Le Laude (1915)/XXIV. Como la vita de l'omo è penosa
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XXIV
Como la vita de l’omo è penosa
O vita penosa, continua battaglia,
con quanta travaglia — la vita è menata!
Mentre sí stette en ventre a mia mate,
presi l’arrate — a deverme morire;
corno ce stette en quelle contrate
chiuse, serrate, — nol so reverire;
venni a l’uscire — con molto dolore
e molto tristore — en mia comitata.
Venni renchiuso en un saccarello
e quel fo el mantello — co venni adobato;
operto lo sacco, co stava chello
assai miserello — e tutto bruttato,
da me è comenzato — uno novo pianto;
esto ’l primo canto — en questa mia entrata.
Venne cordoglio a quella gente
che stava presente; — sì me pigliâro;
mia mate stava assai malamente
del parto del ventre — che fo molto amaro.
Sì me lavâro — e dierme panceglie,
coprireme quigli — con nova fasciata.
Oimè dolente, a que so venuto,
ché senza aiuto — non posso scampare!
A chi me serve sí do el mal tributo,
com’è convenuto — a tale operare;
sempre a bruttare — me e mie veste
e queste meneste — donai en alevata.
Se mamma arvenisse che racontasse
le pene che trasse — en mio nutrire!
la notte ha bisogno che si rizasse
e me lattasse — con frigo suffrire
staendo a servire; — ed io pur plangea;
anvito non avea — de mia lamentata.
Ella, pensando ch’io male avesse,
che non me moresse — tutta tremava;
era besogno che lume accendesse
e me scopresse, — e poi me mirava
e non trovava — nulla sembianza
de mia lamentanza — perché fosse stata.
O mamma mia, ecco le scorte
che en una notte — hai guadagnato!
portar nove mesi ventrata sí forte
con molte bistorte — e gran dolorato,
parto penato — e pena en nutrire;
el meritire — male n’èi pagata.
Poi venne el tempo mio pate è mosto,
a leger m’ha posto — ch’emprenda scrittura;
se non emprenda quel ch’era emposto,
davame ’l costo — de gran battetura;
con quanta paura — loco ce stetti,
sirian longhi detti — a farne contata.
Vedea li garzoni girse iocando,
ed io lamentando — che non podea fare;
se non gía a la scola, gíame frustando
e svincigliando — con mio lamentare:
stava a pensare — mio pate moresse.
ch’io piú non staesse — a questa brigata.
Tante le meschie ch’io entanno facea,
ca pigliaría — le molte entestate;
non ne gía a Lucca che cagno n’avea;
capigli daea — e tollea guanciate;
e spesse fiate — era strascinato
e calpistato — com’uva entinata.
Passato el tempo, empresi a giocare,
con gente usare — e far grande spese;
mio pate stava a dolorare
e non pagare — le mie male emprese;
le spese commesse — stregnéme a furare,
lo biado sprecare — en mala menata.
Poi che fui preso a far cortesía,
la malsanía — sí non è pegiore;
l’auro e l’argento che è en Suría
non empiería — la briga d’onore;
moriva a dolore — che non potea fare;
el vergognare — non gía en fallata.
Non ce bastava niente el podere
a recoprire — le brighe presente;
asti e paraggi, calzare e vestire,
mangiare e bere — e star fra la gente;
render presente — parente ed amice
fuor tal radice — che l’arca on voitata.
Se era constretto a far vendecanza
per soperchianza — ch’avesse patuta,
pagar lo bando non era en usanza
e la briganza — non c’era partuta:
la mente smarruta — crepava a dolore,
che ’l descionore — non era vengnata.
Se l’avea fatta, giamene armato,
empaurato — del doppio aravere;
e stavame en casa empregionato
e paventato — nel gire e venire;
chi el porria dire — quant’è la pena
che l’odio mena — per ria comenzata!
Volea moglie bella che fosse sana
e non fosse vana — per mio piacere;
con grande dota, gentile e piana,
de gente non strana — con lengua a garrire:
compíto desire — non è sotto ’l cielo
e l’om como scelo — che qui l’ha cercata.
Se non avea figli, era dolente,
ché ’l mio a mia gente — volea lassare;
avendo figli, non gli ho sí piacente
che la mia mente — ne sia en consolare;
or ecco lo stare — c’ha l’om en sto mondo,
d’omne ben mondo — per gente acecata.
Recolto el biado e vendegnato,
arò semenato — per tempo futuro;
mai non se compie questo mercato,
sí continuato — conti en questo muro;
lo tempo a Dio furo — ed hogli sotratto
e rotto gli è ’l patto — de sua comandata.
Battaglia continua del manecare,
pranzo, cenare — e mai non ha posa;
se non è aparechiato co a me pare,
scandalizare — sì fa la sua osa;
o vita penosa — ove m’hai menato
cusí tribulato — continua giornata!
Mai non se giogne la gola mia brutta;
sapor de condutta — si vol per usanza,
viva exquisita e nuove frutta,
e questa lutta — non ha mai finanza;
o tribulanza, — ov’è ’l tuo finare,
la ponga voitare — e l’anema en pecata!
La pena grande che è de le freve,
che non vengon leve, — ma molto penose,
e non se parton per leger de breve;
li medici greve — pagarse de cose,
siroppi de rose — ed altri vaseglie;
denar piú che griglie — ce vono a la fiata.
A quanti mali è l’om sottoposto,
non porría om tosto — per risme contare;
glie medici el sanno, che contano el costo,
che scrivon lo ’ncostro — e fonse pagare;
abreviare — sí n’opo esto fatto
che compiam ratto — la nostra dittata.
Ecco lo verno che viene piovuso,
diventa lotuso — e rio gir d’entorno;
venti, freddura e neve per uso
a l’omo è noioso — per far suo sogiorno;
non è nel monno — tempo che piaccia
e questa traccia — non è mai finita.
Ecco la state che vien con gran calde,
angustie grande — con vita penosa:
de giorno le mosche d’entorno spavalde,
mordendone valde,— che non ne don posa;
passa sta cosa — ed entra la notte:
le pulce son scorte — a dar lor beccata.
Stanco lo giorno gíame a letto,
pensava l’affetto — nel letto posare;
ecco i pensieri, lá ov’era retto,
aveanme constretto — a non dormentare;
or al pensare, — volvendome entorno,
tollendome el sonno, — per molte fiata.
Fatto lo giorno, ed io arcomenzava;
qual piú m’encalzava, — quella prendea;
non venía fatta como pensava,
adolorava — che nolla compia;
el dí se ne gía — ed ecco la notte
a darme le scorte — com’el’era usata.
Compita l’una, ed eccote l’altra;
e questa falta — non pote fugire;
molte embrigate enseme m’ensalta,
pegio che malta — è ’l mio sufferire;
o falso desire, ed o’ m’hai menato,
ché si tribulato — passo mia stata?
Cusí tribulato vengo a vecchieza,
perdo belleza — ed omne potere;
devento brutto, perdendo netteza,
grande splaceza — dá el mio vedere,
ed opo m’è gire — per forza a la morte
a prender le scorte — che dá en sua pagata.
O vita fallace do’ m’hai menato
e co m’hai pagato — che t’aio servito?
Haime condutto ch’io sia sotterrato
e manecato — dai vermi a menuto;
or ecco el tributo — che dái en tuo servire
e non pò fallire — a gente ch’è nata.
O omo, or te pensa che è altra vita,
la qual è enfinita — do’ n’opo andare;
e socce doi lochi lá ’v’è nostra gita:
l’una compita — de pien delettare,
l’altra en penare — piena de dolore,
o’ so gli peccatore — con l’anema dannata.
Se qui non lasse l’amor del peccato,
serai sotterrato — en quel foco ardente;
se qui tu lassi e senne mendato,
serai translato — con la santa gente;
ergo presente — facciam correttura,
ché en affrantura — non sia nostra andata.