Le due tigri/Capitolo XXX - I traditori

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Capitolo XXX
I traditori


Il drappello invece di dirigersi verso la casupola dove Sandokan ed i suoi compagni avevano lasciati i loro cavalli, prese un’altra via che passava fra bengalow mezzi distrutti dal fuoco e giardini devastati.

Tremal-Naik, messo in guardia dall’avvertimento datogli dal cipai, e molto inquieto, temendo qualche sorpresa inaspettata, si provò ad interrogare il subadhar, ma l’ufficiale che era diventato bruscamente burbero, si limitò a fargli cenno di continuare la via.

— Tremal-Naik, — disse Yanez, — mi pare che le cose non vadano troppo lisce. — Che cosa è successo dunque?

— Non so nemmeno io, — rispose il bengalese. — Mi sembra tuttavia che si abbia ben poca voglia di farci entrare in Delhi.

— Che ci credano spie degl’inglesi? — chiese Sandokan.

— Un simile sospetto ci metterebbe in grave pericolo, — rispose Tremal-Naik.

— Le spie si fucilano da una parte e dall’altra e gli inglesi specialmente non risparmiano gl’indiani.

— Eppure non possono accusarci di nulla, — disse Yanez.

— Mi viene un sospetto, — disse ad un tratto Sandokan.

— Quale? — chiesero ad un tempo Tremal-Naik ed il portoghese.

— Che qualcuno ci abbia veduti a parlare col signor de Lussac.

— Guai se fosse vero, — disse il bengalese. — Non saprei come potremmo cavarcela.

— E non abbiamo piú le nostre armi! — disse Sandokan.

— Anche avendole, a che cosa ci potrebbero servire? Vi sono qui almeno un migliaio d’insorti e la maggior parte sono stati soldati.

— È vero, Tremal-Naik, — disse Yanez. — Bah! Forse tutto finirà invece bene.

— Dove ci hanno condotti? — chiese Sandokan.

La scorta si era fermata dinanzi ad una massiccia costruzione che pareva fosse stata un tempo qualche torre pentagonale. La parte superiore era però caduta ed i rottami si vedevano accumulati a breve distanza.

— Che sia il deposito degli arruolamenti questo? — chiese Yanez.

Il subadhar scambiò alcune parole colle due sentinelle che vegliavano dinanzi alla porta, poi disse a Tremal-Naik ed ai suoi compagni:

— Entrate che l’arruolatore vi aspetta per darvi i salva-condotti, senza i quali non potreste entrare nella città santa.

— E quando potremo ripartire? — chiese Sandokan.

— Tra qualche ora, — rispose l’ufficiale. — Seguitemi, signore.

Accese una torcia che aveva portata con sé, fece aprire la massiccia porta che sembrava di bronzo e salí una scala piuttosto stretta, i cui gradini erano in disordine e coperti da uno strato viscido di fango nerastro, depositatovi dall’umidità.

— È qui che abita l’arruolatore? — chiese Tremal-Naik.

— Sí, al piano superiore, — rispose il subdhar.

— Mi sembra piú una prigione che un ufficio.

— Non vi sono piú abitazioni disponibili. Avanti signori, ho fretta.

Giunti al primo piano spinse un’altra porta pure di bronzo e si ritrasse per lasciar passare Sandokan, Tremal-Naik, Yanez ed i malesi, ma appena furono dentro con una rapida mossa la rinchiuse con fragore, lasciandoli nella piú profonda oscurità.

Sandokan aveva mandato un urlo di furore.

— Canaglia! Ci ha traditi!

Successero alcuni momenti di silenzio. Perfino Yanez, che pareva non si sorprendesse di nulla, sembrava sbalordito.

— Sembra che ci abbiano rinchiusi, — disse finalmente, colla sua solita flemma. — Questa brutta sorpresa, parola d’onore, non me l’aspettava, nulla avendo noi fatto in danno degl’insorti. Che cosa ti pare, amico Tremal-Naik?

— Dico che quel furfante di generale ci ha ingannati abilmente, — rispose il bengalese.

— Tremal-Naik, — disse improvvisamente Sandokan. — Che vi sia qui sotto la zampa di Suyodhana?

— È impossibile che egli sia qui, proprio nel momento del nostro arrivo.

— Eppure ho questo sospetto, — rispose Sandokan.

— O piuttosto che qualche Thugs ci abbia riconosciuti e che abbia detto al generale che noi siamo degli spioni? — disse Yanez.

— Potrebbe darsi, — rispose Sandokan.

— Come dissi, io sono certo che qui sotto vi sia la mano degli strangolatori, — ripeté Sandokan.

— Vedremo innanzi a tutto dove siamo e se possiamo farla ai tuoi compatriotti, — disse Yanez. — Siamo in sette e qualche cosa si potrebbe tentare.

— Hai l’acciarino e l’esca? — chiese Sandokan.

— E anche una corda incatramata, che ci servirà come torcia per una decina di minuti, — rispose il portoghese. — E poi, i nostri malesi ne avranno qualche altra in fondo alle loro tasche.

— Accendi, — disse Sandokan. — Siamo tutti ciechi.

Yanez batté l’acciarino facendo scaturire alcune scintille, accese l’esca e diede fuoco ad una sagola.

Sandokan l’alzò guardandosi intorno.

Si trovavano in uno stanzone assai vasto, sprovvisto di mobili, con quattro finestre di forma allungata, che erano difese da grosse sbarre di ferro, le quali non erano certamente facili a smuoversi.

— È una vera prigione, — disse, dopo d’aver fatto il giro della sala.

— E non hanno scelto male il luogo, — rispose Yanez. — Muraglie che devono avere uno spessore di qualche metro e del ferro, in modo di non lasciarci fuggire.

«Io sarei curioso di sapere come finirà questa avventura.

«Che i tuoi compatriotti stiano discutendo la nostra sorte e pensino seriamente a fucilarci? Non sarebbe una cosa troppo allegra, in fede mia.»

— Aspettiamo che qualcuno venga, — disse Sandokan. — Non ci lasceranno a lungo senza notizie e senza cibo.

— Ah! Noi dimenticavamo il cipai del capitano Macpherson, — disse ad un tratto Tremal-Naik. — Quel brav’uomo s’interesserà della nostra sorte, ne sono sicuro, e ci farà sapere qualche cosa.

— È vero, — rispose Yanez, — per mio conto m’ero scordato di lui.

— Ben poco potrà fare, — disse Sandokan. — Non ha autorità.

— Avrà però degli amici, — rispose Tremal-Naik. — Io ho fiducia in lui.

— Cerchiamo di passare la notte alla meno peggio, — disse Yanez, gettando a terra la sagola che si era ormai quasi interamente consumata.

— Fino a domani nessuno si farà vedere.

Non essendovi né letti, né paglia, i sette uomini, si coricarono sul nudo terreno, che non era però umido, e cercarono di addormentarsi.

Erano tanto stanchi che, malgrado le loro preoccupazioni, non tardarono molto a russare.

Quando l’indomani si svegliarono, il sole cominciava a far capolino attraverso le grosse sbarre di ferro delle finestre.

— In piedi, — comandò Sandokan. — Pare che anche senza un letto si possa dormire discretamente bene.

— Nulla di nuovo? — chiese Yanez sbadigliando.

— Nessun cambiamento finora, — rispose la Tigre. — La sala o meglio la prigione è vuota come ieri sera.

Ci trattano come se fossimo dei paria. Non sono gentili questi insorti.

— Vediamo dove guardano le finestre, — disse Sandokan.

S’accostò ad una e guardò al di fuori.

Essa prospettava su una cinta semi-diroccata, ingombra di macerie ed in mezzo alla quale s’alzava un enorme tamarindo che spandeva sotto di sé una folta ombra.

Al di là della cinta non si scorgevano altre costruzioni, cominciando una boscaglia di borassi e di palmizi dalle immense foglie piumate.

Stava per ritirarsi, quando la sua attenzione fu attratta da un ramo del tamarindo che veniva scosso poderosamente.

«Che vi siano delle scimmie lassú?» pensò.

Guardò meglio, sembrandogli impossibile che dei piccoli quadrumani potessero imprimere ad un ramo cosí grosso degli urti cosí violenti e scorse fra il folto fogliame qualche cosa di bianco e di rosso che si agitava.

— Vi è un uomo, — disse. — Che ci sorvegli? Ah! Tremal-Naik!

Il bengalese che stava chiacchierando con Yanez fu lesto ad accorrere alla sua chiamata.

— Avevi ragione di dire che il cipai non ci avrebbe abbandonati, — gli disse Sandokan. — Lo vedi nascosto su quel tamarindo e che ci fa dei segni, che io non riesco a comprendere? Pare che voglia farci qualche comunicazione.

— Per Brahma e Siva! — esclamò Tremal-Naik. — È proprio lui!

«Se non osa accostarsi, ciò significa che noi siamo strettamente sorvegliati e che teme di compromettersi»

— Comprendi i segni che ci fa?

— Pare che voglia dirci di aver pazienza.

— Veramente non ne ho mai avuta ed avrei preferito qualche cosa di meglio, — rispose Sandokan.

«Cerca di fargli capire se potrebbe farci avere invece delle armi.»

— Troppo tardi; Bedar si è nascosto. Qualcuno s’avvicina di certo.

Guardarono verso la cinta e videro due insorti scalarla e saltare fra i rottami.

— Mi pare di aver scorto ancora quei due enormi turbanti, — disse Sandokan.

— Sí, ieri sera, dopo la cena, — rispose Tremal-Naik. — Quegli uomini accompagnavano il subadhar, tenendosi nascosto il viso.

I due indiani guardarono verso le finestre, osservarono le muraglie della torre, poi rivarcarono la cinta scomparendo dall’altra parte.

— Sono venuti ad accertarsi che noi non abbiamo strappate le sbarre o sfondata la muraglia, — disse Sandokan. — Brutto indizio.

In quel momento udirono i chiavistelli a stridere, poi la pesante porta di bronzo cigolò sui suoi cardini arrugginiti ed il subadhar comparve, accompagnato da quattro seikki armati di carabine e da due altri che portavano due ceste.

— Come avete passata la notte, signori? — chiese, con un sorriso un po’ sardonico che non isfuggí a Sandokan.

— Benissimo, — rispose questi, — devo però dirvi che da noi i prigionieri si trattano con meno cortesia, ma con maggiori comodità.

«Se non si può dare loro un letto, si fanno portare delle foglie secche. Forse che la guerra ha distrutti anche gli alberi?»

— Avete mille ragioni di lamentarvi, signore, — rispose il subadhar. — Io credevo che non vi dovessero lasciare qui tutta la notte e che vi fucilassero prima dell’alba.

— Fucilarci! — esclamarono ad una voce Yanez e Sandokan.

— Credevo, — disse l’indiano con aria imbarazzata, quasi pentito di essersi lasciate sfuggire quelle parole.

— E con qual diritto si fucilano degli stranieri che non hanno mai avuto nulla in comune con voi indiani? — chiese Sandokan. — Di che avete da lagnarvi voi?

— Io non posso rispondervi, signore, — rispose l’indiano. — È il generale Abú-Assam che comanda qui.

«Pare tuttavia che alcune persone abbiano fatto pressione sul comandante onde vi facesse fucilare ed al piú presto.»

— Chi sono quelle persone? — chiese Tremal-Naik, facendosi innanzi.

— Non lo so.

— Te lo dirò io allora: dei miserabili Thugs, quegli infami settari che disonorano l’India e che voi avete avuto il torto di accettare sotto le vostre bandiere.

Il subadhar era rimasto silenzioso; però dal suo sguardo si capiva che non osava dare una smentita.

— È vero che sono stati dei Thugs a chiedere la nostra morte? — chiese Tremal-Naik.

— Non so, — mormorò il subadhar.

— E voi vi creerete complici e solidali con quegli assassini? Se noi abbiamo assalito il loro covo, nei pantani di Rajmangal, è perché m’hanno rapito mia figlia e ne abbiamo uccisi quanti ne abbiamo potuto, fidenti di rendere un gran servizio all’India e voi in compenso vorreste farci fucilare.

«Va’ a dire al tuo generale che egli non è un soldato che combatte per la libertà indiana, bensí un assassino.»

Il subadhar aggrottò la fronte e fece un gesto d’impazienza.

— Basta, — disse poi. — Io non devo occuparmi di ciò; il mio dovere è di obbedire e null’altro.

Si volse verso i suoi uomini, fece deporre al suolo i due canestri, poi uscí colla sua scorta senza aggiungere sillaba, richiudendo la porta con gran fragore.

— Per Giove! — esclamò Yanez, quando furono soli. — Quel diavolo d’uomo mi ha guastato un po’ l’appetito. Poteva dircelo un po’ piú tardi. Decisamente quell’indiano non è molto educato.

— Si parla di fucilarci! — esclamò Tremal-Naik.

— Non è una cosa che fa molto piacere, è vero, mio povero amico? — disse il portoghese, che aveva acquistato il suo buon umore. — Che cosa ne dici, Sandokan?

— Che quelle canaglie di Thugs sono piú forti di quello che supponevo.

— E noi che credevamo di averli distrutti tutti!

— Mentre invece ce ne troviamo degli altri fra i piedi, amico Yanez, — rispose Sandokan.

«Se non troviamo il modo di filare piú che in fretta non so come finirà questa fermata, che io non avevo prevista.»

— Sí, cerchiamo il modo di andarcene, — disse Yanez, — dopo la colazione però.

«A pancia piena mi sembra che le idee dovrebbero scaturire piú facilmente.»

— Che uomo ammirabile! — esclamò Tremal-Naik. — Nessuna cosa lo scombussola!

— Bisogna prendere le cose filosoficamente, — rispose il portoghese, ridendo. — Forse che ci hanno di già fucilati? No... dunque?

— È la mia valvola regolatrice. — disse Sandokan. — Quante volte ho dovuto la mia vita alla sua flemma.

— Al diavolo le chiacchiere! — esclamò Yanez. — Vediamo invece che cosa ci hanno portato quei bricconi d’insorti.

«Per Giove! Ecco una brutta idea che mi farà scappare un altro po’ d’appetito.»

— Quale? — chiesero ad una voce Sandokan e Tremal-Naik.

— Se questi viveri fossero avvelenati?

— Che strana idea! — esclamò Sandokan. — Se avessero voluto sopprimerci nessuno avrebbe impedito a loro di fucilarci.

— Forse hai ragione, — rispose Yanez.

Scoprí i due cesti e vi trovò delle focacce, dell’antilope arrostita, del riso condito con pesce, un fiasco di vino di palma e perfino delle sigarette formate da una piccola foglia di palma che conteneva del tabacco rosso.

— Non sono troppo avari, — disse.

E dimenticando i suoi timori addentò risolutamente una focaccia, ma subito un grido gli sfuggí.

— Canaglie! Ci hanno messi dentro dei sassi e per poco non mi sono spezzato un dente.

— Dei sassi! — esclamò Sandokan.

— C’è qualche cosa di duro lí dentro.

— Vediamo.

Prese la focaccia e la ruppe in due pezzi. Con sua sorpresa vide una piccola pallottola di metallo che sporgeva fra la mollica.

— Oh! — esclamò. — Che cos’è questo?

Yanez se n’era lestamente impadronito, guardandolo con viva curiosità.

— Qui dentro vi deve essere qualche cosa, — disse.

— Lo suppongo anch’io, — rispose Sandokan.

— Che l’abbia messo Bedar? — chiese Tremal-Naik.

— Vediamo se possiamo aprirla, — rispose Yanez.

Si provò a svitarla e s’accorse che la cosa non era difficile. L’aprí e ne levò una pallottolina di carta.

— Buono, — disse.

Lo svolse con precauzione, temendo di guastare la carta e vide alcune lettere tracciate con inchiostro azzurro.

— Questo è indiano, — disse. — A te, Tremal-Naik, che conosci la lingua meglio di noi.

— Non vi sono che tre parole, — rispose il bengalese.

— Leggi.

— «Aspettate questa sera.»

— E null’altro? — chiese Sandokan.

— No.

— Nemmeno la firma?

— Niente, Sandokan.

— Chi può averci mandato questo biglietto?

— Un uomo solo: Bedar.

— Aspettate questa sera, — ripeté Yanez. — Che venga a segare le sbarre di ferro delle nostre finestre?

— Suppongo che qualche cosa farà, — rispose Sandokan.

«Abbiamo avuto una grande fortuna nell’incontrarlo. Se ci aiuterà sapremo ricompensarlo generosamente.»

— Purché non ci fucilino prima del tramonto, — disse Yanez.

— Ordinariamente le esecuzioni si fanno al mattino, — osservò Tremal-Naik.

— Come mai hanno sospesa la nostra?

— Non credo, Yanez, che pensino d’altronde a fucilarci, senza prima ascoltare le nostre difese, — disse Sandokan.

— Sono ribelli e non si prenderanno la briga di farci subire degli interrogatori, mio caro Sandokan. Che cosa vuoi attenderti da persone che, fino a pochi giorni or sono, hanno scannato ferocemente quanti inglesi hanno potuto acciuffare, senza risparmiare né le donne, né i fanciulli? Che cosa siamo noi per loro? Delle spie, sospettano, gente che si ammazza come cani idrofobi e che nemmeno gli eserciti regolari delle nazioni piú civili risparmiano.

«Bah! Giacché siamo ancora vivi, approfittiamo per finire la mia riserva di sigarette.»

Ed il brav’uomo senz’altro preoccuparsi del domani, accese la sua ventesima sigaretta assaporando l’aroma delizioso del tabacco manillese.

Durante la giornata nulla accadde di notevole. Nessuno entrò nella prigione; solamente furono veduti ricomparire entro la cinta i due indiani dall’enorme turbante, i quali eseguirono una minuziosa ispezione come al mattino.

Il sole stava per tramontare, quando il subadhar rientrò seguito dalla sua scorta e da due altri indiani che portavano la cena.

— Hanno cambiata idea o si sono persuasi finalmente che non siamo delle spie ai servigi degli inglesi? — gli domandò Sandokan, appena l’ebbe veduto.

— Temo il contrario, — rispose l’ufficiale facendosi oscuro in viso.

— Allora ci fucileranno domani all’alba, — chiese Yanez con voce perfettamente calma.

— Non lo so, tuttavia...

— Continuate pure. Noi non siamo persone da impressionarci troppo facilmente. — Il subadhar guardò i prigionieri con vivo stupore. Quella calma, in uomini ormai votati alla morte, lo aveva scombussolato.

— Credete voi che io abbia voluto semplicemente spaventarvi? — chiese.

— Niente affatto, — rispose Yanez.

— Siete uomini di ferro?

— Non siamo femminucce, ecco tutto.

— Se io fossi il generale, ve lo giuro, vi risparmierei, — disse il subadhar. — È un peccato uccidere della gente cosí valorosa.

— Ditemi, — disse Sandokan. — Ci fucileranno senza giudicarci?

— Sembra.

— Quali prove ha il generale per non crederci di essere delle persone oneste, qui venute per combattere al vostro fianco?

— Pare che qualcuno gli abbia fornito delle prove.

— Che noi siamo delle spie?

— Lo ignoro, signori. Riposate meglio che potete e fate onore alla cena che è abbondante e svariata.

«Troverete anzi un pasticcio che v’invia un cipai che voi conoscete e che mi ha pregato di portarvelo.»

— Bedar? — chiese Tremal-Naik.

— Sí. Bedar.

— Lo ringrazierete da parte nostra, — disse Yanez, — e gli direte che non lo metteremo da parte, anzi.

Il subadhar fece fare alla sua scorta un dietro fronte, e uscí un po’ rattristato che uomini cosí intrepidi si assassinassero senza nemmeno giudicarli, e senza prima udire le loro discolpe.

— Un pasticcio mandatoci da Bedar! — esclamò Yanez, quando la porta fu rinchiusa. — Che contenga qualche cosa che possa esserci utile?

Sandokan aprí con precauzione la cesta che i due indiani avevano portata e che era assai alta, anzi piú alta che lunga, e levò un pasticcio superbo in forma di torre, con una splendida crosta d’un bel giallo dorato, ed un contorno di ananassi canditi che rappresentavano la merlatura.

— Per Giove! — esclamò Yanez, aspirando il profumo che esalava, con visibile soddisfazione. — Non credevo che gli indiani fossero cosí abili pasticcieri e che qui si trovasse un simile capolavoro.

— Deve essere stato comperato in città, — disse Tremal-Naik.

— Ben gentile quel Bedar.

— O piú furbo che gentile? — disse Sandokan, afferrando una piccola forchetta di stagno e preparandosi a levare la crosta superiore che formava come il terrazzo della torre.

«È cosí ampio che mi pare impossibile non debba nascondere qualche cosa nel suo interno.»

Levò delicatamente gli ananassi, poi sollevò la crosta. Tosto un grido di sorpresa e anche di gioia gli sfuggí.

— Ah! Me l’ero immaginato!

La torre era vuota internamente, ossia veramente vuota no, poiché si scorgevano in fondo degli oggetti che Sandokan si affrettò a trarre.

Vi era un grosso gomitolo di corda di seta, non piú grossa d’un semplice gherlino, ma certo d’una resistenza tale da sostenere facilmente un uomo, senza pericolo che si spezzasse, poi quattro piccole lime e finalmente tre coltelli.

Ultimo a uscire fu un pezzo di carta, su cui erano tracciate delle lettere.

— Leggi, — disse, passandolo a Tremal-Naik.

— È di Bedar, — rispose il bengalese. — Ah! Il brav’uomo!

— Che cosa dice? — chiesero ad una voce Yanez e Sandokan.

— Che a mezzanotte ci caliamo nella cinta dove ci aspetterà e che tiene pronto un elefante per favorire meglio la nostra fuga.

— Come può aver trovato un elefante? — esclamò Yanez.

— Lo avrà noleggiato a Delhi, — rispose Tremal-Naik. — La cosa è facile quando si ha qualche centinaio di rupie, una somma abbastanza modesta che anche un cipai può possedere.

— E che gli frutteranno bene se riuscirà a salvarci, — disse Sandokan. — Per fortuna il generale non ci ha fatto frugare.

— Ne hai molti dei diamanti ancora? — chiese Yanez. — Nel caso io ho la mia riserva.

— Lasciala in riposo la tua riserva, — rispose Sandokan.

«Quarantamila rupie me le possono pagare a occhi chiusi presentando la mia borsetta.

«Basta colle chiacchiere. Il sole è tramontato e la faccenda sarà lunga.»

— Le lime indiane valgono quelle inglesi, — disse Yanez. — Le sbarre cadranno prima di due ore, quantunque siano grosse.

S’accostarono ad una finestra e guardarono attentamente se vi era qualche sentinella nascosta fra le macerie.

— Nulla, — disse Sandokan. Non sospettano di noi.

— Facciamo sparire la cena e poi al lavoro, — disse Yanez. — Facciamo soprattutto onore al pasticcio di quel caro Bedar. A tavola amici e poi daremo dentro alle sbarre di ferro.