XIII - Navi volanti e marittime

../XII ../XIV IncludiIntestazione 28 novembre 2011 75% Romanzi

XII XIV


Navi volanti e marittime.


Il Tangaroff in quel momento incrociava il battello volante, passandovi a babordo.

Era un fuso enorme tutto in acciaio, lungo più di centocinquanta metri, colla prora acutissima e largo al centro una quindicina di metri.

Era tutto coperto, con un gran numero di finestre al posto della coperta difese da vetri che dovevano avere un grande spessore.

Nel mezzo si ergeva una torre pure in metallo, alta quattro metri, sulla cui piattaforma stavano seduti, presso la ruota, due timonieri. Dietro si innalzava un albero per la telegrafia aerea.

Filava velocemente, quasi senza produrre alcun rumore, lasciandosi dietro una scia candidissima che pareva oleosa.

Più che una nave, sembrava un balenottero lanciato a tutta velocità.

Nel momento in cui passavano sotto il Centauro, l’apparato elettrico di questo fece udire un lungo tintinnio e registrò un dispaccio lanciato dai timonieri del Tangaroff.

Era un cordiale “buon viaggio” che inviavano ai naviganti dell’aria, unitamente alla notizia che i ghiacci avevano ormai interrotta la navigazione nel Mar Bianco.

— Bella! Splendida! — esclamò Brandok che seguiva collo sguardo il velocissimo piroscafo.

— Quando potrà giungere in Islanda?

— Domani sera — rispose Holker.

— Malgrado i ghiacci?

— Se ne ridono dei ghiacci le nostre navi. Li assalgono a colpi di sperone e li disgregano per quanto spessore abbiano. Sono veri arieti, d’una potenza inaudita.

— Nipote mio, — disse Toby — che cosa è avvenuto dei battelli sottomarini che ai nostri tempi facevano tanto parlare?

— Dopo che le guerre sono state rese impossibili, sono scomparsi o quasi. Ve ne sono ancora alcuni che servono per le esplorazioni sottomarine e per il ricupero delle ricchezze perdute in fondo ai mari.

— E del Canale di Panama? — chiese Brandok.

— È compiuto, mio caro signore, e già da 85 anni.

— Quella grande impresa è stata condotta a termine?

— Sì, dai nostri connazionali; ed altre ancora ne sono state ultimate per accorciare i viaggi alle navi. L’istmo di Corinto che univa la Morea alla Grecia è stato pure tagliato; quello della penisola di Malacca pure, ed ora si sta compiendo un’altra grande opera.

— Quale?

— Il grande deserto del Sahara sta per divenire un mare accessibile anche alle più grandi navi. Ci lavorano da cinque anni e fra cinque o sei mesi anche quell’opera sarà compiuta.

— Che cosa vi rimane ora da fare? — chiese Brandok.

— Mantenere il mondo in equilibrio, ve lo dissi già, — rispose Holker — e speriamo che vi riescano i nostri scienziati. La campana ci chiama a colazione; quest’aria marina mi ha messo addosso un appetito da lupo. Imitatemi amici; vi troverete meglio dopo.

Mentre passavano nel salotto da pranzo, il vascello volante continuava la sua corsa verso sud-ovest, divorando lo spazio con una rapidità di centoventi chilometri all’ora. L’oceano era sempre coperto da vasti banchi di ghiaccio e anche ice-bergs i quali proiettavano dei riflessi accecanti.

Qua e là si scorgevano dei canali, entro i quali mostravasi ancora qualche rarissima foca, una delle poche sfuggite alle feroci distruzioni dei pescatori norvegesi e russi.

I tre amici stavano per terminare il pasto, semplice sì ma assai abbondante, quando udirono la suoneria dell’apparato elettrico tintinnare e poco dopo videro comparire il capitano colla fronte abbuiata.

— Avete ricevuto qualche cattivo dispaccio, comandante? — chiese Holker.

— Mi telegrafano dalla stazione scozzese di Capo York che una bufera terribile imperversa da due giorni intorno alle isole britanniche — rispose il capitano. — S’annuncia ben cattivo l’inverno, quest’anno.

— Sarete costretto a rifugiarvi nuovamente sulle coste norvegesi?

— Non voglio perdere altro tempo; sfiderò il ciclone.

— Resisterà la vostra nave? — chiese Brandok.

— Non vi inquietate signori; il mio Centauro è costruito con acciaio di prima qualità.

Non erano trascorse tre ore, che già la bufera, annunciata dalla stazione scozzese, si faceva sentire anche nei paraggi percorsi dal vascello volante.

Il cielo si era oscurato e dei soffi impetuosi, delle vere raffiche marine giungevano dal mezzodì, investendo poderosamente le ali e le eliche del Centauro.

L’oceano si rompeva in ondate che diventavano rapidamente altissime, le quali disgregavano con mille fragori i banchi di ghiaccio scendenti dall’isola Jean Mayen. Il comandante aveva dato ordine ai suoi macchinisti di aumentare la velocità sperando di sottrarsi agli assalti imminenti del ciclone e dando la possibilità ai timonieri di dirigersi verso ovest per evitare il centro della bufera. Tuttavia il Centauro subiva dei sussulti improvvisi e si trovava talvolta impotente a resistere alle raffiche. Già più d’una volta era stato trascinato per qualche tratto verso il settentrione, nonostante gli sforzi delle ali e delle immense eliche.

— Cadremo in mare? — chiese Brandok, che si era collocato dietro i vetri dello scompartimento prodiero.

— Anche se ciò avvenisse, poco danno ne avremmo — rispose Holker.

— Non andremo sott’acqua?

— Niente affatto, mio caro signore. I nostri ingegneri avevano pensato anche a simili disgrazie e vi hanno posto rimedio.

— In qual modo?

— Non avete osservato che la parte inferiore della piattaforma è quasi sferica come quella delle scialuppe e delle navi e che ha anche una chiglia? Nell’interno vi sono delle casse d’aria le quali impediranno al Centauro di sommergersi.

— Sicchè queste navi volanti si possono, all’occorrenza, trasformare in scialuppe! — esclamò Toby con stupore.

— E perfettamente navigabili, zio, — rispose Holker — perchè la poppa nasconde entro un incavo un’elica di metallo, che funziona colla stessa macchina che mette in moto le ali.

Come vedete nessun pericolo ci minaccia e anche calando, noi potremo giungere egualmente in Inghilterra.

— C’è da impazzire — disse Brandok. — Questi uomini moderni hanno pensato a tutto.

La bufera intanto, aumentava di miglio in miglio che il Centauro guadagnava.

Il vento si era scatenato con un fragoroso accompagnamento di urli, di fischi e di muggiti, balzando ora dal sud al nord ed ora dall’est all’ovest, come se Eolo fosse completamente impazzito.

Lo spettacolo che offriva l’oceano da quell’altezza era spaventevole e nello stesso tempo meraviglioso.

Montagne d’acqua, nere come fossero d’inchiostro e colle creste invece candidissime e quasi fosforescenti, si rovesciavano in tutte le direzioni, accavallandosi e rimbalzando a grande altezza.

Si formavano abissi profondi che subito si riempivano per riaprirsi più oltre, e dai quali uscivano dei muggiti formidabili, prodotti dall’irrompere tumultuoso delle acque.

Tutto il giorno il Centauro lottò vigorosamente, ora innalzandosi ed ora abbassandosi, respinto sovente fuori dalla sua rotta; e quando cadde la sera si trovò avvolto in una nebbia così fitta, che le lampade a radium non riuscivano a romperla.

— Ecco un altro pericolo e forse maggiore — disse Brandok.

— Perchè? — chiese Holker.

— Se il Centauro s’incontrasse con qualche altro vascello aereo procedente in senso inverso, chi riuscirebbe a salvarsi da una collisione fra due macchine spinte colla velocità di centocinquanta chilometri all’ora?

— Non temete — disse Holker. — Ciò può avvenire in una città dove le macchine volanti sono numerosissime, in mare no.

— E perchè no?

— Ogni macchina volante è fornita d’un eofono.

— Che bestia è questo eofono?

— Un semplice eppure preziosissimo apparecchio, formato da due imbuti ricevitori del suono, separati fra di loro da un diaframma centrale. Questi due imbuti vengono applicati agli orecchi del timoniere e quando questi apparecchi si trovano nella direzione delle onde sonore emesse da un corpo qualunque, producono un rumore nella medesima intensità e sono così sensibili da registrare le vibrazioni più impercettibili. Supponete ora che un vascello volante s’accosti a noi. Il rumore che produce, spostando la massa d’aria, e anche le vibrazioni delle ali si trasmettono subito agli imbuti del nostro timoniere. Che cosa si fa allora? Si lancia un telegramma che viene raccolto e trasmesso sul vascello dall’apparecchio elettrico. Entrambi i vascelli volanti si fermano e deviano, ed ecco tolto ogni pericolo d’investimento. Che cosa ne dite ora, signor Brandok?

Il giovine scosse il capo senza rispondere.

Anche durante l’intera notte l’uragano non cessò un momento di infuriare. Il vento che soffiava ad oriente aveva respinto il Centauro assai lontano dalla sua rotta, trascinandolo in mezzo all’Oceano Atlantico.

A mezzodì, quando il capitano, approfittando d’un raggio di sole fece il punto, s’accorse d’aver oltrepassata la Scozia di qualche centinaio di miglia.

— Pel momento dobbiamo rinunciare alla speranza di approdare in Inghilterra — disse ad Holker, che lo interrogava. — Il vento ci trascina come se il mio Centauro fosse diventato un veliero e non sarebbe prudente cercare di resistergli.

— E dove andremo a finire noi?

— Vi spaventa una corsa in mezzo all’Atlantico?

— No, purchè il vento non ci faccia tornare in America. Noi desideriamo visitare le grandi capitali degli stati europei.

— Quando il ciclone si calmerà, riprenderemo la corsa verso l’Inghilterra. A Liverpool prenderete o il treno o il vascello che va a Londra. Non è questione che di qualche giorno di ritardo. Questo ventaccio finirà per cambiare.

Il capitano s’ingannava.

L’uragano imperversò con furia estrema per due giorni ancora, mettendo più volte in serio pericolo il Centauro le cui ali a poco a poco si sfasciavano.

La mattina del terzo giorno, quando già il vento cominciava finalmente a scemare di violenza, il capitano avvertì i viaggiatori di rifugiarsi nella galleria per non venire trascinati via dalle onde.

— Scendiamo in mare? — chiese Holker.

— Sì, signore, — rispose il comandante. — Il Centauro non si sostiene in aria che con grandi sforzi e piuttosto di cadere improvvisamente, preferisco scendere.

— L’oceano è sconvolto — osservò Brandok.

— L’armatura della galleria è di una solidità a tutta prova ed i vetri hanno uno spessore di cinque centimetri. Le onde non riusciranno mai a sfondarla. Diventiamo marinai dopo essere stati volatili. Noi già, non soffriamo il mal di mare.

Entrarono nella galleria assieme all’equipaggio e al comandante, potendosi maneggiare i due timoni anche dall’interno, ed il Centauro calò lentamente in mezzo ai flutti.

Brandok, Toby e anche Holker, per un momento temettero di finire in fondo all’Atlantico.

Appena il vascello volante si posò sulle acque subì una serie di sussulti e di beccheggi così spaventevoli da temere che si rovesciasse per non raddrizzarsi mai più.

Appena però le due eliche d’acciaio uscirono dalle loro nicchie e si misero in moto, il Centauro riprese la sua stabilità e si mise in marcia come un piroscafo qualunque, salendo e scendendo i cavalloni.

I cassoni d’aria che riempivano la sua carena lo tenevano meravigliosamente a galla, meglio d’una botte vuota. Ma che soprassalti di quando in quando. E che ondate doveva sopportare la galleria! I marosi vi si precipitavano sopra con furia incredibile, facendo tremare le armature. Guai se i vetri avessero ceduto! Nessuna delle persone rinchiuse sarebbe uscita più viva.

— Perbacco! — mormorava Brandok, che si teneva aggrappato ad uno dei sostegni della galleria, per poter meglio resistere a quelle scosse. — Ecco una emozione che fa venire la pelle d’oca. Signor Holker, non finiremo per caso il nostro viaggio con un capitombolo negli abissi dell’Atlantico?

— Non abbiate paura; questi vascelli sono meravigliosamente costruiti e possono resistere anche in mare alle più violente ondate. Non vedete come sono tranquilli i macchinisti e i timonieri? Da questo potete capire se si ritengono perfettamente sicuri.

— E dove ci troviamo noi? — chiese Toby.

— A non meno di quattro o cinquecento miglia dalle coste della Spagna — rispose il capitano che lo aveva udito.

— Della Spagna avete detto? Dell’Inghilterra volevate dire.

— No, signore. Il vento, dopo averci allontanato dalle coste inglesi, ci ha trascinati verso il sud in direzione delle isole Canarie.

— E torneremo in Europa così? — chiese Brandok.

— Il mio povero Centauro non può ormai più riprendere il volo. Guardate come i cavalloni frantumano le ali e le eliche. Ma non ve ne date pensiero; noi camminiamo con una velocità di quaranta miglia all’ora, perchè le macchine non si sono guastate. Fra due giorni al più giungeremo a Lisbona od a Cadice, ed in quei porti, navi e vascelli volanti diretti in Inghilterra ne troverete quanti vorrete.

— Sicchè, — disse Brandok — noi saremo costretti a tagliare la corrente del Gulf-Stream per tornare in Europa?

— Certo — rispose il capitano.

— Avremo occasione di vedere quei famosi mulini?

— Cerco anzi di dirigermi verso l’isola N. 7, per vedere se là posso sbarazzarmi del galeotto che si trova chiuso nell’ultima cabina, e che voi non avete ancor veduto. Quell’isola si trova a venticinque miglia dalla città sottomarina portoghese d’Escario; potrei risparmiare una gita inutile fin là.

— No, signor capitano — disse Holker. — I miei amici non hanno ancora veduto uno di quei rifugi dei peggiori bricconi del mondo. Siamo pronti a pagare doppio biglietto se ci condurrete ad Escario.

— Sia — rispose il comandante dopo una breve esitazione. — Chissà che non trovi là alcuni meccanici per rimettere a posto il mio Centauro.