Ladin! 2006/1
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Vito Pallabazzer
Compenetrazione tra veneziano e ladino
Per quanto i due Comuni di Livinallongo e di Colle S. Lucia appartenessero
ininterrottamente al Tirolo fino al 1918, subirono nella parlata e nelle costumanze
l'influsso di Venezia, che trasmise alle nostre rustiche comunità modelli di vita tipici
di una grande civiltà cittadina e marinara.
Venezia, in altri secoli, era poi il principale punto di riferimento dei nostri emigrati, che si impiegavano preferibilmente come cuochi, panettieri e pasticceri, ma non è escluso che qualcuno trovasse lavoro anche nell'arsenale oppure in botteghe, negozi e varie attività commerciali.
Perciò il confine politico tra la Serenissima e il Principato Vescovile di Bressanone non era rigido, perché attraverso di esso filtravano persone, merci e pa- role, valute e fogge del vestiario che ingentilivano i costumi e trasmettevano una pa- tina cittadinesca alle popolazioni rurali dei due estremi Comuni dell'Agordino.
Una parola emblematica tra quelle risalite dal meridione è cortejàn, cortigiano, nel significato di «urbano, ben costumato, gentile, affabile», che richiama il «Cortegiano» di Baldassar Castiglione, in cui si delinea la figura del perfetto uomo di corte che nello stesso tempo rappresenta anche l'ideale di uomo concepibile dalla civiltà rinascimentale sotto il profilo comportamentale, civile, etico, culturale ed este- tico; un modello di uomo a cui non furono del tutto insensibili le genti ai margini del Tirolo, a contatto con la Repubblica Veneta. E' una prova anche che il confine era per- meabile e che le chiusure, se mai ci furono, vennero dopo, alimentate dai nazionalismi dell'Ottocento.
Nella sfera familiare sono riconducibili all'influsso di Venezia misiér e madò- na, suocero e suocera, propriamente «signore» e «signora», cosicché non si rinvengono più tracce dei continuatori di socer, socera, come nel badiotto sojora e nel gardenese sejura, suocera. Peraltro i venetismi, come si vede anche dai due casi ora segnalati, non scavalcano i passi di Campolongo e di Gardena, per penetrare nel ladino delle due valli più conservative.
Rientrano nell'ambito familiare anche sàntol e sàntola, padrino e madrina, voci estese a gran parte della montagna veneta, per quanto la deferenza e la venerazione per le figure dei padrini siano state elaborate soprattutto nella diocesi di Bressanone, dove si riscontrano tuttora sicuri aspetti di tale atteggiamento.
Infatti, i parroci in altri tempi, nelle loro lezioni di catechismo, non mancavano di sottolineare che i sàntoi, come dice il loro nome, sono garanzia di santità e quindi si affiancano ai genitori nella tutela e nell'educazione dei figliocci.
Un centro rilevante per la trasmissione di parole e di cultura veneta era Caprile, con particolare riguardo all'aspetto commerciale, perché in questo borgo aveva luogo la fiera di San Martino, erede delle grandi fiere del Medioevo, che durava tre giorni ed era frequentata da mercanti veneti e tirolesi, oltre che dalle popolazioni dei paesi limitrofi.
E' attraverso questa grande fiera che probabilmente giunsero ai nostri paesi i cazuói (singolare cazuól), i cucchiai metallici, al posto dei sedógn, cioè i cucchiai di legno; le scudèle di terracotta al posto dei ciadign, i catini di legno; i pirógn, o forchette, innovazione veneziana, perché prima del Rinascimento non esistevano.
Comparvero i primi esemplari di pìrie o imbuti, gli elementi dell'arredamen- to della stua, come la cuba, volta della stufa, la cantinèla e il camarón, strutture lignee che cingono la stufa. Il settore della cucina ha importato dal Veneto i cazunciéi/ casunziéi, ravioli; ìefortàie, tipo di frittata; la panàda o panata, minestra di pane per gli ammalati; i refiói, specie di gnocchi.
Anche i padrini, il giorno della Cresima, regalavano ai figliocci una fugaza, focaccia o schiacciata dolce acquistata sul piccolo mercato che in quella occasione veniva allestito sulla piazza del paese. A Capodanno diventò usuale la banbóna (dal francese bonbon, confetto, chicca), un regalo dei padrini ai figliocci, mentre in altre circostanze, come nel commercio del bestiame, entrò nell'uso la bonamàn, una man- cia o riconoscimento pecuniario.
Un indumento molto apprezzato, costoso e che non tutti si potevano permet- tere, era lo zipón, un giubbone particolarmente richiesto dalla gente di montagna per via delle temperature rigide; sempre dal Veneto pervennero la gabana, casacca, tonaca dei preti; la falda, tipo di grembiule usato dagli uomini, la fanèla o flanella, la zavata o ciabatta, il crojato, panciotto o gilè.
Nel campo della cultura materiale, si registrano anche parole come carniér, sacchetto di tela; langhiér, pertica con uncino; braghesse, pantaloni; brìtola, temperino; latóri, ottone; cógoma, vaso di rame stagnato;/iisséia, cartuccia; cubàtol, gabbia per catturare uccelli da canto; buganza, gelone; sanguéta, sanguisuga; zejendèl, lampadario di chiesa; paviér, lucignolo.
Al veneziano vanno ascritte anche gran parte delle parole che designano i mestieri, come marangón, falegname, con le relative attrezzature. Un ritrovato molto importante della civiltà veneziana era anche il feràl, una lampada a olio, agevolmente trasportabile, che rischiarò le notti dei montanari, i quali bruciavano legno resinoso di pino per risparmiare l'olio, importato e costoso.
Da Venezia, e in particolare dalla Commedia dell'Arte, fu introdotta l'usanza delle mascherate carnevalesche con i nomi tipici delle maschere, che per secoli allietarono il pubblico dei piccoli centri, come quello dei nostri paesi.
L'elenco delle parole giunte da Venezia sarebbe senz'altro lungo, e non sempre è possibile distinguere con sicurezza le parole autenticamente ladine da quelle importate, a causa di coincidenze fonetiche o di adattamenti, poiché si tratta sempre di parlate affini. La civiltà veneziana era per i nostri antenati un modello insuperabile, che non poteva mettersi a confronto con la cultura delle campagne tirolesi, ancorata ad usanze e mentalità medievali.
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