Le due tigri/Capitolo XXIV - La pagoda dei thugs
Questo testo è completo. |
◄ | Capitolo XXIII - L'isola di Rajmangal | Capitolo XXV - Nel rifugio dei thugs | ► |
Capitolo XXIV
La pagoda dei thugs
Surama, la bella bajadera, era comparsa improvvisamente sull’orlo della macchia, tenendo in pugno un tarwar di cui si era servita per aprirsi il passo fra le piante che coprivano il suolo fangoso dell’isola.
Aveva nuovamente indossato lo splendido e pittoresco costume delle danzatrici religiose, colla leggiera corazza di legno dorato e le gonnelline di seta azzurra trapunte con argento e cosparse di perline di Ceylan.
Tutti le si erano precipitati incontro, perfino Darma sembrava lieta di rivedere la fanciulla, perché andò a strofinare la propria testa sulle gonne di seta della danzatrice.
— Mia bella ragazza, — disse Yanez, che pareva vivamente commosso. — Ti credevo perduta.
— Come vedete, sahib bianco, sono ancora viva, — rispose Surama sorridendo. — Ho avuto però anch’io il dubbio che m’avessero rapita per immolarmi alla loro divinità.
— Chi ti manda? — chiese Tremal-Naik.
— Sirdar, vi ho detto. Egli m’incarica di avvertirvi che questa sera, verso la mezzanotte, ha luogo l’offerta del sangue, dinanzi alla statua di Kalí.
— Chi lo verserà? — chiese angosciosamente il bengalese.
— La piccola «Vergine della pagoda».
— Miserabili! Hai veduto mia figlia?
— È invisibile per tutti fuorché pei sacerdoti e per Suyodhana.
— Ti ha detto altro, Sirdar?
— Che sarà l’ultimo sacrificio del sangue che si farà, perché i Thugs si preparano a disperdersi nuovamente onde raggiungere ed aiutare gli insorti di Delhi e di Lucknow.
— È scoppiata l’insurrezione? — chiese il signor de Lussac.
— È terribile, signore, — rispose Surama. — Ho udito a raccontare che i reggimenti dei cipayes fucilano i loro ufficiali; che a Cawnpore ed a Lucknow hanno trucidate tutte le famiglie inglesi e che anche la Rani del Bundelkund ha inalberato lo stendardo della rivolta.
«Tutto il settentrione dell’India è in fiamme.»
— E Suyodhana si prepara a raggiungere gl’insorti? — chiesero Sandokan e Tremal-Naik.
— Anche perché non si sente piú sicuro qui. Egli ormai sa che il padre della piccina minaccia Rajmangal.
— Chi glielo disse? — chiese Yanez.
— Le sue spie che vi hanno seguito attraverso la jungla.
— Sa che ormai noi siamo qui? — chiese Sandokan.
— I Thugs lo ignorano, avendo le loro spie perdute le vostre tracce, dopo che avete lasciato la torre di Barrekporre per imbarcarvi nella pinassa.
«Sirdar mi ha narrato ogni cosa.»
— Perché non è venuto lui qui? — chiese Tremal-Naik.
— Per non lasciare Suyodhana, temendo che improvvisamente prenda il largo.
— Rimarrai qui tu ora? — chiese Yanez.
— No, sahib bianco, — rispose. — Sirdar mi attende e credo che per vostro vantaggio sia meglio che io rimanga coi Thugs fino alla loro partenza.
— Se non li annegheremo tutti nelle loro caverne, — disse Sandokan. — Hai null’altro da aggiungere?
— Che Sirdar seguirà Suyodhana nel caso che il capo fuggisse. Addio sahib bianco, noi ci rivedremo presto, — disse la bella danzatrice stringendo la mano a Yanez.
— Ti do un consiglio, prima che tu torni laggiú, — disse Sandokan. — Quando noi assaliremo il covo dei Thugs non trovarti nei sotterranei.
«Al primo colpo di fucile rifugiati nella pagoda.»
— Sí, sahib.
— Le caverne non comunicano piú col tronco del banjan sacro? — chiese Tremal-Naik.
— No, quella galleria è stata chiusa. Sarete costretti ad assalire dalla galleria che mette nella pagoda.
«Buona sera, sahibs: vi auguro di sterminare quei miserabili e di riavere la piccola Darma.»
Sorrise a tutti, poi rientrò fra i bambú, allontanandosi velocemente.
— Sono le nove, — disse Sandokan, quando furono soli. — Facciamo i nostri preparativi.
— Condurremo tutti? — chiese de Lussac.
— Non saremo in troppi, — rispose Sandokan. — Che cosa ci consigli di fare tu, Tremal-Naik, che conosci la pagoda?
— Lasciare il grosso nascosto fra le macchie che circondano lo stagno, — rispose il bengalese. — Noi scenderemo nella pagoda e daremo il primo attacco.
«Messa al sicuro Darma, se vuoi, forzeremo i sotterranei e la faremo finita con Suyodhana.»
— Non tornerò a Mompracem senza portare con me la pelle della Tigre dell’India, — disse Sandokan. — Te l’ho già detto.
Tornarono lestamente all’accampamento e mandarono uomini sul canale occidentale a ritirare le sentinelle, volendo avere sottomano tutte le forze disponibili per dare un tremendo colpo ai banditi di Suyodhana.
Alle undici Sandokan, Yanez, de Lussac, Tremal-Naik e quattro malesi fra i piú audaci e piú robusti, lasciavano silenziosamente il campo, preceduti da Darma.
Erano tutti armati di carabine, di pistole e di parangs e forniti di corde onde aiutarsi nella scalata alla cupola della pagoda.
Il grosso, composto di trenta uomini fra malesi e dayachi, agli ordini di Sambigliong, doveva seguirli un quarto d’ora dopo.
Anche i marinai del praho erano armati di carabine, di kampilangs e di parangs e per di piú portavano alcune bombe da scagliarsi nei sotterranei o da far scoppiare dinanzi alle porte della pagoda sotterranea e parecchie lampade e torce.
Tremal-Naik e Kammamuri, che conoscevano l’isola a menadito, guidavano il primo drappello, avanzandosi con precauzione, temendo qualche sorpresa da parte dei feroci settari della sanguinaria dea. Non era improbabile che gli abitatori dei sotterranei, messi in sospetto od avvertiti da qualche spia dell’approdo di quegli stranieri, dei quali piú o meno conoscevano le intenzioni, avessero preparata qualche imboscata fra gli alti canneti che coprivano l’isola.
I loro timori però parevano ingiustificati, poiché Punthy, il fedele cane, non manifestava almeno pel momento alcuna inquietudine, né ringhiava.
La jungla sembrava deserta e solo qualche urlo d’uno sciacallo o di qualche bighana affamato rompeva il profondo silenzio che regnava fra quei mostruosi vegetali.
Mancava mezz’ora alla mezzanotte, quando il drappello guidato dal bengalese e dal maharatto, giunse sulle rive dello stagno.
Sull’opposta estremità, in mezzo ad una spianata che era per la maggior parte ingombra da un colossale banian, formato da un numero immenso di tronchi, s’ergeva la pagoda dei Thugs.
Era un edificio colossale, che terminava in una cupola enorme, colle pareti adorne di teste di elefanti e di divinità che si collegavano le une alle altre con una sequela di cornicioni che potevano rendere possibile una scalata.
Né sulle rive, né sulla spianata si vedeva alcun essere vivente. Anche le finestre della pagoda erano oscure, segno evidente che l’offerta del sangue non era ancora stata cominciata.
— Siamo giunti per tempo, — disse Tremal-Naik, che parve in preda ad una vivissima eccitazione.
— Mi sembra strano che i Thugs non abbiano collocate delle sentinelle intorno alla pagoda, sapendo che noi ci aggiriamo nelle lagune, — disse Sandokan, che per istinto diffidava.
— E questo silenzio non mi rassicura, — disse Yanez. — E tu Tremal-Naik?
— Dico che non sono tranquillo, — rispose il bengalese.
— E nemmeno la vostra tigre lo è, — disse in quell’istante il francese. — Guardatela.
Infatti Darma, che fino allora aveva preceduto il drappello senza manifestare alcuna inquietudine, si era fermata dinanzi ad una larga zona di bambú altissimi, che si prolungava in direzione della pagoda e che il suo padrone era costretto ad attraversare, essendo la riva opposta dello stagno paludosa e perciò impraticabile.
Aguzzava gli orecchi come se cercasse di raccogliere un lontano rumore, agitava nervosamente la coda, battendosi i fianchi e fiutava l’aria brontolando.
— Sí, — disse Tremal-Naik. — Darma ha fiutato qualche nemico. Deve esservi qualche thug nascosto lí dietro.
— Qualunque cosa accada non fate uso delle armi da fuoco, disse Sandokan. — Lascia che vada a sorprendere quell’uomo, Tremal-Naik.
— No, Sandokan, rispose il bengalese. — Quando vi è Darma con me non ho nulla da temere e sarà essa che piomberà sullo strangolatore. Un colpo d’artiglio ben applicato e tutto sarà finito.
— Possono essere in due.
— Voi mi seguirete a breve distanza.
S’accostò a Darma che continuava a dare segni d’inquietudine, le passò una mano sul robusto dorso e guardandola fissa le disse:
— Seguimi, Darma.
Poi, volgendosi verso Sandokan e gli altri:
— Gettatevi a terra e avanzatevi strisciando.
Si gettò il fucile a bandoliera, impugnò il parang e si cacciò silenziosamente fra i bambú, tenendosi curvo e allontanando adagio adagio le piante.
Darma lo aveva seguito, tenendosi a quattro o cinque passi di distanza.
Entro la macchia non si udiva alcun rumore, eppure Tremal-Naik sentiva per istinto che qualcuno vi si teneva nascosto.
Aveva percorso cinquanta passi, quando si trovò dinanzi ad un sentieruzzo che pareva si dirigesse verso la pagoda.
Si era alzato per osservare se non vi era nessuno, quando udí a breve distanza un fruscio di canne, poi si sentí cadere sulle spalle una corda e stringere alla gola.
Alzò il parang per tagliare il laccio, quando una scossa poderosa lo fece subito cadere.
— L’ho sorpreso, — disse una voce vicina.
Poi un uomo quasi nudo, che portava sul petto il tatuaggio dei Thugs balzò fra le canne e gli si precipitò addosso tenendo in mano un lungo pugnale.
Ad un tratto un’ombra si slanciò fuori dai bambú, con un salto immenso gli balzò alla gola, atterrandolo di colpo.
Si udí un grido soffocato, poi come uno stritolío di ossa.
Darma era piombata addosso allo strangolatore serrandogli le mascelle attorno alla testa, mentre le poderose unghie gli dilaniavano atrocemente il petto.
Sandokan che si trovava dieci passi piú indietro, a sua volta si era slanciato brandendo il parang.
Quando però giunse, Tremal-Naik era in piedi e si era già sbarazzato del laccio ed il thug aveva esalato l’ultimo respiro.
— T’aveva colto? — chiese.
— Sí: ma non ha avuto il tempo di strangolarmi né di pugnalarmi, — rispose Tremal-Naik, stropicciandosi il collo. — Aveva un pugno ben solido quel birbante e senza il salto fulmineo di Darma non so se sareste giunti in tempo.
Yanez, de Lussac ed i malesi giungevano.
— Non fate rumore, — disse Tremal-Naik. — Vi può essere qualche altro thug imboscato.
— Darma, lascia!
La tigre beveva avidamente il sangue che sgorgava dalle orribili ferite dello strangolatore.
— Lascialo, — ripeté Tremal-Naik, afferrandola pel collo. Darma ubbidí ringhiando.
— Per Giove! — esclamò Yanez. — Come ha conciato quel povero diavolo! Non si riconosce piú il suo viso.
— Taci, — gli disse Sandokan.
Si misero tutti in ascolto; nessun rumore pervenne ai loro orecchi fuorché il fruscio dei pennacchi delle canne, leggermente agitati dal venticello notturno.
— Avanti, — disse Tremal-Naik.
Si misero in marcia sempre nel piú profondo silenzio e cinque minuti dopo sbucavano dinanzi all’enorme pagoda.
Si fermarono alcuni istanti, guardando attentamente sotto le ombre proiettate dalle mostruose teste degli elefanti e dalle statue e dagli ampi cornicioni, poi, si fecero rapidamente sotto una enorme statua incastrata nelle pareti, rappresentante Supramanier, uno dei quattro figli di Siva, cui suo padre fece uscire uno dei suoi occhi per ammazzare il gigante Suraparama che desolava l’India.
Tremal-Naik, che era il piú agile di tutti, s’aggrappò alle gambe del colosso, raggiunse il petto, salí su un braccio finché poté mettersi a cavalcioni della testa. Legò una fune e la gettò ai compagni, dicendo:
— Presto: piú su la scalata sarà facile.
Sopra il gigante pendeva la tromba d’un elefante. Tremal-Naik vi si aggrappò, passò sopra la testa del pachiderma infissa in una colonna di dimensioni enormi e raggiunse facilmente il primo cornicione.
Sandokan ed i suoi compagni l’avevano seguito da vicino. Anche il francese, quantunque non potesse gareggiare per agilità con quegli uomini, non era rimasto indietro.
Sopra il cornicione vi erano altre statue che s’appoggiavano le une alle altre, alcune rappresentanti dei deverkeli ossia semidei venerati dagl’indiani, abitatori del sorgon che è il paradiso di coloro che non hanno sufficienti meriti per andare nel cailasson o paradiso di Siva; altri le diverse incarnazioni di Visnú, testuggini, serpenti, mostri, nilgò, leoni e mezzi uomini, cavalli alati ecc.
Passando successivamente dall’uno all’altro, gli otto audaci giunsero finalmente sulla cima della cupola, arrestandosi dinanzi ad un foro circolare che era attraversato da una grossa sbarra di ferro su cui s’appoggiava una enorme palla di metallo dorato.
— È per di qua che sei anni or sono discesi, per veder la madre della povera Darma fare l’offerta del sangue dinanzi a Kalí, — disse Tremal-Naik con voce profondamente commossa.
— E per farti pugnalare da Suyodhana, — disse Sandokan.
— Sí, — rispose il bengalese con accento cupo.
— Vedremo se sarà capace di pugnalarci tutti otto.
Si era alzato sulle ginocchia e guardava attentamente verso la jungla, dove la tigre, che non aveva potuto seguirli, in quel momento si dirigeva.
— Sono là i nostri uomini, — disse. — Ecco Punthy che corre incontro alla tigre.
«Al primo colpo di fucile accorreranno tutti e non risparmieranno nessuno.»
— Avranno il tempo di scalare la cupola? — chiese Yanez.
— Kammamuri sa dove si trova la porta della pagoda, — rispose Tremal-Naik. — Basterà un petardo per farla saltare.
— Spicciamoci dunque, — disse Sandokan.
Tremal-Naik aveva afferrata una grossa corda, lucente come la seta, che pareva formata di fibre vegetali, e che pendeva verticalmente da sotto l’asta di ferro.
La scosse leggermente e dalla nera apertura salí un leggero tintinnio metallico.
— È la lampada, — disse.
— Lasciami il posto, — disse Sandokan. — Voglio essere io il primo a scendere.
— La statua è sotto la lampada e la sua testa è abbastanza larga per posarvi i piedi senza tema di cadere.
— Va bene.
Sandokan si assicurò le pistole ed il parang alla fascia, si mise la carabina a bandoliera, poi s’aggrappò alla fune e si mise a scendere lentamente, senza scosse, onde non far oscillare e tintinnare la lampada.
L’interno della pagoda era oscuro, non essendovi alcuna torcia accesa e anche vi regnava un profondo silenzio.
Sandokan, completamente rassicurato, si lasciò scivolare piú rapidamente, finché sentí sotto di sé i bracci della lampada.
Abbandonò la fune aggrappandosi ad una traversa di metallo che aveva sentita sotto le mani e si lasciò penzolare.
I suoi piedi non tardarono ad incontrare un corpo duro e ruvido.
— Deve essere la testa della dea, — disse. — Non perdiamo l’equilibrio.
Quando si trovò bene appoggiato, lasciò la lampada e si lasciò scivolare lungo il corpo della dea che pareva fosse di dimensioni enormi, finché giunse a terra.
Guardò intorno senza poter nulla discernere, tanto era fitta l’oscurità; in alto dove scorgeva un lembo di cielo cosparso di stelle vide un’ombra calarsi attraverso il foro.
— Sarà Tremal-Naik, — mormorò.
Non si era ingannato: era il bengalese che si lasciava scivolare e che ben presto lo raggiunse dinanzi alla statua.
— Hai udito nessun rumore? — chiese l’indiano.
— Nessuno, — rispose Sandokan. — Si direbbe che i Thugs siano fuggiti.
Tremal-Naik si senti bagnare la fronte d’un sudore gelido.
— No, — disse. — È impossibile che siamo stati traditi.
— Eppure è quasi mezzanotte e credo che...
Un rombo assordante, che pareva provenisse di sotto terra, lo interruppe bruscamente.
— Che cos’è questo? — chiese.
— L’hauk, il grande tamburo delle cerimonie religiose, — rispose Tremal-Naik. — I Thugs non sono fuggiti e stanno raccogliendosi. Presto amici! Scendete!
Yanez era già sulla testa della divinità e gli altri udendo quel rimbombo si erano lasciati scivolare l’un dietro l’altro, col pericolo di spezzare la fune.
Risuonava un secondo colpo dell’hauk quando gli otto uomini si trovarono riuniti.
— Là vi deve essere una nicchia, — disse Tremal-Naik, spingendo i compagni. — Nascondiamoci là dentro.
Dei fragori strani si udivano echeggiare sotto terra. Erano grida lontane, rulli di tamburi, squilli di tromba, rintocchi di campane.
Pareva che la rivoluzione fosse scoppiata fra gli abitanti di quegli immensi sotterranei.
Tremal-Naik, Sandokan ed i loro compagni si erano appena rannicchiati nella nicchia, quando una porta s’aprí con fracasso e una banda di uomini, quasi interamente nudi e spalmati d’olio di cocco, irruppe nella pagoda con un urlío furioso.
Erano quaranta o cinquanta, muniti di torce, di lacci e di fazzoletti di seta colla palla di piombo, di pugnali e di tarwar.
Un vecchio, magro come un fakiro, con una lunga barba bianca, si era aperto violentemente il passo fra quella turba, gridando:
— Eccoli là i profanatori della pagoda! Distruggeteli.
Tremal-Naik e Sandokan avevano mandate due grida di stupore e anche di rabbia.
— Il manti!...