Lascia, Pietro, la penna. Invan coltivi
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A SE MEDESIMO
trovandosi in Dalmazia nelle guerre del Turco con Venezia
— Lascia, Pietro, la penna. Invan coltivi
con vegghiati sudori
de l’Eliconio suol le sacre piante.
Vana fatica è di pensiero errante
bramar fronda d’alloro
e d’Aganippe dissetarsi ai rivi,
quando i traci Gradivi
movon armi sanguigne e cheggion tutta
veder Europa a’ piedi lor distrutta.
Son seguaci de l’ozio, e de la pace
tracciano l’orme i cigni
e sogliono sprezzar tromba guerriera;
dove il latonio dio canoro impera,
crudi affetti maligni
non sa destar ne’ petti infernal face;
testudine loquace
suole a gloria invitar, ma non a quella
gloria che fra le stragi a morte appella.
È de l’aonie suore immortal vanto
col plettro e con la cetra
l’altrui fama involare al cieco oblio;
e se talor del bellicoso dio
alzan l’imprese a l’etra,
reso soggetto a le lor lingue il pianto,
è perché deve il canto
d’ogni degna virtú ch’a lui si mostri
porger materia ad ingegnosi inchiostri.
Perch’espongano i petti a la diffesa
de’ combattuti regni,
non vende Apollo a prezzo i suoi seguaci.
Sol contro ’l tempo a guerreggiare audaci
sanno i canori ingegni
far a l’ingorda etá lodata offesa;
pur che d’applausi resa
a le fatiche sia degna mercede,
in Cirra maggior premio altri non chiede.
Parte alcuna non ha de’ studi suoi
commune il sacro coro
del bistonio signor co’ duri affanni;
sa tra le morti immortalar gli eroi
e piú verde l’alloro
rinova inaridito in grembo agli anni.
Sol Marte armato è ai danni
de l’altrui vita e a vincitrice tromba
accompagna sovente infausta tomba.
Ma cangiate l’etá cangian costumi,
Pietro, e deponer dèi
su tanti fogli la stancata penna:
poco di gloria a tue vigilie accenna
tenor di fati rei,
che privi i carmi ha d’apollinei lumi.
Versar molti volumi
che val, s’alma non v’è che i versi lega?
Fuor che di Lete, ogn’acqua a te si nega.
Lascia dunque la penna, e si procuri
eternar il tuo nome:
s’agl’inchiostri è vietato, il faccia il sangue.
Forza a la destra tua so che non langue
per circondar la chioma
de’ fregi ch’a virtú non siano oscuri.
Fia che morte congiuri
contro le tue fatiche invano, quando
vorrai di penna in vece oprare il brando.
Qual ardimento in nobil cor non desta
de la patria l’affetto,
ch’ad oprar meraviglie eletto parmi?
D’innumerabil aste espone a l’armi
il generoso petto,
e sol tra mille Orazio ultimo resta;
da marzïal tempesta
salve del Tebro le fugate squadre,
piú che figlio di Roma, a Roma è padre.
Ma che giova il narrar del Lazio antico
l’ardimento piú chiaro,
quando raggio piú bel Venezia spande?
Vantano i tuoi maggiori eroe piú grande,
di cui giungere al paro
alcun non può d’eccelsi fatti amico.
Di Domenico io dico,
de’ Michieli rampollo, augusta prole,
d’Adria e d’Europa tutta unico sole.
Imperator de le falangi armate,
fulmine de la guerra,
sempre invitto domò barbare genti.
Del saracino stuol l’armi possenti
vince in mar, vince in terra,
quasi sian le vittorie a lui sol nate.
Prodezze non usate!
Allor ch’altri ha timor de la sua fuga,
acquista Tiro e i suoi nemici ei fuga.
De la cittá le mura, ove sepolto
di Dio sen giacque il figlio,
restar per lui da’ rei tiranni illese.
Serva la sorte al suo valore ei rese;
il suo manto a vermiglio
tinse a' petti nemici il sangue tolto;
piú che tra gli astri involto
sostenendo diadema e scettro regio,
la sua propria virtute a lui fu fregio. —
Col lusinghiero suon di queste note
di me stesso io solea
bellicoso pensier destar nel seno,
quando, d’ingiusti sdegni il cor ripieno,
tracia Bellona rea
i campi funestar d’Illiria puote;
ma sepolte ed ignote
l’imprese son che la modestia copre,
e nega il premio invidia a le degn’opre.