Le feste dell'anno cristiano/Libro III

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Libro II Le feste dell'anno cristiano
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LIBRO TERZO

Se tesor fosse meco, i pregi altieri
Del popolo del Ciel non tergerei
Pur col limpido fonte d’Elicona,
Ma segno lascerei de’ miei pensieri
A’ lor divoti con mirabil opra
In riva al mar della non vil Savona.
Selci Africane, e dell’Arabia marmi
Ergerebbono un Tempio; e monti Argivi
Dariano alte colonne; e d’ogn’intorno
Starian Colossi poco men che vivi:
Oro gli altari, e de’ sacrati arnesi
Splenderiano per oro i fregi illustri;
E l’immense pareti, alta pittura,
Terrebbon della turba i guardi intenti,
Meravigliando di pennelli industri:
Di varj regai innumerabil genti
Vedriansi; e loro in mezzo ampio steccato,
Ed ivi eccelso su Dedalei seggi,
Per ogni parte spanderia lontano
Lampi d’ostro e di gemme il gran Senato:
Ma fra lor sommo, e successor di Pietro
Rifulgerebbe il sacrosanto Urbano,
Pastor del mondo: ei coronato i crini
Del tesoro infinito, alma Tiara
E fra le pompe degli eterei manti
Sederebbe in sembianza oltra mondana;
E tal porrebbe ad adorar fra’ Divi
Solennemente la reina Ispana.
In cima dell’Olimpo i campi eterni
Colmeria gaudio; e le magion beate
Farebbe risonar canto divino;
Ma nel sulfureo orror degli antri inferni
Bestemmierebbe ognora arso e riarso
L’empio Lutero, e ’l non miglior Calvino.

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Tal è nel petto il mio desire: intanto
Con dimessa armonia tesserò rime;
Nè vili appariran, se loro avverso,
Ciampoli, in Vatican non ti dimostri,
O possente ad aprir nuovi Pegàsi,
E far su Pindo verdeggiare allori,
Più sacro Febo de’ Castalii chiostri.
Allor che Febo con l’Icaria figlia
Fa suo cammino, e che diletto a Bacco
Ne vien settembre, e che dell’uve omai
Altra divien dorata, altra vermiglia,
Il Sol del biondo crin tragge i bei rai
Tre fiate dal Gange, e mena il giorno,
Ove Anna espose il gran Portato; giorno,
Che il nome femminile alto sublima,
E d’ogni alta virtute il rende adorno.
Maria ci nacque; ed è ragion, che gioja
Ingombri a dismisura e Cielo e Terra.
O peccator, di penitenza t’arma,
Ed apprendi all’Inferno omai far guerra:
Non sgomentar se ti si fanno incontra
Le colpe andate, al Tribunal divino
Non sgomentar, si troverà Maria
Sempre Avvocata ad impetrar pietate.
Ma quando più del Sol non si querela
Il dì, che della luce ha parte uguale,
E l’atra notte non glien fa rapina,
Non daremo sue lodi al gran Matteo,
Grande, perch’ei notò ia gran dottrina
Del gran Maestro; e perchè nobil morte
Gli guadagnò nel cielo auree ghirlande:
Grande in piantare, e sublimar la Croce
Fra genti strane; ed in gittare a fondo
Altiere insegne de’ Tartarei grande.
Indi non men per la milizia immensa
Dell’Angelica esercito festeggia
Devotamente ogni cittate. Ed indi
Di Girolamo fassi alta memoria:
Memoria degna, che s’appoggia al merto,
Merto, onde cresce il Vatican sua gloria.
Ma poscia, che d’ottobre il quarto Sole
Torrà dal Polo la Cimmeria notte,
Il mattin viene, che Francesco onora:
Maestro de’ Mendici, egli non scelse
Le care a tutti i cor conche di Gange,
Ed i tanto ammirati ostri Fenici,
Ma grotte alpestre, i cui profondi orrori
Il più fervido Sole unqua non frange;
E di bell’Alpe infra solinghi alberghi
Solo non dimorò; con Povertate
Trassevi l’aspra, e di quaggiù sbandita
Eccelsa e profondissima Umiltate;
E la non finta Caritate ardente,
Ch’ama l’altrui, come la propria vita;
Nè men la Pudicizia, onta d’Inferno,
Che da lascivia sa schermir la mente.
Quinci nella stagion, ch’ombra riduce
Notte più tetra, a’ suoi smarriti passi
Apparse scorta di celeste luce
Verso l’oltraggio di profondi errori;
E nella forza dell’orribil verno
Sotto i suoi piedi germogliaro i fiori
Ei comandava; e per l’aeree piagge
Venian gli augelli ad ubbidirlo intenti;
E sulla terra delle nubi asciutte
Fea co’ suoi detti riversar torrenti;
E nelle rive, in che volgeansi l’acque
Di vin costrinse mormorar bel fonte,
Gentil conforto all’assetate genti:
O spirto per virtute in te dimesso,
E sovrano fra grandi, in quale parte
Non corrusca il fulgor de’ tuoi be’ rai?
E sulla terra, e su nell’alto Olimpo
Che non può tua preghiera, e che non fai?
Tu gli occhi spenti rifiorir di lume;
Tu le squadre de’ morbi, e tu disarmi
L’invitta morte della falce orrenda:
A te danno sue prede oltra il costume
L’oscure tombe, e nel profondo Inferno
Fiero mostro non è, che a te contenda:
Per te raccorre aspre montagne, e selve
Aprono spechi; e suo furor perverso
Volgono in vezzi formidabil belve.
A che parlar, s’ogni parlar vien manco?
Chi parlerà d’un Uom, che a Dio converso
Valse immagine trar da quelle piaghe,
Per cui trovossi scampo all’universo?
Ambe le palme, e l’uno e l’altro piede
Amor trafisse; e per amore il fianco
De’ martiri di Dio si fece erede:
A che parlar, s’ogni parlar vien manco?
Ora di Luca fassi incontra il giorno
A tributo pigliar di sue gran lodi:
Qual man sì pigra, e sì dell’ozio è vaga,
E qual sì fredda lingua oggi disnoda
Fievole suono, e di tacer s’appaga,
Che de’ suoi pregi ragionar non goda?
O Luca, o chiaro d’Antiochia lume!
Viverà spirto d’Uom cotanto ingrato,
Che non sollevi fino a ciel tua loda?
Spirito uman fia che di te non scriva,
Di te, che a noi sì volentier scrivesti
Le sacre carte, onde s’addita il varco
Da pervenire alle magion celesti?
Ed altra volta di più bei colori
Pennelleggiolle; e ci dipinse in terra
Il caro volto, che nel ciel s’adora,
Sì che potiam goder l’alma sembianza
Di lei, che saldo a peccator fa schermo,
E non lascia crollar l’altrui speranza.
Ora chi troverem, perchè si chiuda
Con nomi eletti e ben graditi il mese?
Noi troverem Simon, troverem Giuda,
Stelle maggior nel Firmamento accese.
Vien poi Novembre, e seco viene insieme
Ad essere adorato un mar di Santi,
De’ quali al nome non ha tanti l’anno
Giorni, che sian bastanti a celebrarli
Ad uno ad uno. Esercito infinito,
Ove anima fedel pronta ricorra,
E ne i travagli dell’umana vita
Sia certa ritrovar chi la soccorra.
E s’alcuna si volge al Turonese
Pastore in Francia, ella non fia pentita.
Mai sempre desto per gli altrui conforti:
Nudi coperse, rabbellì leprosi,
Il Sole a’ ciechi, e diè la vita a’ morti.
Ma non son Cigno a celebrar sue lodi,
Salvo ben fioco: e rimarran mie note
Affatto mute, se vorrò far conte
Di Caterina le mirabil rote.
Ella nascendo sulla terra apparse

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D’inclito sangue, e nella prima etate
Non furo di danzar suoi studj primi,
Anzi cresciuta delle Muse in grembo,
Apprese di lor bocca arti sublimi;
E fatta avversa all’idolatre torme,
I vani Idoli lor pose in dispetto,
Alto consiglio; ed a’ ministri acerbi
Confessò d’adorar l’odiata Croce,
Nè di ria morte paventò periglio:
Le sagge teste, a cui la terra Argiva
Di sommo seno concedea corona,
Vinse con senno, e con nettarea voce,
E vinse aspri flagelli, e vinse orrori
Di carcer tetro, ove affamata visse;
Lungo disdegno di tiranno atroce:
Sprezzò la vista di Tartaree rote,
Macchina orrenda, ed arrotati acciari:
Sprezzò ceppi e coltelli, e mostrò come
Chi per Dio soffra, i gran tormenti ha cari.
Specchio a’ mortali, onde nei tempi acerbi
Farsi costante il core afflitto impari:
Tu nel digiun, tu fra dolor funesti,
O Sol d’Egitto, tu negli antri oscuri
Di prigione aspra rimirasti pronti
A tuo conforto messaggier celesti:
Per te nell’alto le falangi eterne
Scelsero Duci a dissipar le travi
Di ferro armate; e con la destra ardente
Per te sospinse nelle tombe inferne
L’anime ingiuste, e verso te spietate.
Nè quando uscì dall’ammirabil seno
Tuo puro spirto, del superno Olimpo
A te venne, o reïna, il favor meno;
Che Ministri di Dio su fulgide ale
Scorta gli furo, e gli fermaro albergo
Sovra i campi stellanti in bel sereno;
E la bellezza delle membra ancise
Fu dell’Arabia consignata a’ monti,
Altra Fenice; ivi del corpo spento
Ad ogni ora licore almo diffonde.
O del mondo, e del ciel grande ornamento!
Viensene poi, perchè di lui si dica,
Già pescator, Signor di poche rete,
Scuro nocchier nel mar di Galilea,
Indi gran Tifi, a far l’anime liete
Per entro l’Oceán dell’universo.
Deh per noi preghi, e ci sia scampo Andrea.
Ora dell’anno, che si muove in giro,
Omai l’ultima parte a cantar vegno.
E pria di Niccolò, che con tesoro
Dotò la povertà di tre fanciulle,
Vero di bella Caritate esempio.
Ed indi il Milanese, che sul volto
Al non pentito imperadore Ispano
Serrò le porte del sacrato Tempio.
Fassi poscia veder l’alma giornata
Ove nel grembo ad Anna genitrice
La di Dio genitrice, alta Maria
Ebbe il principio suo, sempre beata,
Sempre cara del Ciel, sempre felice,
E per noi peccator mai sempre pia.
Ma chi me stanco omai sostiene, e porge
La mano? e di Parnaso in sulle cime,
E del puro Ippocrene in sulla riva
Infra Muse celesti oggi mi scorge,
Sì, ch’io vaglia a parlar della mia Diva?
Certo, s’a contemplar l’anime pure
Prendo giammai, che su nell’alto han seggio,
Ciascuna io canto; ma ne i pregi intento,
Onde le glorie sue cresce Lucia
A lei do vanto: ella, venuta appena
Fuor dell’acerba etate, ebbe in dispregio
Mortal consorte; ed al gran Dio conversa,
Solo bramò di puritate il pregio:
Nè fralemente contra lei s’armaro
Squadre d’Inferno, e di Cocito sorse
Mal esperta milizia a darle assalto;
Nè di Tiranni scellerati in terra
Con picciol’ira s’innasprì l’orgoglio
A contrastarla; e di vaghezze avverse
Con poca pena ebbe trionfo in guerra,
Mirabile a contarsi! aspri legami
Sulle tenere membra ella sofferse:
Nè si penti della pudica impresa;
Anzi ricinta di terribil foco
Serbò suo voto, e disprezzò costante
L’orride vampe della fiamma accesa.
D’insolita pietà le turbe vinte
Parte piangean, parte di ghiaccio il petto
Isbigottian degl’infiniti ardori.
Ma la dannata Vergine gioconda
Non cangiò volto; ed in pensier superni
Alto sapea gioir de’ suoi dolori:
Deh che fu rimirar dal collo eburno
Largamente sgorgar fiumi di sangue
Sulla neve del petto? e fra le dure
Pene a soffrir di sì vicino Occaso,
Non dare un crollo? e non cangiare aspetto?
O bella, o saggia, e qui nel mondo esempio
D’alta franchezza, il benedetto giorno
De’ pregi tuoi vien nell’orribil Verno,
In cui le nevi, in cui le nubi han regno,
E giglio non abbiam, che su gli Altari
A te si dia di puritate in segno:
Ma tu ben nata, delle nostre rime
Fatti ghirlanda, e grazïosa ascolta
I nostri prieghi, o di Gesù diletta,
La tua cara pietà non ci si nieghi.
Ora sorgiunge il tempo, o buon Tommaso,
Di te cantare, e d’incensar tuoi Tempj:
Tu rivelasti il Sol per l’Oriente
A quei, che ivi vivean sotto l’Occaso
Tanto, o messo di Dio, fosti possente.
Così cotante a raccontar giojose
Giornate ho trapassate; e sonmi avanti
L’ore beate del sovran Natale;
E però che risplende alta umiltate
Nell’eccelso mistero, io de’ miei canti
Vergogna non avrò, se il suono è frale,
Che se a’ tesori del saper divino,
E del potere oggi salir volessi,
Non pur d’un Cherubin basterian l’ale.
Dunque nella stagion, che regna il gelo
Quando nel suo cammin la notte ascende,
Consigliando a silenzio alto e profondo,
In Betelemme entro una stalla augusta
Nacque l’eterno Creator del Cielo;
Uomo mortale a dare scampo al mondo:
Maria fasciollo, e nel Presepio il pose;
Forte a pensarsi ma dall’alto in questa
D’Angeli scese carolando stuolo,
Là ’ve in campagna non dormian pastori;

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E rivelaro lor l’alta novella
Del Messia nato, e palesaro il luogo
Indi per entro un mar d’almi fulgori
In ciclo all’aurea region tornaro:
La pura gente in Betelemme i passi
Rivolse pronta; e ciò, che lor si disse
Esser sermon di verità trovaro.
Or qual di gemme sfavillante scettro
A se trarrammi? e da’ tugurj vostri
Semplice gente svierà miei versi?
Qual fia di Re corona oggi bastante
A far sì, che per lei disperda inchiostri?
Fortunate capanne e lieti ovili,
E cari paschi: in pastoral magione
Oro non splende, e non fiammeggian ostri,
E ricchezze Eritree vengono meno;
È ver, ma quivi non si teme insidia,
per industria di malvagio erede
Con vin famoso non si bee veneno.
Quai miglior piume, che la verde erbetta,
Se in lei si dorme? e che varranno i lini
Per Aracne filati a re possente,
Se ivi entro araldo di battaglia aspetta?
In mezzo de’ trofei vegghia, il famoso,
Che vince l’Asia, e non riman contento,
Ma vuol di nuovi allori ornar le chiome.
All’incontro il Pastor gode riposo,
Sono i popoli suoi picciolo armento,
E prato erboso sue provincie dome:
Ivi candide lane ha per tributo,
Con fresco latte regalarsi impara,
Vezzeggia i figli caramente, ed arde
Pur nell’amor della consorte cara:
Pura turba innocente, il cui desío
Odia gli oltraggi; e della cui bontate
Il Monarca del ciel non prende obblío.
Ecco per opra de’ corrier divini
Vanno al Presepio, e sono in terra i primi
Gli occhi a bear nell’umanato Dio.
Quale di tanto onor grazia si serba
A gente altiera? ah che d’infami esempi
Per ciascuna stagion vaghezza abbonda
Dentro le mura di città superba.
Stefano il sa tra miserabil scempi:
0 te, Giudea, da qual furore inferno,
Da qual tetro demon dirò rapita?
Chi si t’innaspra? chi così t’indura?
Perchè pronte le destre a fare strazio
Dell’alma santa, immacolata e pura?
A che vaneggi? il Correttor superno
Non abbandona nella pena indegna
L’anima d’un fedel senza mercede.
Volga, deh volga in questo specchio i lumi,
Se pur a mie parole altri non crede:
Ecco i macigni, onde s’apriro in fiumi
Le vene elette, che di sangue aspersi
Or fansi cari in sua memoria, e santi:
Ecco volano al cielo incensi e fumi,
E sacre note fanno udirsi intorno;
Nè fronte coronata è sì sublime,
Che non s’inchini a venerarne il giorno;
Ed ei del ciel sulle stellate cime
Trascorre fulgidissimo fra’ lampi
D’ammirabile porpora contesti,
E per la luce degli eterei campi
Guida trionfatore alme infinite,
Invitte al mondo tra martir funesti.
A quest’alma gentil, che tanto onore
Gode nell’alto, s’accompagna un’altra
Non già minore: appostolato ell’ebbe,
Ebbe virginitate; e de’ segreti
Grandi del cielo ella si fa scrittore:
Ma per te, sacratissimo Giovanni,
Entrare in campo, ed appressar mie rote
Alle tue mete, non mi basta il core.
Onde rivolgerommi a quei begli anni
Rubati all’innocenza, che sofferse
L’aspra rapina, e non conobbe i danni.
Qual sul Gange leon, qual tra le selve
Tigre di Scizia, ove digiun l’incenda,
S’avanza in rabbia a pareggiar tiranni
In forse posti dello scettro? Erode,
Condotto forsennando in fier sospetto,
Stendardi dispiegò contra vagiti,
E per fermarsi la corona in fronte,
Le fasce insanguinar prese a diletto,
E funestò le culle a’ Betlemmiti.
Lasso, che fu mirar ne’ petti infermi
Vibrar le spade, e disprezzar le strida,
Le strida, che sembravano ruggiti?
Misere madri! altra non han possanza,
Salvo pietate ricercar pregando:
Ma che giova pregar turba crudele,
E che per forza di real decreto
Convien, che mandi la pietate in bando?
Non pertanto sia modo alle querele,
Nè più traete guai sulle ferite,
Misere madri; anzi vi sia conforto,
Che ogni percossa di sì fatta morte
Ha con seco il gioir di mille vite;
E non faccia sentirsi idra d’Inferno
Contra Silvestro alto pastore, avvegna
Ch’ei fosse possessor d’ampi tesori:
Egli seppe vestir povero manto,
E viver chiaro in Vaticano: ei seppe
Carico fiammeggiar di ricche spoglie,
Nè però meno in ciel girsene santo,
Che la ricchezza le virtù non toglie.
Cotale alberga di Gebenna il lago,
E latra ognor contra il roman tesoro,
Che di quanti tesor si gloria il Gange
L’avaro suo desir non saria pago,
Che Roma abbondi, e che sia forte ci piange;
Ne può soffrir, che la beata Chiesa
Ritolta a povertà d’ostro s’adorni:
Ma s’ei l’avesse in man senza difesa
Non le farebbe altro che oltraggi e scorni.
Dicasi omai, se l’eresia ribolle,
Se Pannonia d’arcieri empie Ottomano,
E la greggia di Cristo al pastor corre,
Che può far ei con disarmata mano?
Tal volta forse ne travolge il sangue;
Ma te per certo non travolve Urbano:
O te ben nato, dal miglior cammino
Non torci i piè: tu la diletta sposa
Delle sue doti sconsolar non sai;
Anzi le serbi, e le difendi Urbino;
E quinci glorioso al ciel ten vai.