Le grandi cacce nelle Sunderbunds indiane

Emilio Salgari

1893 Racconti/Avventura Letteratura Le grandi cacce nelle Sunderbunds indiane Intestazione 31 dicembre 2017 75% Da definire


Le grandi cacce nelle Sunderbunds indiane


Nel 1878, trovandomi ancorato a Diamond-Harbour, piccolo porto che si trova alla foce dell'Hugly, ramo occidentale del Gange, il fiume sacro degli indiani, le cui acque, secondo la credenza del paese, menano direttamente in cielo, mi prese il capriccio di fare una gita nelle Sunderbunds, dove sapevo trovarsi un vecchio inglese che godeva fama di aver ucciso più tigri che ingollati bicchieri di whisky (forte bevanda assai amata dagli inglesi e dagli americani in ispecie).

Per chi non lo sa, le Sunderbunds sono le grandi isole fangose che formano il delta del Gange; ma quali isole! e quale sinistra fama godono! Immaginatevi una distesa immensa di banchi solcati da miriadi di canali e di canaletti dalle acque giallastre, entro cui imputridiscono le migliaia e migliaia di morti che gli indiani affidano alle sacre acque del Gange. Non crediate però che dette isole siano mancanti di vegetazione, anzi è un agglomerato intricato di bambù d'ogni specie, spinosi per lo più e che nello spazio di un solo mese raggiungono l'incredibile altezza da diciotto a venti metri.

È là, fra quegli ammassi di vegetali, fra quelle putride emanazioni che sviluppano il cholera, che vivono le grandi tigri reali, che scorrazza il brutale rinoceronte dalla testa armata di un corno formidabile, sempre pronto a sventrare e a distruggere, che galoppa il feroce bufalo dagli occhi iniettati di sangue e che strisciano le innumerevoli specie di serpenti indiani, il velenosissimo cobra-capello, il gigantesco pitone, che fra le sue spire soffoca e stritola persino la tigre, e il rubdira mandoli, il cui morso fa, dicesi, sudare sangue.

Accompagnato dal mio fedele Simone, il bravo mozzo di bordo, e da un brutto molango, un indiano nero, piccolo, gracile, che tremava sempre per la febbre contratta nei pantani delle Sunderbunds, dopo tre ore di canotto sbarcavo a Baratala, isola che si trova presso lo sbocco dell'Hugly, quasi di fronte a Sangor.

La spiaggia a prima vista pareva deserta, o per lo meno popolata da gran numero di giganteschi trampolieri, che mi guardarono stupidamente, appollaiati sotto ai rami dei paletuvieri o fra le foglie del loto. Ecco là il grande airone, la cicogna nera, l'ibis, che nell'India, invece di essere bianco, è bruno, e quel brutto uccello dal collo spelato, dall'aria malinconica e malaticcia, che si chiama arghiloji, e che pare sia stato messo al mondo coll'unico scopo di pulire le città indiane dalle immondizie e dalle carogne.

Sopra e intorno a quei trampolieri svolazzano a stormi le anitre braminiche, le folaghe dalle penne color porpora o indaco, e i marangoni che di quando in quando si precipitano nel fiume a pescare il mango, eccellente pesce, assai stimato dalle popolazioni rivierasche.

Guidato dal mio molango, che non mi capiva che a mezzo di cenni, io e il mio mozzo giungemmo in breve dinanzi ad una capanna di bella apparenza, ombreggiata da un gruppo di palmizi tara e adorna di due o tre pelli di tigre messe a seccare e che tramandavano un acuto odore di selvatico.

Udendoci a parlare, uscì un uomo, il quale ci salutò cortesemente, chiedendoci lo scopo della nostra visita. Era questi un vecchio sui sessantanni, ma ancora robusto, con gli occhi vivi, brillanti e il viso ombreggiato da un paio di grandi baffi grigi.

Le numerose cicatrici che solcavano il suo viso, il suo braccio destro, che pareva immobilizzato da una recente ferita, e la sua mano sinistra mutilata mi fecero subito comprendere di trovarmi dinanzi a John Hakkart, il famoso cacciatore di tigri.

Informatolo dello scopo della mia visita, John Hakkart si mostrò tutt'altro che scontento, anzi si mostrò di una gentilezza squisita, promettendomi di soddisfare la mia curiosità seduta stante. Fece portare da uno de' suoi servi una eccellente bottiglia di brandy, riempì le tazze, caricò flemmaticamente la sua vecchia pipa, e dopo d'averla accesa mi disse:

— Giacché lo desiderate, vi narrerò alcune delle mie avventure, possibilmente le più interessanti. Se tornerete in seguito, ve ne racconterò altre.

Sorseggiò fino al fondo il suo bicchiere, poi, dopo di aver pensato alcuni istanti come per raccogliere dei lontani ricordi, riprese:

— Alcuni anni or sono, cinque o sei per lo meno, mentre stavo percorrendo per diporto le Sunderbunds meridionali, cacciando i grandi trampolieri, sbarcavo a Raimatla, piccola isola che si trova non molto lontana dalla foce del Mangal, che, come sapete, è uno dei canali del Gange.

«Mi ero appena accampato col mio fedele Baladagiri, un giovane bengalese che mi accompagnava sempre nelle mie escursioni, quando giunsero alcuni molanghi a dirmi che una tigre admikanevalla aveva attraversato il fiume Jor, prendendo e divorando una povera donna che stava raccogliendo le frutta dei manghi.

«Una tigre admikanevalla è quella che ormai ha assaggiato la carne dell'uomo, che d'ora innanzi non cercherà che vittime umane. Ordinariamente è una tigre vecchia che, non possedendo più l'agilità necessaria per assalire di slancio gli altri animali, s'imbosca su di un sentiero, aspettando l'uomo e la donna. È la più pericolosa di tutte, forse, poiché spinge la sua audacia fino a entrare di notte nei villaggi per rapire gli uomini che dormono all'aperto.

«Avevo cacciato più volte la tigre, anzi mi ero convinto che simile caccia non è poi tanto pericolosa, come generalmente si crede, per un cacciatore che possieda un certo sangue freddo e che è sicuro del suo colpo, poiché simili felini, se non temono l'indiano, che è quasi sempre male armato e poco risoluto, fuggono dinanzi all'uomo bianco munito d'un fucile. Non attaccano che di rado, si difendono solamente quando vengono incalzate o ferite.

«Accettai la proposta di sbarazzare quei poveri indigeni dal pericoloso vicino, e feci tosto i miei preparativi per la caccia.

«Attraversai il fiume e sbarcai di fronte all'isola, nella fitta e spinosa jungla delle Sunderbunds. Non tardai a trovare le tracce della tigre, le quali si addentravano in un fitto macchione di bambù tulda; queste tracce consistevano in un gran numero di ossami, fra i quali ne distinsi non pochi appartenenti a persone.

«Un puzzo nauseante come di carne corrotta e di selvatico veniva dal macchione, segno evidente che là in mezzo si trovava il covo della fiera.

«Ispezionato il terreno, rimandai all'isola i molanghi che mi avevano seguito, che mi sarebbero stati più d'impiccio che di utilità, e mi nascosi assieme al mio bengalese dietro il tronco di un latania, specie di palmizio. Volevo attendere la tigre al passo, poiché sarebbe stata una follia volerla snidare fra quei bambù intricati e spinosi.

«La notte non tardò a calare, una notte oscura come la culatta d'un cannone da ventiquattro, essendo il cielo coperto. Dai fetenti canali delle Sunderbunds, dove imputridivano i cadaveri degli indiani, trascinativi dalle acque del Gange, si innalzava una nebbia pesante, carica di esalazioni pestifere. Non si udiva altro rumore che il sordo gracchiare dei marabù, grossi uccelli armati d'un becco robusto, che banchettavano sulle rive dei canali, rimpinzandosi della carne dei morti.

«Cominciavo a trovare la mia posizione assai incomoda e a provare i primi brividi della febbre, quando il mio bengalese, che stava sdraiato presso di me, mi sussurrò agli orecchi: "La bàg, la tigre, si avvicina".

«Il mio uomo era stato per lungo tempo un sikkaro, ossia un battitore dei boschi nelle cacce delle tigri: quindi non poteva essersi ingannato. Mi alzai lentamente sulle ginocchia e colla carabina in mano, sperando di vedere la tigre uscire dal macchione; ma nulla vidi, né nulla udii.

«"Rimanete qui, che io vado a scovarla" mi disse il bengalese.

«Prese il suo fucile e si allontanò strisciando come un serpente. In pochi istanti non lo vidi più.

«Passarono alcuni minuti di angosciosa aspettativa. Tutto d'un tratto il silenzio della notte fu rotto da una fragorosa detonazione.

«Era il fucile del mio sikkaro: lo avrei distinto fra cento altri. Stavo per alzarmi, quando udii un grido acuto, un grido straziante, che non scorderò se dovessi vivere mille anni.

«Mi alzai come un pazzo, pallido, coi capelli irti, il cuore serrato come da una mano di ferro, e mi precipitai verso il luogo d'onde era partita la detonazione.

«Giunto sul limite d'una piccola spianata, vidi uno spettacolo orribile. Il mio bengalese giaceva a terra, e sopra di lui stava la tigre, che lo aveva afferrato pel capo, stritolandoglielo tra i formidabili denti.

«Mirai la fiera e le scaricai contro i due colpi della mia carabina. La vidi spiccare un salto immenso e ricadere a terra senza vita.

«Quando raggiunsi il mio bengalese, questo non dava quasi più segno di vita. Il suo cranio era stato sfracellato dai denti della tigre.

«Sentendomi vicino, il poveretto aprì gli occhi ed ebbe ancora la forza di chiedermi con voce appena distinta: "Bàg mahrgaya? La tigre è morta?".

«Gli risposi che l'avea uccisa. Un lampo di gioia balenò negli occhi del disgraziato, ma si spense subito: era morto!»

John Hakkart rimase parecchi minuti silenzioso, assorto in quel doloroso ricordo, poi, dopo d'aver riempito e vuotato la sua tazza, continuò con voce lenta e monotona:

— Vi racconterò ora una terribile avventura che per poco non mi costò la vita. Porto ancora le tracce di quella pericolosa caccia e potete vederle sul mio viso, che sembra sia stato lacerato in tutti i versi dalle unghie d'una fiera.

«L'anno scorso mi trovavo accampato sulle rive del Mangal nel mezzo di un banian sacro, albero immenso che da solo forma un'intera foresta, poiché i suoi rami, curvandosi verso terra, mettono radici trasformandosi in altrettanti tronchi.

«I miei servi, due valorosi maharatti, figli della belligera razza che abita l'India occidentale, avevano scoperto le tracce di un rinoceronte, grosso animale che ha qualche cosa dell'elefante, ma violento, di una brutalità inaudita, coperto da una pelle così spessa che sfida le palle delle migliori carabine, e mi ero piccato di ucciderlo.

«Non vedendolo però comparire dopo quattro giorni di aspettativa, mi decisi di andarlo a scovare e partii solo, fidando nella mia fedele carabina, che mai non ha mancato al colpo.

«Percorsi la jungla in tutti i versi, lasciando fra le spine metà del mio vestito; ma giunse la sera senza aver incontrato il colosso.

«Quando mi decisi a ritornare all'accampamento la luna era sorta e la notte era calata.

«Camminai a lungo sotto i boschi, cercando di orientarmi; ma dopo d'aver camminato per parecchie ore mi convinsi che mi ero smarrito per quello immenso labirinto di giganteschi vegetali.

«Quantunque fosse pericoloso passare la notte nella jungla e per le tigri e pei miasmi, mi sdraiai ai piedi di un borasso, superbo albero le cui foglie sono disposte a ventaglio e che viene assai apprezzato, ricavandosi dal suo succo una specie di vino assai zuccherato: accesi la mia pipa e aspettai tranquillamente l'alba.

«Erano trascorse alcune ore e stavo per chiudere gli occhi vinto dalla stanchezza e dalla fame, quando la mia attenzione fu attirata da un leggero strofinìo.

«Mi stropicciai vigorosamente gli occhi, lasciai cadere la pipa che si era spenta e mi levai silenziosamente sulle ginocchia, raccogliendo il fucile.

«Un pavone, che nell'India è l'emblema della dea Sarasvati, che protegge le nascite e i matrimoni e perciò uccello sacro, si alzò dal mezzo di un gruppo di bambù, mandando un grido di terrore. Era senza dubbio un avvertimento, e mi tenni in guardia, sospettando la presenza di qualche animale pericoloso.

«Poco dopo vidi uscire da un altro gruppo di piante un animale che dapprima non potei distinguere, stante la fitta ombra proiettata dal borasso, ma che ben presto riconobbi per un ascis, grazioso animale che tiene del cervo e del daino. Senza dubbio si dirigeva verso il fiume per dissetarsi.

«Convinto che non fosse stato quell'inoffensivo animale a spaventare il pavone, mi nascosi dietro il tronco dell'albero per osservare ciò che stava per succedere.

«L'ascis si avanzava con precauzione e pareva inquieto, poiché alzava di frequente il naso e fiutava l'aria. In quell'istante un colpo di vento portò fino a me quell'acuto odore di selvatico che emanano le tigri.

«"Stiamo in guardia" mormorai. "La tigre non è lontana."

«Avevo appena terminato, che vidi una grande ombra slanciarsi fuori da una macchia a piombare sulla groppa del grazioso cervo, il quale cadde sulle ginocchia sotto il peso.

«Era una tigre reale, una delle più grandi che io ho veduto in mia vita. Con un colpo d'artiglio squarciò i fianchi al povero ascis, rovesciandolo a terra esanime. Fosse la rapidità dell'attacco, fosse la statura gigantesca della tigre o un presentimento, provai una specie di paura ed esitai ad alzare la mia carabina. Parve che la fiera avesse indovinato la mia presenza, poiché prima di accingersi al pasto si volse dalla mia parte, facendo udire un sordo miagolìo, ma che sembrava un basso ruggito, e fissando su di me i suoi occhi contratti in forma di un'i e dai riflessi d'acciaio.

«Non esitai più. Alzai il fucile e, quantunque le mie braccia fossero agitate da un tremolìo strano, feci fuoco.

«Il primo colpo partì, ma il secondo rimase nella canna. Non ebbi il tempo di cambiare la capsula, poiché vidi la tigre varcare con un solo salto la distanza che ci separava e piombarmi addosso.

«Mi parve di aver ricevuto un colpo di mazza in mezzo al petto, e caddi stordito all'indietro. Sopra di me mugolava la tigre, colla bocca aperta, gli artigli cacciati nelle mie carni, pronta a stritolarmi il cranio. L'avevo solamente ferita, e il suo sangue mi colava sul viso come una doccia calda. Mi tenni per morto, e in quel supremo momento mi ricorse alla mente la disgraziata fine del mio povero sikkaro. Nondimeno non volevo lasciarmi sbranare senza lotta, e questa la impegnai: ma quale lotta!

«Avevo abbandonata la carabina, diventata inutile quanto un bastone, ma avevo impugnato il kriss malese, specie di lungo pugnale dalla lama serpeggiante e che portavo sempre alla cintola.

«Mi misi a vibrare colpi all'impazzata, cercando nel medesimo tempo di afferrare la belva per la gola colla mano rimastami libera.

«La fiera ruggiva in modo orribile e tentava di stritolarmi il capo fra le sue possenti mascelle; ma non le lasciavo tempo, gettandomi sempre indietro.

«Quanto durò quella lotta disperata? Io non ve lo saprei dire. Mi ricordo ancora confusamente di aver veduto la tigre traballare sotto un colpo di pugnale che doveva averle spaccato il cuore, e poi stramazzare sopra di me.

«All'indomani i miei due maharatti mi trovarono svenuto in una pozza di sangue, colle spalle dilaniate, il viso tutto lacerato, quasi sepolto sotto la tigre, che era morta sopra di me, dopo ben undici pugnalate.

«Rimasi a letto più di un mese, ma finalmente guarii, e ora la pelle della fiera mi serve da tappeto.»

Essendosi fatto tardi ed essendo le vicinanze delle Sunderbunds pericolosissime, mi congedai dal gentile cacciatore, promettendogli di tornare all'indomani. Mantenni la parola, e mi narrò parecchie altre pericolose avventure, che altre volte trascriverò. Il terzo giorno però partimmo colla nostra nave alla volta di Varauni, la capitale del Sultanato di Borneo.

John Hakkart ci seguì col suo canotto fino a Sangor, che è l'ultima isola dell'Hugly. Quando mi lasciò pareva commosso; forse presagiva la sua prossima fine e sentiva che io non dovevo più rivederlo.

Infatti l'anno seguente, essendo ritornato in India, apprendevo la triste notizia che il vecchio cacciatore era stato divorato da una tigre sulle sponde occidentali del Mangal!