa è anche la mia. La somma delle viltà è d’esser schiavo de’ giudizi altrui, quando hassi la persuasione che sono falsi. Non credo che tal viltà, né tu, né io l’avremmo mai. —
In quelle effusioni di cuore, commisi una colpa. Io aveva giurato a Giuliano di non confidar mai ad alcuno, palesando il suo vero nome, le relazioni ch’erano state fra noi. Le narrai ad Oroboni, dicendogli: — Nel mondo non mi sfuggirebbe mai del labbro cosa simile, ma qui siamo nel sepolcro, e se anche tu ne uscissi, so che posso fidarmi di te.
Quell’onestissim’anima taceva.
— Perchè non mi rispondi? gli dissi. —
Alfine prese a biasimarmi seriamente della violazione del secreto. Il suo rimprovero era giusto. Niuna amicizia, per quanto intima ella sia, per quanto fortificata da virtù, non può autorizzare a tal violazione.
Ma poichè questa mia colpa era avvenuta, Oroboni me ne derivò un bene. Egli avea conosciuto Giuliano, e sapea parecchi tratti onorevoli della sua vita. Me li raccontò, e dicea: — Quell’uomo ha operato sì spesso da cristiano, che non può portare il suo furore anti-religioso fino alla tomba. Speriamo, speriamo così! E tu bada, Silvio, a perdonargli di cuore i suoi mali umori, e prega per lui! —
Le sue parole m’erano sacre.