Capo LXIX

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Cap LXVIII Cap LXX


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Capo LXIX.

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Io tornava un mattino dal passeggio: era il 7 d’agosto. La porta del carcere d’Oroboni stava aperta, e dentro eravi Schiller, il quale non mi aveva inteso venire. Le mie guardie vogliono avanzare il passo, per chiudere quella porta. Io le prevengo, mi vi slancio, ed eccomi nelle braccia d’Oroboni.

Schiller fu sbalordito; disse: — Der teufel!, der teufel! — e alzò il dito per minacciarmi. Ma gli occhi gli s’empirono di lagrime, e gridò singhiozzando: — O mio Dio, fate misericordia a questi poveri giovani ed a me, ed a tutti gl’infelici, voi che foste anche tanto infelice sulla terra! —

Le due guardie piangevano pure. La sentinella del corridoio, ivi accorsa, piangeva anch’essa. Oroboni mi diceva: — Silvio, Silvio, quest’è uno de' più cari giorni della mia vita! — Io non so che gli dicessi; era fuori di me dalla gioia e dalla tenerezza.

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Quando Schiller ci scongiurò di separarci, e fu forza obbedirgli, Oroboni proruppe in pianto dirottissimo, e disse:

— Ci rivedremo noi mai più sulla terra?

E non lo rividi mai più! Alcuni mesi dopo, la sua stanza era vota, ed Oroboni giaceva in quel cimitero ch’io aveva dinanzi alla mia finestra!

Dacchè ci eravamo veduti quell’istante, pareva che ci amassimo anche più dolcemente, più fortemente di prima; pareva che ci fossimo a vicenda più necessarii.

Egli era un bel giovine, di nobile aspetto, ma pallido e di misera salute. I soli occhi erano pieni di vita. Il mio affetto per lui veniva aumentato dalla pietà che la sua magrezza ed il suo pallore m’ispiravano. La stessa cosa provava egli per me. Ambi sentivamo quanto fosse verisimile, che ad uno di noi toccasse, d'essere presto superstite all’altro.

Fra pochi giorni egli ammalò. Io non faceva altro che gemere e pregare per lui. Dopo alcune febbri racquistò un poco di forza, e poté tornare ai colloqui amicali. Oh come l’udire di nuovo il suono della sua voce mi consolava!

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— Non ingannarti, diceami egli, sarà per poco tempo. Abbi la virtù d’apparecchiarti alla mia perdita; ispirami coraggio col tuo coraggio. —

In que’ giorni si volle dare il bianco alle pareti delle nostre carceri, e ci trasportarono frattanto ne’ sotterranei. Disgraziatamente in quell’intervallo non fummo posti in luoghi vicini. Schiller mi diceva che Oroboni stava bene, ma io dubitava che non volesse dirmi il vero, e temeva che la salute già sì debole di questo deteriorasse in que’ sotterranei.

Avessi almeno avuto la fortuna d’esser vicino in quell’occasione al mio caro Maroncelli! Udii per altro la voce di questo. Cantando ci salutammo, a dispetto de' garriti delle guardie.

Venne in quel tempo a vederci il protomedico di Brünn, mandato forse in conseguenza delle relazioni che il soprintendente faceva a Vienna, sull’estrema debolezza a cui tanta scarsità di cibo ci aveva tutti ridotti, ovvero perché allora regnava nelle carceri uno scorbuto molto epidemico.

Non sapendo io il perchè di questa visita, m’immaginai che fosse per nuova malattia d’Oroboni. Il timore di perderlo mi dava un’ [p. 240 modifica]inquietudine indicibile. Fui allora preso da forte melanconia e da desiderio di morire. Il pensiero del suicidio tornava a presentarmisi. Io lo combatteva; ma era come un viaggiatore spossato, che mentre dice a se stesso: — È mio dovere d’andar sino alla meta — si sente un bisogno prepotente di gettarsi a terra e riposare.

M’era stato detto che, non avea guari, in uno di que' tenebrosi covili, un vecchio boemo s’era ucciso, spaccandosi la testa alle pareti. Io non potea cacciare dalla fantasia la tentazione d’imitarlo. Non so se il mio delirio non sarebbe giunto a quel segno, ove uno sbocco di sangue dal petto non m’avesse fatto credere vicina la mia morte. Ringraziai Dio di volermi esso uccidere in questo modo, risparmiandomi un atto di disperazione che il mio intelletto condannava.

Ma Dio invece volle conservarmi. Quello sbocco di sangue alleggerì i miei mali. Intanto fui riportato nel carcere superiore, e quella maggior luce, e la racquistata vicinanza d’Oroboni mi riaffezionarono alla vita.