XVIII - L’isola delle belve feroci

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XVIII - L’isola delle belve feroci
XVII


L’isola delle belve feroci.


Per la seconda volta la città sottomarina si trovava in balía dell’oceano. Le forze brutali della natura avevano nuovamente vinto, ma questa volta non in peggio, perchè avevano liberati i naufraghi, si potevano chiamare così ormai, da una prigionia che avrebbe potuto diventare fatale a tutti.

L’enorme massa aveva ripresa la sua danza disordinata. Dove andava? Nessuno lo sapeva.

Certo però il vento e le onde li spingevano verso nord-est, in direzione delle Canarie.

I sette uomini, essendo rimasto con loro il giovine forzato, non si trovavano però in liete condizioni.

Erano ben più fortunati i galeotti, i quali almeno stavano al sicuro entro le pareti d’acciaio, al sicuro dai colpi di mare e dai terribili colpi di vento, sia pure alle prese col freddo intenso che si sprigionava incessantemente dai serbatoi d’aria liquida.

L’uragano infuriava con rabbia estrema. Pareva che ormai avesse decretata la perdita di quella disgraziata città galleggiante.

— Toby, — disse Brandok, mentre le onde continuavano a passare e ripassare sulla cupola, con impeto spaventevole — da buon americano le avventure non mi sono mai dispiaciute; però comincio ad averne abbastanza di questa interminabile storia. Sai a che cosa penso io?

— Pensi che le onde sono troppo violente e che l’Atlantico non è troppo clemente verso gli uomini di cento anni fa.

— No, che noi finiremo male.

— E ti lamenti, dopo aver vissuto quasi un secolo e mezzo e aver veduto tante meraviglie? Senza il mio liquore che cosa saresti, tu, a quest’ora? Un pizzico di cenere senza nemmeno un pezzetto d’osso.

— Hai ragione, Toby — rispose Brandok, sforzandosi di sorridere. — Su centinaia e centinaia di milioni di persone scomparse nel gran baratro della morte, noi soli siamo sopravvissuti ed ho il coraggio di lamentarmi!

— Contentati dunque di vivere un’ora, o un mese, e non pensare ad altro. Checchè debba succedere, nessun altro mortale avrà avuto tanta fortuna. Guardati invece dalle onde.

Insidiano la nostra vita.

E la insidiavano davvero. Mai l’Atlantico aveva avuto un simile scatto di collera in cinquant’anni, o forse cento. Brandok, che nella sua gioventù l’aveva attraversato già tante volte, mai l’aveva visto così.

Ma era soprattutto l’estrema tensione elettrica che colpiva i due americani. I lampi avevano una durata straordinaria, di cinque e perfino dieci minuti, e le folgori cadevano a dozzine alla volta. Brandok, forse più nervoso di Toby, sussultava come se ricevesse delle vere scariche elettriche, e quando si passava una mano sulla testa, i suoi capelli, quantunque bagnati, crepitavano e sprigionavano delle vere scintille.

La città galleggiante intanto continuava ad andare attraverso alle onde come un semplice guscio di noce. Non era già una nave: si poteva considerare un immenso rottame in balìa dei furori dell’oceano.

Tutta la notte, e anche il giorno seguente, l’enorme massa incessantemente travolta dai cavalloni errò sull’Atlantico, senza che i naufraghi nulla potessero tentare per darle una direzione.

Durante tutto quel tempo i forzati, probabilmente molto impressionati dai fragori delle onde, dal rombare incessante dei tuoni e dai soprassalti disordinati della loro città, si erano mantenuti tranquilli.

Inoltre il freddo intenso che regnava laggiù doveva aver calmati i loro furori. Mai ghiacciaia era stata così fredda di certo, poichè i cristalli di ghiaccio avevano avvolto perfino i cadaveri, arrestandone la putrefazione.

Al mattino del secondo giorno, il capitano, che stava sempre di guardia col pilota, resistendo tenacemente al sonno, mandò un grido.

— Tenerife!

I tre americani, Jao ed il giovine galeotto che sonnecchiavano legati solidamente alle traverse d’acciaio per non venire portati via dai cavalloni che l’Atlantico scagliava senza tregua contro la cupola, udendo quel grido, si erano alzati a sedere.

Cominciava ad albeggiare allora; era però un’alba grigiastra, di triste aspetto, non permettendo le tempestose nubi che la luce si diffondesse liberamente.

Verso levante, ad una grande altezza, una colonna di fuoco s’alzava, oscillando in tutte le direzioni e forando il cielo.

— Erutta ancora la gigantesca montagna? — chiese Brandok.

— Sembra che si sia risvegliata — rispose il capitano.

— Ci spinge verso quelle isole il vento?

— Purtroppo — rispose il capitano.

— Che dopo i forzati dobbiamo aver a che fare colle belve feroci?

— Non tutte le isole sono popolate di leoni, di tigri, di pantere, di giaguari, di leopardi eccetera, signore. Ve ne sono molte che servono d’asilo sicuro ad animali inoffensivi o quasi, come i bisonti, gli ultimi campioni del vostro paese, struzzi, giraffe, gazzelle, cervi, daini e tanti altri che non saprei nominarvi. Se le onde ci spingeranno verso una di queste ultime, non avremo nulla da temere, anzi avremo da guadagnare degli arrosti squisiti.

Disgraziatamente mi pare che le onde ci caccino verso Tenerife.

— Mi fate venire la pelle d’oca, capitano.

— Ci rifugeremo in fondo alla città.

— E allora i forzati ci faranno a pezzi.

— Ah! diavolo! Non avevo pensato che abbiamo un vulcano anche sotto i nostri piedi — disse il capitano del Centauro. — Non siamo però ancora a terra e non sappiamo ancora dove queste onde capricciose manderanno a sfracellarsi questa immensa cassa di metallo.

— Temete che si sfasci? — chiese Toby.

— Le spiagge di quelle isole sono quasi dovunque tagliate a picco e non vi saprei dire, signore, in quale stato noi potremo approdare. Troppo buono no, di certo. Troveremo là dei flutti di fondo che scaraventeranno la città galleggiante chi sa mai dove! Qualunque cosa succeda, vi consiglio di non abbandonare un solo istante le traverse della cupola: chi si lascerà strappare dai cavalloni verrà indubbiamente sfracellato. Occhio a tutto, e tenetevi bene stretti!

La città galleggiante, infatti, veniva spinta verso l’antico possedimento spagnolo che i furori dell’immensa montagna avevano ormai resi inabitabili.

L’enorme cono, quasi volesse fare un degno accompagnamento alla rabbia dell’Atlantico, eruttava con gran lena, coprendosi tutto di fuoco.

Lungo i suoi fianchi scoscesi, veri fiumi di lava scendevano, facendo avvampare le foreste.

Bombe colossali uscivano dal suo cratere fiammeggiante e, dopo aver attraversate le nubi, ricadevano descrivendo delle arcate superbe, lasciandosi dietro getti di fuoco e si spaccavano, scoppiando.

Boati spaventevoli, che soffocavano talvolta il rombare dei tuoni, uscivano dalla gola fiammeggiante del vulcano.

— Chi avrebbe detto che quel colosso si sarebbe un giorno ridestato, e per due volte di seguito? — mormorò Toby. — Ciò indica che la terra non ha ancora incominciato il suo raffreddamento.

La città galleggiante continuava intanto ad avanzare, passando fra il vastissimo canale della Grande Canaria e l’isola di Puerto Ventura, col grave pericolo di urtare contro le innumerevoli scogliere che erano sorte dopo l’ultima eruzione del Tenerifa.

Poichè le onde eran diventate meno tumultuose, opponendo le due isole, due barriere insormontabili ai furori dell’Atlantico, il capitano ed i suoi compagni si erano alzati.

Una luce intensa, rossa come quella dell’aurora boreale, scendeva dall’immenso cono, tingendo le acque di riflessi sanguigni.

Lo spettacolo era sublime ed insieme spaventevole.

Vortici di fumo, pure rossastro, ma che di quando in quando avevano dei bagliori sinistri, lividi, come se masse di zolfo ardessero entro il cratere, si stendevano al di sotto delle tempestose nubi, turbinando sulle ali del vento. Le bombe continuavano a grandinare, con un fragore di tuono, schiantando ed incendiando le antichissime selve, mentre i torrenti di lava dilagavano come un mare di fuoco.

— Ho veduto una volta il Vesuvio — disse Brandok. — Quello però era un giocattolo in confronto a questo titano.

La città galleggiante, sempre sospinta dalle onde, era entrata nella zona illuminata. Pareva che navigasse su un mare incandescente.

I vetri della cupola, riflettendo i bagliori del vulcano, proiettavano fino in fondo alla città una luce così intensa da far impallidire quella delle lampade a radium.

I forzati, che non potevano indovinare di che cosa si trattasse, urlavano spaventosamente, senza che nessuno si occupasse di spiegare loro da dove provenivano quei bagliori intensi.

Era troppa l’ansia, o meglio l’angoscia, che si era impadronita del capitano e dei suoi compagni, per pensare a quelli che gelavano entro la gigantesca massa d’acciaio.

L’urto stava per accadere.

Tenerife non era che a poche gomene, ed i cavalloni continuavano a sospingere la città galleggiante con grande impeto. Avrebbe resistito o si sarebbe sfasciata? Era quella la domanda che tormentava tutti, senza trovare una risposta.

Erano allora le due del mattino.

Il vulcano avvampava e tuonava sempre con crescente furore. Pareva che tutta l’isola ardesse.

I tre americani, il capitano, il pilota ed i due forzati si erano sdraiati sulla cupola, tenendosi stretti alle traverse.

Le onde, che si rovesciavano attraverso il canale, non cessavano di muovere all’assalto di quel colossale ostacolo che impediva loro di stendersi liberamente.

Giungevano una dietro l’altra, a brevissimi intervalli, sollevando dei formidabili flutti di fondo.

D’improvviso la città galleggiante si sollevò per parecchi metri, con un rombo assordante, poi si rovesciò su un fianco, adagiandosi verso la spiaggia che era improvvisamente comparsa dopo l’ultimo colpo di mare.

Una parte della cupola si spezzò con immenso fragore, rovinando nell’interno della città con Jao ed il giovine forzato che si trovavano disgraziatamente da quella parte.

I tre americani, il capitano ed il pilota, più fortunati, erano riusciti a balzare a terra in tempo, arrampicandosi velocemente su per la spiaggia dirupata, prima che l’ondata di fondo ritornasse all’assalto.

Il mare in quel luogo offriva uno spettacolo orribile.

I cavalloni, arrestati bruscamente nella loro corsa impetuosissima, montavano all’assalto dell’isola con un frastuono spaventevole.

Immani colonne di spuma si rovesciavano, col fragore del tuono, contro le rocce, sgretolandole, polverizzandole.

La città galleggiante, urtata da tutte le parti, cozzava e tornava a cozzare contro la costa.

L’enorme cassa di metallo, che per lunghi anni, sullo scoglio a cui era stata avvinta, aveva sfidato impunemente le rabbie dell’Atlantico, a poco a poco si sfasciava. Dall’interno s’alzavano urla orribili.

I forzati, vedendo l’acqua rovesciarsi attraverso la cupola seminfranta, scappavano da tutte le parti, per non morire annegati dal formidabile assalto delle onde.

— Sono perduti! — disse il capitano, che si teneva aggrappato ad una roccia, a fianco di Brandok.

— Lo credete? — chiese questi con voce commossa.

— Nessuna costruzione umana può resistere a simili cozzi. Fra mezz’ora, e forse meno, le pareti metalliche si apriranno e nessuno di quei disgraziati si salverà.

— Non possiamo tentare nulla per strapparli alla morte? — chiese Toby, che si trovava dall’altro lato del capitano.

— Che cosa vorreste fare? Se scendiamo, le onde ci porteranno via senza che possiamo recare nessun aiuto agli abitanti della povera città!

— Mi si spezza il cuore nel vederli morire tutti, in quel modo.

— Supponete di assistere al naufragio d’un bastimento. L’oceano vuole di quando in quando le sue vittime.

— Ed a noi quale sorte sarà riserbata? — chiese Brandok.

— Non lieta di certo, se non giunge in nostro soccorso qualche nave — rispose il capitano.

— Domani ci troveremo fra i leoni, le tigri, i leopardi, i giaguari, e non so come ce la caveremo, signori miei, perchè è appunto su quest’isola che hanno radunate tutte le belve feroci capaci di difendersi da sole e quindi in grado di conservare la loro razza.

— E non avete che la vostra rivoltella!

— Nient’altro, signore.

— Corriamo dunque il pericolo di terminare il nostro viaggio nel ventre di questi ferocissimi e sanguinari abitanti.

— Purtroppo.

— Non avremo da rimpiangere la sorte toccata agli abitanti della città sottomarina.

— Potremmo forse invidiarla — rispose il capitano.

Intanto l’enorme cassa d’acciaio, spinta e risospinta dalle onde che non cessavano d’investirla, continuava a urtare, con un fragore infernale, contro le rocce della costa ed a piegarsi.

Le grosse vetrate si spezzavano e l’acqua precipitava come una fiumana nell’interno.

Le grida dei disgraziati che annegavano nel fondo, senza potersi sottrarre in modo alcuno alla morte, a poco a poco diventavano più rade e più fioche, mentre invece il vulcano rombava e tuonava formidabilmente gareggiando coi fragori della tempesta.

Ad un tratto la città fu bruscamente sollevata da un cavallone mostruoso e completamente rovesciata.

Il suo fondo, coperto di alghe e d’incrostazioni marine, apparve per un momento in aria, poi la massa intera fu inghiottita e scomparve sotto le onde coi suoi morti ed i suoi vivi, se ve n’erano ancora.

— È finita — disse il capitano, che per la prima volta apparve un po’ commosso. — D’altronde, anche se fossero sfuggiti per ora alla morte, non si sarebbero salvati più tardi dalle vendette della società. Una buona bomba di silurite lasciata cadere da qualche vascello aereo, li avrebbe egualmente affondati per punirli della loro ribellione.

— Che cos’è questa silurite? — disse Toby.

— Un esplosivo potentissimo, inventato di recente, che vi polverizza una casa di venti piani, come se fosse un semplice castello di carta — rispose il capitano. — Signori, vedo ergersi sopra di noi una roccia che mi pare sia tagliata quasi a picco. Volete un buon consiglio? Affrettiamoci a raggiungerla prima che sorga l’alba.

— Anche qui non corriamo alcun pericolo — osservò Brandok. — Le onde non giungono fino a noi.

— Potrebbero però giungere le belve, caro signore — rispose il capitano. — La scalata a questo scoglio non sarà troppo difficile per una pantera o per un leopardo. Seguitemi, o più tardi ve ne pentirete.

Nessuno, fuorchè il capitano cui nulla sfuggiva, aveva prima di allora notato che un po’ più indietro s’innalzava un piccolo scoglio, di forma piramidale, che aveva i fianchi quasi tagliati a picco e che poteva diventare un ottimo rifugio contro gli assalti delle innumerevoli belve che popolavano la vasta isola.

I tre americani, comprendendo che la loro salvezza stava lassù, quantunque si reggessero appena in piedi, dopo tante veglie alle quali non erano abituati, seguirono il capitano ed il pilota.

La luce intensa, proiettata dal fiammeggiante vulcano, permetteva di scegliere la parte meno difficile per dare la scalata al piccolo cono.

Le pareti però erano così lisce che il capitano cominciava a dubitare molto di poter raggiungere la cima, quando scoperse una specie di canale piuttosto ristretto, coi margini coperti di sterpi, che saliva rapidissimo, ma che tuttavia poteva servire.

— Coraggio, signori — disse, vedendo che i tre americani non ne potevano proprio più. — Un ultimo sforzo ancora: quando sarete lassù potrete riposarvi tranquillamente.

Aggrappandosi agli sterpi ed aiutandosi l’un l’altro, dopo venti minuti riuscirono a raggiungere la cima del cono, il quale era tronco.

La piattaforma superiore era piccolissima, però poteva bastare per cinque uomini.

— Se avete sonno, dormite — disse il capitano. — C’incaricheremo noi di vegliare. Fino allo spuntare del sole non correremo nessun pericolo. Le belve sono troppo spaventate dall’eruzione per pensare ora a noi. Questa notte non lasceranno i loro covi.

— Ne ho bisogno — disse Brandok, che era diventato pallidissimo come se quel supremo sforzo lo avesse completamente accasciato. — Io non so che cosa mi prenda: le mie membra tremano tutte ed i miei muscoli sussultano come se ricevessero delle continue scosse elettriche. È la seconda volta che mi succede questo.

— Ed io provo i medesimi effetti — disse Toby, lasciandosi cadere al suolo come corpo morto.

— Una buona dormita vi calmerà — disse il capitano. — Voi avete provate troppe emozioni in così pochi giorni.

Il dottore scosse la testa, e guardò Brandok che sussultava come se avesse qualche pila dentro il corpo.

— Questa intensa elettricità, che ormai ha saturato tutta l’aria del globo e alla quale noi non siamo abituati, temo che ci sia fatale, — mormorò poi. — Noi siamo uomini d’altri tempi.

Nonostante i fragori del mare, i ruggiti del vento ed i boati formidabili del vulcano, i tre americani avevano chiusi gli occhi, addormentandosi quasi di colpo. Erano già tre notti che non dormivano più e solo il capitano ed il suo pilota, abituati alle lunghe veglie, potevano ancora resistere a quella lunga prova.

Quel sonno benefico durò fino alle otto del mattino e forse chissà quanto sarebbe durato, se il capitano non li avesse svegliati con delle vigorose e replicate scosse.

L’uragano era cessato ed il sole, già alto, lanciava i suoi ardenti raggi sulla verdeggiante isola che un tempo era stata una delle più splendide perle dell’Atlantico.

In mezzo a quella terra ubertosa, ricca delle più splendide piante dei tropici, campeggiava, immenso gigante, il vulcano, dal cui cratere uscivano ancora immense lingue di fuoco e nuvoloni fittissimi di fumo che oscuravano il cielo.

Tutte le foreste della montagna ardevano, contorcendosi sotto le strette delle lave che scendevano giù senza posa.

Tutte le pianure che si estendevano fino sulle rive del mare, con leggere ondulazioni, erano coperte da superbe foreste di palme, di cocchi e di banani.

Nessuna casa però, nessun pezzo di terra coltivato: cittadelle e villaggi erano scomparsi sotto quella vigorosa vegetazione.

— È questo l’impero delle belve feroci? — chiese Brandok, che si era un po’ rimesso dai suoi sussulti nervosi.

— Sì, signore — rispose il capitano.

— Io non le vedo però quelle terribili bestie.

— Non desiderate di vederle, signore. Oh, non tarderanno a giungere.

— Avete ragione, capitano, — disse il pilota — non tarderanno. Eccone laggiù alcune che fanno capolino fra i cespugli che circondano la roccia. Ci hanno già fiutati e si preparano a riempirsi il ventre colle nostre carni. Là, guardate!

Il capitano ed i tre americani seguirono cogli sguardi la direzione che il pilota indicava col braccio e non poterono trattenere un brivido di terrore.

Trenta o quaranta animali dal pelame fulvo e dalle folte criniere nerastre, s’aprivano il passo attraverso i cespugli, avvicinandosi alla roccia, che serviva da contrafforte al cono.

— È un branco di leoni! — esclamò il capitano. — Ecco dei brutti vicini che ci faranno passare un terribile quarto d’ora.

— Potranno giungere fino a noi? — chiesero Toby e Holker, che erano ben più spaventati di Brandok.

— Potrebbero tentare l’assalto dalla parte della fenditura — rispose il capitano.

— Fortunatamente il passaggio è stretto e non potranno presentarsi più d’uno per volta.

— Avete abbastanza palle per arrestarli? — chiese Brandok.

— Per sei rispondo io; in quanto agli altri... Ah! Fate raccolta di sassi, di macigni, di tutto ciò che può servire come proiettile. Ve ne sono nel canalone. Presto, signori! Non vi è tempo da perdere!

I cinque uomini si erano lasciati scivolare attraverso la spaccatura, dove vi erano non pochi macigni, staccati dalle rocce dagli acquazzoni.

Con uno sforzo supremo ne trassero parecchi sulla piccola piattaforma, allineandoli di fronte all’imboccatura del crepaccio.

Avevano appena terminata la raccolta, quando i leoni, già abbastanza stanchi di guardare i cinque uomini da lontano, si mossero salendo la roccia.

Ruggivano spaventosamente e mostravano i loro denti aguzzi, mentre le loro criniere s’alzavano.

Un grosso maschio, di statura imponente, dopo aver lanciato un ruggito formidabile che parve un colpo di tuono, superato il contrafforte, si cacciò nel canalone, piantando le unghie nelle fenditure della roccia.

— Risparmiamo, finchè si può, le munizioni — disse il capitano. — Aiutatemi a lanciare questa bomba, signori!

Incanalarono un masso del peso d’una quarantina di chilogrammi che poco prima avevano issato non senza fatica, fino alla piattaforma e attesero il momento opportuno per scaraventarlo.

Il leone insospettito da quella manovra, si era fermato; ma poi, spinto dalla fame ed incoraggiato dai ruggiti dei suoi compagni, ricominciò ad arrampicarsi. Il capitano, che teneva pronta anche la rivoltella elettrica, attese che si fosse spinto bene innanzi, poi gridò: — Gettate!....

La pietra, violentemente spinta innanzi, rotolò giù per la spaccatura con rapidità fulminea e piombò addosso alla belva, la quale in quel momento si trovava in una strettoia.

Colpita alla testa da quel proiettile di nuovo genere stramazzò fulminata, ostruendo col suo corpo il passaggio.

Non era però un ostacolo sufficiente per quei saltatori che non s’arrestano nemmeno dinanzi ad una palizzata alta tre o quattro metri.

Un altro leone, che si era subito dopo cacciato nella spaccatura senza essere veduto dagli assediati, troppo occupati a sorvegliare le mosse del primo, annunciò la sua presenza con un formidabile ruggito. Balzare sopra il corpo del compagno e precipitarsi all’assalto fu cosa d’un sol momento.

Mancava il tempo ai difensori della collinetta di scagliare un nuovo masso.

Fortunatamente il capitano aveva la rivoltella.

Si udì un leggero sibilo e anche la seconda fiera cadde con una palla nel cervello.

— Bravo, capitano! — gridò Brandok.

Gli altri leoni, resi più prudenti, si erano fermati; poi si erano messi a girare e rigirare intorno al cono, empiendo l’aria di ruggiti.

Intanto sul margine della foresta altri animali erano comparsi. Vi erano delle tigri, dei leopardi e dei giaguari e, cosa strana, pareva che fossero in buone relazioni, poichè non si assalivano reciprocamente, come forse avrebbero fatto se si fossero trovati nelle loro selve natie.

Probabilmente il continuo contatto li aveva persuasi a rispettarsi reciprocamente, conoscendosi quasi d’eguale forza. È certo però che non dovevano rispettare quelli più deboli, per non morire di fame.

— La nostra situazione minaccia di diventare disperata — disse il capitano. — Quand’anche riuscissimo a distruggere i leoni, ecco là altri animali, non meno pericolosi, pronti a surrogarli. Vi avevo detto, signori, che avremmo rimpianto la fine dei forzati. Era meglio morire annegati, piuttosto che provare gli artigli ed i denti di queste belve. L’oceano ci ha risparmiati per condannarci ad una fine più miseranda. Poteva inghiottirci. Che cosa ne dici tu, pilota?

Il marinaio non rispose. Con una mano tesa dinanzi agli occhi guardava in alto, con una fissità intensa.

— Ebbene, pilota, sei diventato muto? — chiese il capitano.

Un grido sfuggì in quello stesso momento dalle labbra del marinaio.

— Un punto nero nello spazio!

— Un vascello aereo? — chiese il capitano, facendo un salto.

— Non so, comandante, se sia un grosso volatile o qualche soccorso che ci giunge in buon punto.

— Guardate bene, mentre io tengo d’occhio i leoni.

Brandok ed i suoi compagni si erano pure voltati, guardando in aria.

Un punto nero, un po’ allungato, che non si poteva confondere con un uccello, aquila o condor, e che s’ingrossava con fantastica rapidità, fendeva lo spazio ad un’altezza straordinaria, come se volesse passare sopra l’immensa colonna di fuoco e di fumo che irrompeva dal cratere del Pico de Teyde.

— Sì! Un vascello! Un vascello! — urlarono tutti.

— Ecco la salvezza che giunge in buon punto — rispose il capitano, sparando su un terzo leone che si era deciso a muovere all’attacco.

Il vascello volante scomparve per qualche istante fra i turbini di fumo, poi ricomparve abbassandosi rapidamente. Aveva puntata la prora verso il piccolo cono e si avanzava coll’impeto di un condor.

— Ci hanno scorti e si dirigono verso di noi! — gridò il pilota. — Tenete duro alcuni istanti ancora, comandante!

I leoni, come se si fossero accorti che le prede umane stavano per sfuggire loro, tornavano all’assalto, mentre parecchie tigri e parecchi giaguari sbucavano attraverso i cespugli per prendere parte anche essi al banchetto umano.

Il capitano, vedendo un’altra belva incanalarsi nella spaccatura, non esitò a consumare un’altra palla ed essendo un valente tiratore, anche questa volta non mancò il bersaglio.

— E tre — disse. — Ve ne sono però ancora quindici o sedici senza contare tutte le altre bestie, che pare siano ansiose di assaggiare un po’ di carne umana. D’altronde non hanno torto.

Sono molti anni di certo che non gustano di questi piatti.

Un quarto leone, dopo aver mandato un ruggito spaventevole, si scagliò pure attraverso la spaccatura, balzando sopra i cadaveri dei compagni, ma non ebbe miglior fortuna.

I naufraghi della città sottomarina, sicuri ormai di venire raccolti dal vascello volante, il quale ingigantiva di momento in momento, avevano cominciato a far rotolare i massi raccolti, scagliandoli in tutte le direzioni, per arrestare non solo lo slancio dei leoni, bensì anche quello degli altri animali.

Quella grandine di massi ebbe maggior successo che i colpi di rivoltella del capitano.

Le belve, spaventate, avevano cominciato a indietreggiare, spiccando salti giganteschi, per non farsi fracassare le costole.

— Coraggio, signori! — gridava il capitano, il quale di quando in quando sparava qualche colpo di rivoltella. — Ricacciamo queste canaglie affamate nella boscaglia.

E la tempesta di massi e di ciottoli continuava furiosa, specialmente entro il canalone dove cercavano d’insinuarsi le fiere, essendo quello l’unico punto vulnerabile del piccolo cono.

Quella lotta disperata continuava da parecchi minuti quando una voce sonora ed insieme imperiosa, cadde dall’alto.

— Tutti a terra!

Il capitano aveva alzati gli occhi. Il vascello aereo, una bella nave tutta dipinta di grigio, fornita d’immense eliche, stava quasi sopra di loro.

— Obbedite! — gridò.

Tutti si erano affrettati a sdraiarsi senza chiedere nessuna spiegazione.

Un momento dopo una palla rossastra, non più grossa di un arancio, cadeva all’estremità del canalone, dove leoni, tigri e giaguari, in pieno accordo, si erano radunati per tentare un ultimo e più formidabile assalto del cono.

Si udì uno scoppio terribile che fece tremare le rupi e che sollevò una immensa nuvola di polvere.

Era una piccola bomba di quella terribile materia esplosiva che il capitano del Centauro aveva chiamata silurite, che era esplosa in mezzo alle belve.

— Alzatevi, signori! — gridò la voce di prima. — Ormai non vi sono più belve intorno a voi.

Brandok fu il primo a balzare in piedi.

Gli effetti prodotti da quella minuscola bomba erano spaventevoli.

Metà della roccia che serviva di contrafforte al cono era saltata e degli animali non si scorgeva più alcuna traccia. Il potente esplosivo aveva polverizzato tigri, leoni e giaguari.

— Come sarebbe possibile una guerra con simili bombe? — mormorò l’americano. — Dieci vascelli volanti basterebbero per distruggere, in dieci minuti, la più gigantesca città del mondo.

Il vascello si abbassava dolcemente, mentre il suo equipaggio lanciava una scala di corda.

Il capitano del Centauro fu il primo ad afferrarla ed a spingersi in alto, dove un uomo barbuto e molto tarchiato lo aspettava sorridendo, colle braccia aperte.

— Tompson! — esclamò il capitano del Centauro, quand’ebbe scavalcata la murata.

— Firsen! — esclamò l’altro, dandogli una buona stretta di mano, all’inglese. — Ti cercavo da una settimana.

— Tu!

— La notizia che dei furfanti si erano impadroniti della tua nave è giunta in Inghilterra ed in Francia. Sai che avevano osato assalire delle navi marittime?

— Chi?

— Quelli che t’avevano preso il Centauro.

— E che cosa è successo di loro?

— Sono stati affondati da me, con una mezza dozzina di bombette alla silurite, a duecento miglia dallo Stretto di Gibilterra.

— E la mia nave è saltata insieme a loro?

— Non volevano arrendersi.

— Bah! Il governo inglese mi ricompenserà — disse il capitano del Centauro, alzando le spalle.

— Preferisco che riposi in fondo all’Atlantico, piuttosto che abbia a diventare una nave pirata. Chiedo ospitalità per me e per questi signori che mi accompagnano. Dove vai?

— In Francia.

— Benissimo: è sempre un bel paese quello.

Brandok, Toby, Holker ed il pilota erano pure saliti sulla nave. Il primo però, appena messi i piedi sul ponte, fu preso da un tremito così intenso, che per poco non cadde addosso a Holker.

— Che cosa avete, signore? — chiese il capitano del Centauro.

Brandok non rispose subito. Era trasfigurato e pallidissimo.

I suoi occhi, assai dilatati, pareva che gli schizzassero dalle orbite, ed i muscoli del suo viso sussultavano in modo strano.

— Che cosa avete dunque, signore? — ripetè il capitano.

— Questo vascello va elettricamente, è vero? — chiese finalmente l’americano, con una voce così alterata da far stupire tutti.

— Sì, signore.

— Ora comprendo... Toby!

Il dottore non diede alcuna risposta. Egli era fermo in mezzo al ponte della nave, e fissava una grossa lampada a radium con uno sguardo vitreo, simile a quello che si scorge negli ipnotizzati.

Anch’egli era estremamente pallido e tremava come se subisse di quando in quando delle scosse elettriche.

— Che cosa hanno questi signori? — chiese Tompson.

— Non lo so — rispose il capitano del Centauro che pareva vivamente impressionato. — È già la seconda o la terza volta che li vedo tremare così.

— Chi sono?

— Dei signori americani che fanno il giro del mondo. —

In quel momento Holker si avvicinò a loro.

— I miei amici non sono abituati all’intenso sviluppo di elettricità che regna su queste navi — disse ai due capitani. — Fateli trasportare nelle loro cabine e cerchiamo di raggiungere la terra ferma al più presto. Vi offro mille dollari se domani giungeremo a Lisbona.

— Forzeremo le macchine — rispose Tompson.

— E più che potrete — disse Holker, che appariva assai preoccupato.

S’avvicinò a Brandok che si era appoggiato alla murata di babordo, come se fosse incapace di starsene ritto senza un sostegno.

— Che cosa vi sentite, signor Brandok? — gli chiese con accento premuroso.

— Non so... — balbettò il giovine. — Provo un tremito strano ed un turbamento inesplicabile. Mi hanno colto appena ho messo i piedi su questo vascello. Si direbbe che il mio cervello riceva delle continue scosse. Quand’ero sul cono, invece, provavo un benessere straordinario.

— È la grande tensione elettrica che regna qui che vi produce quegli effetti, signor Brandok.

Quando saremo a terra il vostro tremito passerà.

Il giovine scosse il capo con un atto di scoramento, poi disse con un soffio di voce: — Io e Toby siamo uomini d’altri tempi.

Quattro robusti marinai presero il giovane americano e Toby sotto le ascelle e li portarono nelle cabine di poppa, adagiandoli su dei comodi lettucci.

— Temo che questi uomini siano perduti — mormorò Holker. — Ai loro tempi l’elettricità non aveva ancora preso un così immenso sviluppo. Che cosa accadrà di loro? Io comincio ad aver paura.

Il giorno dopo, prima del mezzodì, il vascello volante imboccava il Tago ed entrava a tutta velocità nella capitale del Portogallo.

Brandok e Toby si erano a poco a poco tranquillizzati, però non parevano più i due allegri amici di prima. Sembrava che una profonda preoccupazione turbasse i loro cervelli, ed alla più piccola emozione il tremito ed i sussulti dei muscoli li riprendevano.

Il signor Holker che cominciava a spaventarsi, li fece condurre alla stazione dove aveva già noleggiato uno scompartimento speciale.

Venticinque minuti dopo i carrozzoni partivano entro il tubo della linea sotterranea, con una velocità di 200 km. all’ora.

La traversata della Spagna si compì in sei ore senza scendere in alcuna stazione. Holker che vedeva i suoi compagni aggravarsi sempre più, aveva fretta di giungere nella capitale francese per consultare uno di quegli scienziati, sulla malattia che li aveva colpiti e che poteva forse avere altra origine.

Al mattino del giorno appresso scendevano, alla stazione della capitale francese, raddoppiata ormai per superficie e per popolazione in quei cento anni, e diventata una delle città più industriali del mondo.

L’aria della grande capitale, satura di elettricità a causa del numero infinito delle sue macchine elettriche non fece che aggravare le condizioni di Toby e Brandok.

Furono condotti in un albergo in preda al delirio.

Il signor Holker, sempre più spaventato, fece chiamare subito uno dei più noti medici a cui raccontò ciò che era toccato ai suoi disgraziati amici, non dimenticando d’informarlo della loro miracolosa risurrezione.

La risposta che ne ebbe fu terribile.

— Quantunque io stenti a credere che questi uomini abbiano trovato il segreto di poter dormire un secolo intero, — disse il medico — nè io, nè altri potranno salvarli. Sia l’elettricità intensa a cui non erano abituati o l’emozione prodotta dalle nostre meravigliose opere, il loro cervello ha subito una scossa tale da non guarire mai più. Conduceteli fra le montagne dell’Alvernia, nel sanatorio del mio amico Bandin. Chissà! Forse l’aria vivificante di quelle vette potrebbe operare un miracolo.

Lo stesso giorno, il signor Holker con due infermieri e i due pazzi saliva su un vascello volante noleggiato appositamente e partiva per l’Alvernia.

Un mese più tardi egli riprendeva solo e triste la ferrovia di Parigi per far ritorno in America. Ormai aveva perduta ogni speranza.

Brandok e Toby erano stati dichiarati pazzi, e per di più pazzi inguaribili.

— Tanto valeva che non si fossero risvegliati dal loro sonno secolare — mormorò il signor Holker con un lungo sospiro, prendendo posto nello scompartimento del carrozzone. — Io ora mi domando se aumentando la tensione elettrica, l’umanità intera, in un tempo più o meno lontano, non finirà per impazzire. Ecco un grande problema che dovrebbe preoccupare le menti dei nostri scienziati.