Le figlie dei Faraoni/Capitolo 20 - Il quartiere degli stranieri
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CAPITOLO VENTESIMO
Il quartiere degli stranieri
Menfi, che fu la capitale delle prime dinastie faraoniche, mentre Tebe la grande lo fu delle ultime, sorgeva sulla riva sinistra del Nilo. Fondata da Menes, uno dei più grandi re egiziani, circa sette od ottomila anni or sono, dopo lavori imponenti per trattenere le acque del Nilo ed impedire ad esse d'invadere la città durante le piene, aveva raggiunto rapidamente uno splendore immenso, tale anzi da formare la meraviglia del mondo antico.
Gli Egiziani, lo abbiamo già detto, erano grandi costruttori che ci tenevano a fabbricare le loro opere di dimensioni immense, e d'una solidità tale da sfidare i secoli; a Menfi avevano abbondato più che altrove in grandiosità, innalzando templi colossali, che un numero infinito di colonne reggevano, obelischi mostruosi, palazzi reali meravigliosi e piramidi. La città occupava un'area immensa, perché serviva d'asilo a molte centinaia di migliaia di abitanti, spingendo le sue ultime case fino sulle sabbie del deserto libico, su quelle sabbie traditrici, che dovevano più tardi concorrere potentemente alla sua distruzione, secondo la sinistra profezia di Geremia.
Tebe fu meravigliosa, ma non potè raggiungere mai lo splendore di Menfi, che fu la più popolosa città del mondo antico, come la più ricca, per monumenti e la più potente come piazza forte.
Come scomparve attraverso tanti secoli quella grandiosa città, senza lasciare quasi traccia della sua esistenza? Sembrerebbe impossibile, eppure di tutti quei monumenti colossali oggidì non sono rimaste a dimostrare il luogo ove un giorno sorgeva, altro che alcune piramidi che resistettero, assieme ad altre, agli insulti del tempo, un pezzo di una statua colossale che rappresenta Ramsete II ed una necropoli, la più antica del mondo, dacchè ha all'incirca 7000 anni d'esistenza e che nel tempo istesso è anche la più vasta, avendo una larghezza di ben sessanta chilometri. Tutto il resto è crollato, come se una spaventevole scossa di terremoto avesse tutto distrutto e quello che è più, perfino le rovine di quei colossali monumenti sono scomparse.
Là dove un giorno sorgeva orgogliosa la grande città dei più potenti e dei più fastosi Faraoni, ora non si scorgono che colline di sabbia. Nulla è rimasto di tanta gloria e possanza e la terra stessa, nutrice un giorno generosa di tante generazioni scomparse, sembra si sia perfino essa stessa stancata di germogliare, perché solo nei mesi di marzo e di aprile, allorquando le inondazioni hanno reso qualche vitalità alle sue vene dissanguate, essa si copre appena d'una magra vegetazione, che i venti caldi si affrettano poco dopo a disseccare.
La barca di Mirinri, o meglio di Nefer, trascinata dalla corrente che aumentava sempre, aprendosi al di sotto dell'immensa città le innumerevoli bocche del delta, s'avvicinava rapidissima a quella imponente linea di grandiosi monumenti e di superbi palazzi, che si estendeva per miglia e miglia lungo la riva sinistra del maestoso fiume.
Il giovane Figlio del Sole, sempre ritto sulla prora, guardava l'orgogliosa città senza fare un moto, né pronunciare una parola: pareva che fosse affascinato dalla grandezza e dallo splendore della capitale del più antico regno del mondo, entro le cui mura merlate e formidabili aveva aperto gli occhi alla luce, ma che dopo così tanti anni non ricordava più. Il suo viso aveva assunto un aspetto quasi selvaggio e la sua bocca semi aperta aspirava a pieni polmoni l'aria della immensa città, che una fresca brezza sospingeva, al di sopra del Nilo, verso il settentrione: aspirava il lontano profumo della giovane Faraona o la potenza del regno, che suo padre aveva salvato dalle invasioni barbariche degli asiatici?
Ben presto la barca si trovò dinanzi alle gigantesche dighe, formate da colossali blocchi di pietra, che in quei tempi remoti opponevano una barriera insormontabile alle piene periodiche del Nilo; esse erano ingombre di barche di tutte le dimensioni ancora occupati da schiere di schiavi, quantunque la notte fosse per calare.
Ata, che era quasi sempre vissuto a Menfi, diede ordine al comandante della barca di prendere terra all'estremità dell'ultima diga, che difendeva gli ultimi sobborghi del mezzodì, dove pochissimi erano i navigli, non osando sbarcare i suoi amici nel centro della città. La polizia del re poteva essere stata avvertita da qualche traditore del loro arrivo e prenderli subito. Nei lontani sobborghi la cosa era diversa ed in caso disperato potevano, coll'aiuto dei trenta etiopi, opporre una feroce resistenza e fuggire attraverso i canali del delta, prima che potessero giungere le guardie del re.
«Mentre io vado ad avvertire gli antichi partigiani di Teti,» disse Ata, quando la barca fu ormeggiata saldamente alla riva, «voi andrete ad abitare nel Ta-anch (quartiere degli stranieri) dove vi sarà più facile passare inosservati e là attendere il mio ritorno. Vi sarà facile trovare qualche casetta e spacciarvi per poveri battellieri assiri, caldei o greci.»
«Ed io riprenderò il mio mestiere d'indovina,» disse Nefer.
«Ecco una buona idea,» disse Ounis. «Mirinri si farà passare per tuo fratello, così ogni sospetto sul suo vero essere sarà maggiormente allontanato.»
«Dovrò fare l'istrione?» chiese Mirinri.
«Non è necessario, mio signore,» rispose Nefer. «Tu t'incaricherai solamente di ritirare il denaro. Sarai il mio cassiere ed insieme il mio protettore.»
«Se ciò è necessario per conquistarmi il trono, non mi rifiuterò,» rispose Mirinri, sorridendo. «Devo anch'io impormi dei sacrifici.»
«Siete pronti a sbarcare?» chiese Nefer.
«Tutti,» rispose Ounis.
La fanciulla s'avvicinò al comandante della barca, che pareva aspettasse i suoi ordini e dopo d'avergli mostrato nuovamente il gioiello strappato a Her-Hor, gli disse:
«La nave è tua, perché io te la dono, a condizione però che tu parta immediatamente e che tu scenda fino al mare. Colà potrai trafficare coi fenici, coi greci o coi siriani. Bada che se tu pronuncerai una parola con chicchessia di quanto hai veduto, la vendetta di Pepi saprà raggiungerti.»
«Obbedisco,» rispose semplicemente il capo dei barcaiuoli.
«Scendiamo,» disse Nefer.
Essendo la notte già calata, il molo era diventato deserto, sicché poterono sbarcare inosservati. Avevano appena messo il piede a terra, che la barca riprendeva subito il largo, scomparendo ben presto in uno dei numerosi canali del delta che conducevano al mare.
«Perché hai mandato via costui, Nefer?» chiese Mirinri alla fanciulla.
«Qualcuno poteva aver notato il tuo atto, allorquando Pepi passava presso di noi e una parola, un sospetto, potrebbe perderci. I traditori sono dovunque.»
«Ammiro la tua prudenza.»
«E non sarà mai troppa,» aggiunse Ounis. Poi, volgendosi verso Ata, disse: «Il nostro numero non attirerà l'attenzione degli abitanti del sobborgo?»
«I miei etiopi hanno già ricevuto l'ordine di disperdersi e di aspettarmi nei pressi della piramide di Daschour. Sarà là che io radunerò tutti i vecchi partigiani di Teti.»
«E noi?»
«Troverò una casa. Vi è qui un vecchio mio amico, un siriano che io ho più volte soccorso e vi cederà la sua casa. Seguitemi e non parlate.»
Mentre gli etiopi si disperdevano, prendendo diverse direzioni, l'egiziano s'addentrò in una viuzza che era fiancheggiata da piccole case di forma quadrata, colle muraglie leggermente inclinate e prive di finestre. Non erano tutte del medesimo stile, essendo popolato, il quartiere destinato agli stranieri, da asiatici appartenenti a diverse razze e anche da commercianti della bassa Europa, specialmente dei dintorni del Mar Nero, ai quali il governo egiziano lasciava la libertà di scegliere quel genere di costruzioni che loro convenivano.
Il piccolo drappello, che prima di lasciare la barca si era munito di armi, non ignorando Ata che quel quartiere, se serviva d'asilo agli stranieri era pure abitato da corporazioni di ladri1, dopo d'aver percorso indisturbato parecchie viuzze si arrestò finalmente dinanzi ad una casetta di modesto aspetto, col tetto coperto di paglia. Ata entrò solo, essendo la porta aperta e poco dopo uscì assieme ad un uomo il quale, dopo d'aver fatto un muto saluto con una mano, si allontanò, scomparendo in fondo alla oscura viuzza.
«La casa è vostra,» disse allora Ata. «Il suo proprietario non verrà ad inquietarvi: consideratevi come legittimi proprietari. Sopratutto prudenza e obbedite a Nefer.»
«Quando tornerai?» chiese Ounis, che sembrava preoccupato.
«Appena avrò preparato il terreno pel gran colpo. Il tesoro deve essere già giunto e potrò assoldare un'armata tale da far tremare il Faraone.»
«Non contare i talenti, ricordatelo, Ata.»
«Ci saranno anche i miei e quelli dei vecchi amici di Teti,» rispose l'egiziano.
Salutò tutti tre, poi a sua volta si allontanò a rapidi passi, nella viuzza deserta.
«Entriamo nella mia reggia,» disse Mirinri scherzando. «Veramente non era questa che mi aspettavo a Menfi.»
«Sii paziente,» disse Ounis, con accento quasi di rimprovero.
«Non mi lagno. Quella che abitavo nel deserto era ben peggiore di questa, eppure ero forse allora più lieto.»
Entrarono, prendendo una lampadina di terra cotta che si trovava appesa allo stipite della porta e prima di tutto esplorarono minuziosamente la casetta.
Non vi erano che due sole stanze, di forma rettangolare, con le pareti ed il pavimento composto d'una specie di cemento a varie tinte, ammobiliate sobriamente, essendo i mobili di lusso riservati ai grandi signori del reame. L'unico letto consisteva in un pagliericcio di lino, pieno di foglie secche, gli arnesi della cucina in vasi di terra cotta, però non mancava un tavolo pieno di vasi e vasetti contenenti unguenti misteriosi e profumi, amando assai gli Egiziani fare ogni giorno una toletta accurata, anche se non appartenevano alle classi molto elevate.
«Tu ti coricherai nella seconda stanza, Nefer,» disse Ounis. «A noi basterà la prima, è vero, Mirinri?»
«Noi siamo già abituati a dormire sulle sabbie del deserto,» rispose il Figlio del Sole. «E poi dormirei anche sulla nuda terra di Menfi.»
«Che cosa provi, trovandoti qui, mio signore?» chiese Nefer.
«Non te lo saprei dire» rispose il giovane. «Mi sembra però di essere diventato un altro uomo. È l'aria di questa immensa città; è l'ansietà d'impegnare la lotta; è la sete di potere e di grandezza o qualche cosa d'altro, mi sento più felice qui, in questa umile dimora, che non sulla barca che Ata guidava sul Nilo. Sento finalmente di essere qualche cosa nel mondo; di non essere più un ignoto.»
«Sicché ti trovi pronto al supremo cimento,» disse Ounis, che lo osservava attentamente.
«Sì,» rispose Mirinri, «pronto a sfidare tutto e tutti.»
«A vendicare tuo padre ed a conquistare il trono?»
«Sì,» ripetè il giovane con suprema energia. «Quando i vecchi amici di mio padre avranno radunati i loro partigiani, io mi metterò alla loro testa e andrò a chiedere conto all'usurpatore del grande Teti, della sua corona ed a strappargli dalla fronte il simbolo di diritto di vita e di morte, che a me solo spetta.»
«Ma sii prudente, come ti ha detto Ata. Pepi deve aver organizzato un servizio di spionaggio per sorprenderti e chissà a quest'ora che non ti si cerchi in questa immensa città, quantunque io speri che abbiano perdute le nostre tracce dopo la nostra fuga dall'isola delle ombre.»
«Rimarrò nascosto in questa casa fino al ritorno di Ata?»
«No, sarebbe un'imprudenza,» rispose Ounis. «Un uomo che si guadagna da vivere non desta sospetti; uno che vive senza poter dimostrare di possedere, può allarmare la sospettosa polizia di Pepi. Segui Nefer: una indovina può ben avere un fratello.»
«Farò come mi consigli,» rispose Mirinri, sorridendo. «Due Faraoni che battono la via come due istrioni!»
«È tardi,» disse il vecchio. «A te il letto, Nefer; noi ci accontenteremo dei tappeti che si trovano nella stanza attigua.»
«A domani, mio signore,» disse la fanciulla. «Impareremo, quantunque siamo Figli del Sole, a guadagnarci la vita.»
Spensero la lampada e si coricarono: Nefer sul lettuccio e Ounis e Mirinri su una stoffa grossolana, formata di fibre vegetali, che occupava una parte della seconda stanza.
Note
- ↑ Esisteva fra gli antichi egizi una legge assai singolare concernente i ladri. Essa ordinava a coloro che volevano darsi a quell'industria, che si facessero iscrivere presso il capo dei ladri e gli portassero d'allora in poi tutti gli oggetti che avessero rubato. Il capo doveva in seguito restituirle ai derubati, dietro però un compenso fissato. Nell'impossibilità d'impedire a tutti di rubare, i legislatori egizi avevano trovato quello strano mezzo per far restituire gli oggetti rubati.