Le Laude (1915)/XVI. Como l'appetito de laude fa operare molte cose senza frutto

XVI. Como l'appetito de laude fa operare molte cose senza frutto

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XVI. Como l'appetito de laude fa operare molte cose senza frutto
XV. Como l'anema retorna al corpo per andare al iudicio XVII. De frate Ranaldo, quale era morto

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XVI

Como l’appetito de laude
fa operare molte cose senza frutto

     — Que fai, anema predata? — Faccio mal ché so dannata.
Agio mal ché infinito — omne ben sí m’è fugito;
lo ciel sí m’ha sbandito — e lo ’nferno m’ha ’lbergata.
     — Dáime desperazione — de la mia condizione
pensando la perfezione — de la vita tua ch’è stata.
     — Io fui donna religiosa, — settant’anni fui renchiosa;
iurai a Cristo esser sposa — or so al diavolo maritata.
     — Qual è stata la cagione — de la tua dannazione,
ché speravan le persone — che fosse canonizata?
     — Non vedeano el magagnato — che nel core era occultato;
Dio, a cui non fo celato, — ha scoperta la falsata.
     Vergene me conservai, — el mio corpo macerai,
ad om mai non guardai, — ché non fosse poi tentata.
     Non parlai piú de trent’agne — como fon le mie compagne;
penetenze fece magne, — piú che non ne fui notata.
     Degiunar mio non esclude — pane ed acqua ed erbe crude,
cinquant’anni entier compiude — degiunar non fui alentata.
     Cuoi de scrofe toserate, — fun de pelo atortigliate,
cerchi e veste desperate — cinquant’anni cruciata.
     Sostenetti povertate, — freddi, caldi e nuditade;
non avi l’umilitate, — però da Dio fui reprovata.
     Non avi devozione — né mentale orazione;
tutta la mia entenzione — fo ad essere lodata.
     Quando udía chiamar la santa, — lo mio cor superbia enalta;
or so menata a la malta — con la gente desperata.
     S’io vergogna avesse avuta, — non siría cusí peruta,
la vergogna avería apruta — la mia mente magagnata.

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     Forse me siría corressa, — che non sería a questa opressa;
l’onoranza me tenne essa — ch’io non fosse medecata.
     Oimè, onor, co mal te vide — ca ’l tuo gioco me occide;
begl me costa el tuo ride, — de tal prezo m’hai pagata!
     Se vedessi mia figura — moreri’ de la paura;
non porría la tua natura — sostener la mia sguardata.
     L’anema ch’è viziosa — orribil è sopr’onne cosa;
tal dá puza estermenosa — en omne canto è macellata.
     O penar, non sai finire — né a fin giamai venire;
sí perseveri tuo ferire — como fosse comenzata.
     Non fatiga el feredore, — el ferito non ne more,
or te pensa el bello amore — che sta en questa vicinata.
     La pena è consumativa, — l’alma morta sempr’è viva
e la pena non deriva — de star sempre en me adizata.
     — Penso ch’io sirò dannato, — nullo bene agio operato
e molto male acumulato — en la mia vita passata.
     — Frate, non te desperare; — paradiso poi lucrare
se te guarde dal furare — l’onor suo che t’ha vetata.
     Teme, serve e non falsare — e combatte en adurare
sí e’ ’n bon perseverare, — proverai l’umiliata1.


Note


  1. Le tre stanzie sequente erano in alcuni libri inanti le tre ultime:

    O lamento mio lamento, — o lamento con tormento,
    o lamento co m’hai tento, — de tal machia m’hai sozata!
    O corrotto mio corrotto, — o corrotto pien de lotto,
    o corrotto o’ m’hai adotto, — che sia nel foco soterrata?
    Conscienzia mia mordace, — tuo flagello mai non tace;
    tolta m’hai dal cor la pace — e con Dio scandalizata.

    (Nota del Bonaccorsi).