Le due tigri/Capitolo XXI - Il tradimento dei thugs
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Capitolo XXI
Il tradimento dei thugs
Spuntava il primo raggio di sole, quando l’imbarcazione approdava dinanzi alla torre.
Sandokan non si era ingannato: non era né una scialuppa, né un bastimento. Si trattava d’una pinassa, ossia d’una grossa barca, dai bordi alti, armata di due alberetti sostenenti due grandi vele quadre e fornita di ponte.
Questi velieri ordinariamente vengono usati in India nei viaggi su pei grossi fiumi della penisola indostana, tuttavia possono affrontare il mare al pari delle grab essendo forniti di chiglia e bene alberati.
Quello che era approdato presso la torre poteva stazzare una sessantina di tonnellate ed era montato da otto indiani, tutti giovani e robusti, vestiti di bianco come i cipayes, e comandati da un vecchio pilota dalla lunga barba bianca, che in quel momento teneva il timone.
Vedendo quei cinque uomini, fra cui due bianchi, il vecchio si era levato cortesemente il turbante, poi era sceso a terra, dicendo in buon inglese:
— Buon giorno, sahib! Avete bisogno di noi? Abbiamo udito un colpo di fucile e siamo accorsi credendo che qualcuno fosse in pericolo.
— Come ti trovi qui, vecchio? — chiese Tremal-Naik. — Questi non sono luoghi per trafficare, né per cercare carichi.
— Noi siamo pescatori, — rispose il pilota. — Il pesce abbonda in queste lagune e ogni settimana veniamo qui.
— Da dove venite?
— Da Diamond-Harbour.
— Vuoi guadagnare cento rupie? — chiese Sandokan.
L’indiano alzò gli occhi sulla Tigre della Malesia, guardando attentamente, con una certa curiosità, per parecchi istanti.
— Volete scherzare, sahib? — chiese poscia. — Cento rupie sono una bella somma e non si guadagnano da noi in una settimana di pesca.
— Noi non chiediamo altro che di mettere la tua pinassa a nostra disposizione per ventiquattro ore e le rupie passeranno nelle tue tasche.
— Voi siete generoso come un nababbo, sahib, — disse il vecchio.
— Accetti?
— Nessuno, nel mio caso, rifiuterebbe una simile offerta.
— Hai detto che tu vieni da Diamond-Harbour, — disse TremaiNaik.
— Sí, sahib.
— Sei entrato nelle lagune pel canale di Raimatla?
— No, per quello di Jamera.
— Allora tu non hai veduto una piccola nave incrociare su queste acque.
— Ma... mi parve ieri d’aver scorta una scialuppa lunga e sottile costeggiare la punta settentrionale di Raimatla, — rispose il vecchio.
— Era di certo la nostra baleniera che esplorava, — disse Sandokan. — Prima di questa sera noi avremo trovato il praho e avremo compiuta la nostra unione.
«Imbarchiamoci amici, e domani manderemo qui la nostra scialuppa a raccogliere la nostra scorta.»
Versò nelle mani del pilota metà del prezzo fissato, poi tutti salirono a bordo, cortesemente salutati dagli indiani che formavano l’equipaggio.
Sandokan e Tremal-Naik si sedettero a poppa sotto la tenda che i pescatori avevano innalzata per ripararli dal sole; Yanez, il francese ed il cornac invece passarono sotto coperta per prendere un po’ di riposo nella cabina messa a loro disposizione dal pilota.
La pinassa, che pareva fosse una buona veliera, si staccò dalla riva e prese il largo dirigendosi verso alcune isole che s’intravvedevano attraverso la nebbiola che s’alzava sulla laguna.
Una puzza orrenda saliva dalle acque dove finivano di sciogliersi un gran numero di cadaveri, trascinati colà dai canali delle Sunderbunds o spinti dal flusso.
Si vedevano teste semi-spolpate, dorsi lacerati, gambe e braccia, ballonzolare fra la scia prodotta dalla pinassa e urtarsi. Su molti di quei cadaveri si tenevano ritti, sulle loro lunghe zampe, marabú e bozzagri, i quali di quando in quando davano un colpo di becco, strappando lembi di carne già putrida e che inghiottivano avidamente.
— Ecco uno dei cimiteri galleggianti, — disse Tremal-Naik.
— Ben poco allegro, — rispose Sandokan.
— Il governo del Bengala farebbe meglio a far seppellire tutta questa gente con tre metri di terra sopra. Eviterebbe il cholera che visita quasi ogni anno la sua capitale.
— Gli indiani se desiderano andare in paradiso devono giungervi per mezzo del Gange.
— Forse che sbocca lassú? — chiese Sandokan, ridendo.
— Questo lo ignoro, — rispose Tremal-Naik, — tuttavia non mi pare. Io lo vedo finire nel golfo del Bengala e confondere le sue acque col mare.
— E ci andranno poi tutti nel vostro paradiso?
— Oh no! Le acque del Gange, per quanto reputate sacre, non purgheranno l’anima d’un uomo che ha ucciso per esempio una mucca.
— Pena grave presso di voi?
— Che condurrà diritto all’inferno, dove il colpevole sarà senza posa divorato dai serpenti, dalla fame e dalla sete, per passare dopo migliaia e migliaia d’anni nel corpo d’una giovenca.
— Un luogo spaventevole il vostro inferno, — disse Sandokan.
— I nostri libri sacri dicono che regna laggiú una notte eterna, e che non vi si odono che gemiti e grida spaventevoli; i dolori piú acuti che possono essere prodotti dal ferro e dal fuoco vi si provano senza posa.
«Vi sono supplizi per qualunque specie di peccato, per ogni senso e per ogni membro del corpo.
«Fuoco, ferro, serpenti, insetti velenosi, animali feroci, uccelli da preda, fiele, veleno, punture, tutto s’impiega per martirizzare i dannati.
«Alcuni, secondo i nostri Veda, sono condannati ad avere le narici attraversate da una fune mediante la quale sono trascinati senza posa su scuri affilatissime; altri a passare per la cruna d’un ago; questi stretti fra due rocce piatte, quelli hanno gli occhi divorati continuamente dagli avvoltoi; altri sono costretti a nuotare entro bacini di pece liquida.»
— E durano per sempre quelle spaventevoli pene?
— No, al termine di ogni suga, ossia epoca che comprende migliaia d’anni, i dannati torneranno sulla terra chi sotto le spoglie d’un animale, chi d’un insetto o d’un uccello, per poi tornare finalmente uomini purificati.
«Ecco le delizie del nostro naraca ossia inferno, dove regna Iama, il dio della morte e delle tenebre.»
— Avrete anche un paradiso, suppongo?
— Piú d’uno, — rispose Tremal-Naik. — Il snarga del dio Indra, soggiorno di tutte le anime virtuose; il veiconta o paradiso di Visnú; il kailassa che appartiene a Siva; il sattia loka di Brahma, riservato esclusivamente ai bramini che da noi sono ritenuti uomini d’una razza superiore e che...
Un colpo di fucile sparato a breve distanza, seguito dal ben noto fischio della palla che sibilò ai loro orecchi, li fece balzare rapidamente in piedi.
Uno degli otto marinari che si trovava a prora, aveva fatto fuoco contro di loro e stava ancora rannicchiato dietro una cassa, semi-avvolto in una nuvola di fumo, coll’arma ancora in mano.
La sorpresa di Sandokan e di Tremal-Naik era stata tale che rimasero entrambi immobili, credendo in buona fede che quel colpo di fucile fosse partito accidentalmente, non potendo credere lí per lí che si trattasse d’un tradimento.
Un grido del pilota li avvertí che un terribile pericolo li minacciava e che quella palla era stata destinata a loro.
Il furfante aveva abbandonato precipitosamente il timone dove in quel momento si trovava e si era slanciato attraverso la tolda, urlando:
— Addosso, ragazzi! Siamo in nove! Fuori i coltelli ed i lacci!
Sandokan aveva mandato un vero ruggito.
Si guardò intorno per afferrare la carabina, che aveva appoggiata alla murata: era scomparsa e cosí pure erano sparite anche quelle dei compagni.
Con una mossa fulminea levò la barra del timone e si scagliò verso prora, dove l’equipaggio si era stretto attorno all’uomo che aveva fatto fuoco, gridando con voce tuonante:
— Tradimento! Yanez! Lussac! In coperta!
Tremal-Naik l’aveva seguito, armato d’un’ascia che aveva trovata infissa su un barile, fra un gruppo di gomene.
Gli indiani della scialuppa avevano estratti i loro coltelli e sciolti i lacci che fino allora avevano tenuti nascosti sotto l’ampia casacca di tela.
— Addosso, ragazzi! — aveva ripetuto il pilota, che si era armato d’una di quelle corte scimitarre usate dai maharatti, chiamate tarwar. — Accoppate il padre della piccola vergine, il nemico di Suyodhana.
— Ah! cane d’un vecchio! — gridò Tremal-Naik. — M’hai riconosciuto! Morrai! — Gli otto marinai si erano avventati a loro volta collo slancio delle tigri. Erano, come abbiamo detto, robusti garzoni, scelti certamente con cura e tutt’altro che magri come lo sono ordinariamente i bengalesi.
Tre si gettarono addosso a Sandokan; gli altri, col pilota, si scagliarono su Tremal-Naik.
La Tigre della Malesia tentò con un’abile mossa di coprire l’amico che correva maggior pericolo, ma i Thugs, accortisi a tempo, gli chiusero il passo.
— Ripara a poppa, Tremal-Naik! — gridò il pirata. — Tieni testa per un solo momento. Yanez, Lussac, cornac a noi!
I tre marinai gli erano addosso. Con un balzo da pantera si sottrasse all’accerchiamento, alzò poi la pesante barra del timone e percosse furiosamente l’avversario piú vicino che tentava di squarciargli il ventre con un colpo di coltello.
Il thug, colpito sul cranio stramazzò a terra come un bue percosso dalla mazza del macellaio e la materia cerebrale schizzò fino sulla murata.
Nel medesimo tempo però un laccio piombava addosso al capo dei pirati, imprigionandogli la destra.
— Sei preso! — gli gridò lo strangolatore. — Gettalo a terra, Fikar!
— Ebbene, prendi! — gridò Sandokan.
Lasciò cadere la barra, si curvò e colpí l’avversario con un colpo di testa in mezzo al petto, scaraventandolo dall’altra parte della tolda mezzo accoppato, poi girando rapidamente su se stesso si precipitò addosso al terzo che stava per assalirlo alle spalle, afferrandolo strettamente fra le braccia per impedirgli di far uso del coltello.
L’indiano però era piú robusto di quanto Sandokan aveva creduto e senza dubbio coraggioso.
A sua volta afferrò il capo dei pirati tentando di porgli una mano attorno al collo. Un’onda che scosse bruscamente la pinassa, imprimendole un movimento di rollio, li fece cadere entrambi.
Intanto Tremal-Naik, assalito dagli altri cinque e dal pilota, si difendeva disperatamente, avventando furiosi colpi d’ascia ed indietreggiando verso poppa.
Aveva evitato due lacci ed era sfuggito ad un colpo di tarwar vibratogli dal vecchio pilota, ma non poteva resistere a lungo a quei sei nemici che tentavano di accerchiarlo e che lo assalivano da tutte le parti.
Già uno stava per sorprenderlo alle spalle, quando irruppero sul cassero Yanez, de Lussac ed il conduttore di elefanti.
Svegliati di soprassalto dalle grida di Sandokan, allarmati da quella parola “tradimento” si erano gettati precipitosamente giú dalle brande, cercando le loro carabine.
Come erano sparite quelle di Tremal-Naik e di Sandokan, anche le loro non si trovavano piú nel luogo ove le avevano deposte.
Qualche marinaio, approfittando del loro sonno, le aveva di certo portate via e forse gettate nella laguna onde togliere loro la possibilità di difendersi.
De Lussac ed il cornac avevano però i loro coltelli da caccia, armi solide e dalla lama lunga un buon piede, mentre Yanez teneva nella fascia una di quelle formidabili navaje che aperte somigliano a spade.
Il portoghese l’aprí con un colpo secco e si slanciò su per la scala, gridando:
— Avanti amici! Lassú si scannano.
I Thugs che tentavano di sopraffare Tremal-Naik, vedendo irrompere in coperta i due bianchi ed il cornac, si erano prontamente divisi scegliendo ognuno il suo avversario.
Il pilota ed un marinaio erano rimasti di fronte a Tremal-Naik che aveva finito per appoggiarsi contro la murata di babordo; due altri si erano gettati contro il francese, gli altri tre addosso a Yanez ed al cornac.
— Ah! Canaglie! — gridò il portoghese, balzando verso la tenda di poppa e strappandola d’un colpo solo, per avvolgersela attorno al braccio sinistro. — È cosí che si tradisce qui? A me i due, a te l’altro, cornac, e fora bene la pelle.
La lotta era incominciata piú furiosa che mai fra quei dodici uomini, mentre la pinassa, abbandonata a se stessa, rollava e beccheggiava sotto le onde che l’alta marea spingeva attraverso la laguna.
I Thugs avevano gettati i lacci, diventati ormai inutili in una lotta corpo a corpo, e lavoravano di coltello, balzando come felini; i due bianchi, Tremal-Naik, ed il cornac tenevano però bravamente testa e non si lasciavano sopraffare.
Sandokan invece, sempre avvinghiato al suo avversario, si rotolava pel ponte tentando di finirlo. Era già riuscito a cacciarselo sotto e ad afferrarlo pel collo e stringeva con tutte le sue forze, facendogli uscire mezzo palmo di lingua. L’indiano tuttavia resisteva con una tenacia prodigiosa ed avendo le braccia ed il collo unti d’olio di cocco riusciva di quando in quando a sfuggire.
Appena però cercava di alzarsi sulle ginocchia, il pirata che possedeva una forza prodigiosa tornava ad abbatterlo a colpi di pugno.
Ad un tratto, mentre l’aveva nuovamente riafferrato pel collo, sentí sotto di sé la barra del timone che una brusca scossa della pinassa aveva fatto rotolare fino a lui. D’un balzo fu in piedi, lasciando libero l’avversario. Raccogliere la barra, alzarla e farla cadere sulla testa dell’indiano che stava pure per levarsi, fu l’affare d’un solo momento.
Il thug non mandò nemmeno un grido. Era caduto fulminato.
— E due, gridò Sandokan. — Tenete duro amici! Vengo in vostro soccorso!
Stava per slanciarsi verso poppa, quando si sentí afferrare per di dietro.
L’indiano che aveva abbattuto con quel terribile colpo di testa, quantunque dovesse avere delle costole spezzate, si era rialzato per cercare di portare aiuto al compagno.
Disgraziatamente per lui, era giunto troppo tardi e da solo non era piú in grado di lottare colla terribile Tigre della Malesia.
— Come! — esclamò il pirata. — Ancora vivo? Andrai a tener compagnia ai pesci.
Lo sollevò fra le robuste braccia e lo gettò nella laguna, senza che il disgraziato, che vomitava già sangue, avesse potuto opporre la menoma resistenza.
In quel mentre un grido di dolore echeggiò a poppa, seguito da una bestemmia lanciata da Yanez.
Il cornac, che lottava a qualche passo dal portoghese, contro uno dei Thugs, era caduto col petto squarciato da una tremenda coltellata.
Un grido di trionfo aveva salutata la caduta del povero conduttore di elefanti:
— Avanti! Kalí ci protegge!
Quell’urlo però si era quasi subito tramutato in un grido di spavento e d’angoscia. Nel momento in cui il cornac stramazzava sulla tolda tenendosi le mani raggrinzate sull’orrenda ferita, dalla quale usciva un vero torrente di sangue, un altro cadeva quattro passi piú lontano, colla testa spaccata fino al mento da un formidabile colpo d’ascia.
Era il vecchio pilota.
Tremal-Naik, approfittando d’un passo falso dell’avversario, causato da un colpo di rollío, gli aveva assestato quel colpo terribile.
Il vecchio aprí le braccia, lasciandosi sfuggire il tarwar e dopo d’aver fatti due o tre passi barcollando, era piombato sulla tolda, mentre dalla spaccatura del cranio usciva sangue misto a cervella.
Il bengalese non era però ancora vincitore perché aveva l’altro alle reni, tuttavia poteva avere buon giuoco e ridurlo presto a mal partito: l’ascia aveva non poca supremazia sul coltello del malandrino.
Sandokan con un colpo d’occhio aveva abbracciata la situazione e aveva subito capito che quegli che correva maggior pericolo in quel momento era Yanez, che ne aveva tre di fronte.
Il tenente aveva anche lui da fare a sbrigarsela con altri due, che gli si stringevano addosso come due mastini rabbiosi, nondimeno non pareva che si trovasse a malpartito.
Il bravo giovane giocava mirabilmente di coltello ed ora con attacchi fulminei ed ora con ritirate improvvise, teneva ancora a distanza gli avversari.
— A Yanez prima, — si disse Sandokan. In tre slanci piombò alle spalle dei bricconi, gridando:
— Vi uccido!
Due si volsero e gli si avventarono contro urlando:
— È te che uccideremo!
Sandokan con un mulinello della pesante barra li separò, poi si scagliò sul piú vicino e d’un colpo lo atterrò, sfondandogli le costole.
L’altro, spaventato, stava per volgergli le spalle coll’intenzione di fuggire verso prora, quando la terribile mazza lo colpí fra le due spalle.
Cadde sulle ginocchia, nondimeno ebbe ancora la forza d’alzarsi, di varcare d’un salto la murata e di precipitarsi a capo fitto nella laguna.
Sandokan stava per attaccare quello che lottava con Yanez, quando lo vide accasciarsi improvvisamente su se stesso, poi distendersi sulla tolda.
La navaja del portoghese gli aveva spaccato il cuore.
I due Thugs che armeggiavano col signor de Lussac, vedendo che ormai la partita era perduta, fuggirono verso prora e a loro volta si gettarono in acqua scomparendo fra le foglie di loto e le canne palustri che crescevano su un bassofondo comunicante con un’isoletta.
A bordo non rimaneva che l’avversario di Tremal-Naik, il piú robusto e forse il piú coraggioso della banda e che lottava ferocemente, sottraendosi con un’agilità da quadrumane ai colpi d’ascia che gli vibrava l’avversario.
Sandokan aveva già nuovamente impugnata la barra per finire anche quel malandrino, quando Yanez gli disse precipitosamente:
— No, risparmialo: lo faremo parlare.
In un lampo gli furono alle spalle assieme al signor de Lussac e lo atterrarono, legandolo collo stesso laccio che aveva gettato poco prima sulla tolda.