Ladin! 2005/5
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NICOLA GASBARRO
IDENTITÀ “CULTURALE” - IMMAGINAZIONE “CIVILE”
In un interessante libro-intervista11 Zygmunt Bauman sottolinea il proprio disagio nel riconoscersi in un’identità: nato in Polonia e costretto ad emigrare in Gran Bretagna, è nello stesso tempo polacco e cittadino britannico, ma da tutti considerato un immigrato, un profugo, uno straniero. L’immaginazione antropologica risolve il problema personale: Bauman si sente “europeo” perché è nato, vive e lavora in Europa e soprattutto perché pensa in termini “europei”. E’ evidente che il disagio del grande sociologo rinvia ad un’esperienza comune della nostra vita quotidiana: la globalizzazione dei rapporti tra civiltà ha reso l’identità un grande problema personale e sociale, costringendo tutti a vivere ai confini del nostro essere “moderni” e nello stesso tempo a tentare di ri-costruire un modello di vita e di azione, capace di dare valore al nostro essere nella contingenza della storia e di indicare una prospettiva di senso alle strategie socio-culturali di trascendimento del presente. L’incertezza del futuro è forse alla base dei molteplici movimenti “identitari” -etnici, linguistici, religiosi, comunitari, ecc.- che, a livello locale, tentano di opporsi ai processi globali, vissuti come omologanti e alienanti: la “glocal identity” è stata ritenuta spesso una buona soluzione, ma è diventata più uno slogan sociologico che un modello operativo, capace cioè di istituzionalizzare le giuste istanze delle differenze e nello stesso tempo di salvaguardare il patrimonio democratico dell’uguaglianza.
E’ certamente vero che le nuove relazioni tra civiltà hanno rimesso in discussione i valori “forti” ed universalistici dell’Occidente, ma è anche vero che le sfide del presente richiedono un’immaginazione etica e civile liberata dai loro condizionamenti: se tutti viviamo, come sostiene Bauman, nella “modernità liquida”, è antropologicamente ingenuo immaginare soluzioni “solide”, spesso legate ad un passato rivissuto e/o immaginato come futuro possibile. La nostalgia delle origini fa parte della vita, ma farne l’orizzonte paradigmatico del senso trasforma la storia culturale in ripetizione senza fine e l’identità culturale in predestinazione senza via d’uscita. Si può essere “glocal” post-moderni e nostalgici di appartenenze “solide” e/o di “valori che contano”, o “surmoderni”22
e neouniversalisti dell’etica e del diritto, ma occorre prima di tutto
ammettere che una società non può vivere senza l’immaginazione civile del futuro o senza la “fiducia” sociale nella trasformazione del presente. Siamo tutti coinvolti in un processo storico che non ha precedenti e forse per la prima volta non siamo costretti a rassegnarci alle predeterminazioni dell’ideologia o ad abbandonarci alle illusioni dell’utopia: nuovi soggetti di una storia pluriculturale, in essa e con essa dobbiamo fare i conti e ridefinire criticamente il senso del nostro essere nel mondo, nello stesso tempo qui ed altrove, ora e poi, vicino e lontano. Le vecchie appartenenze culturali si sono dissolte ed è necessario immaginare un’identità collettiva in trasformazione, certamente esistenzialmente meno sicura, ma storicamente più creativa e antropologicamente più aperta. E’ nello stesso tempo un’urgenza storica e una sfida etica, da tempo previste da Lévi-Strauss. Nel 1977 l’antropologo francese evidenziava il disagio in termini scientifici: “A voler credere ad alcuni, la crisi di identità sarebbe il nuovo mal du siècle. Quando certe abitudini secolari crollano, quando certi tipi di vita scompaiono, quando certe vecchie solidarietà rovinano, certamente capita con frequenza che si produca una crisi di identità. Sfortunatamente, le persone che inventano i mass media per convincere del fenomeno e sottolinearne l’aspetto drammatico hanno piuttosto il cervello vuoto in maniera congenita. La loro identità sofferente si rivela un alibi comodo per mascherare a noi, e mascherare ai loro
creatori, una nullità pura e semplice. La verità è che, ridotta ai suoi aspetti soggettivi, una crisi di identità non offre intrinseco interesse. Molto meglio sarebbe guardare in faccia le condizioni oggettive di cui è il sintomo e che riflette”33 . Di qui il rimedio antropologico: “Se si suppone che anche l’identità abbia le sue relazioni di incertezza, la fede che noi ancora abbiamo in essa potrebbe non essere altro che il riflesso di uno stato di civiltà, la cui durata sarà stata limata a qualche secolo. Allora, però, la famosa crisi dell’identità, di cui ci si parla ripetutamente, acquisterebbe un significato del tutto diverso. Essa apparirebbe come un indizio commovente e puerile del fatto che le nostre piccole persone si avvicinano al punto in cui ciascuna deve rinunciare a considerarsi come essenziale, per vedersi ridotta a funzione instabile e non a realtà sostanziale, luogo e momento, egualmente effimeri, di concorsi, scambi e conflitti cui partecipano, da sole e in una misura ogni volta infinitesimale, le forze della natura e della storia, supremamente indifferenti al nostro autismo”4 . Proprio per evitare una psicologia a buon mercato, Bauman va oltre il disagio personale e delinea un’analisi sociologica dell’identità a partire da una distinzione elementare: da un lato la “comunità di vita e di destino”, in cui si vive insieme in modo quasi indissolubile grazie ad una condivisione quasi spontanea di valori e modelli di comportamento; dall’altro la “comunità di idee e di principi” per loro natura variabili, quindi necessariamente negoziabili ed in qualche modo stabiliti dalla struttura di un necessario quanto arbitrario contratto sociale. E’ evidente che la crisi interviene quando la prima comunità è negata e la seconda è sottoposta ad un processo storico e sociale di trasformazione radicale: si può immaginare di tornare alla prima, negare la il cambiamento della seconda, cercare di conciliarne i valori in versioni più o meno sofisticate di meticciato culturale, ma il problema sociale rimane e richiede un approfondimento antropologico, sia per rendere dinamica e creativa la nozione storica di identità sia per ripensare comparativamente le appartenenze “glocali” in cui viviamo. La distinzione non è un’invenzione di Bauman, ma è un patrimonio delle scienze sociali da più di un secolo: la “comunità di vita e di destino” è, di fatto, la cultura di nascita, che segna il nostro primo immaginario della vita e della morte, trasmettendoci i primi valori che riteniamo non a caso essenziali. La trasmissione è pratica ed esistenziale: li apprendiamo mettendoli in pratica e li costruiamo come “nostri” insieme con altri uomini che vivono le stesse contingenze storiche e le stesse difficoltà culturali; ci appaiono perciò “normali” e quasi “naturali”, nello stesso tempo omologanti e frutto di scelta libera e consapevole. Questi valori fanno parte di noi, perché ci fanno agire come la lingua ci fa parlare, l’etnia di appartenenza ci fa riconoscere socialmente, la religione ci fa credere e la morale ci dona e ci struttura la coscienza. Possiamo chiamarla “comunità di vita e di destino” perché in essa apprendiamo prima praticamente a vivere e a morire, e poi ad elaborare teoricamente un quadro di valori di riferimento che rende compatibile la continuità necessaria della vita sociale e l’inevitabile rottura radicale della morte individuale. Non a caso ricorriamo inevitabilmente a questa struttura quando abbiamo bisogno di riflettere su ciò che ci ostiniamo a ritenere il senso della vita: in senso forte e “solido” è anche un “destino” dal momento che sembra non avere alternative di fronte ai grandi determinismi della natura. Da un punto di vista antropologico è una sorta di “cultura di base” che si pone e si impone come un universo di significati essenziali e senza alternative: non a caso organizza sia i rapporti con gli altri uomini percepiti come simili sia le relazioni con il mondo della natura da governare seguendo i bisogni individuali che, al suo interno, diventano necessità collettive. Si tratta di un habitus pragmatico ed esistenziale, e perciò quasi “voluto” culturalmente perché “dato” naturalmente: è allergico alla diversità di altri modelli di vita, perché “forma sostanziale” di uno “spirito” che trascende la
4 C. Lévi-Strauss, op. cit., p. 13. 2 volontà individuale e precede la discussione pubblica. Non a caso questa comunità entra in crisi, fino a dissolvere l’identità che su essa si fonda, quando altre “forme di vita” acquistano consistenza socio-culturale con la stessa forza di autenticità e con la stessa purezza di legittimazione: è certamente possibile riformulare le priorità di valore, ma a patto di pensarle comparativamente e quindi di aprirsi ad un confronto di “idee e di principi” per trovare un minimo di accordo, dando vita al secondo tipo di comunità di Bauman. Se invece si resta sulle posizioni di partenza, o ci si chiude al mondo o si precipita nel relativismo dei valori che rende insopportabili i principi e le idee generali, evanescente il senso della vita e della morte, e soprattutto impossibile l’organizzazione delle diversità nella vita sociale. Più che una comunità in senso stretto, questo confronto necessario, che presuppone una vasta inclusione sociale e un’elaborazione più articolata del senso, rinvia al concetto di “società”5 , proprio perché non presuppone qualcosa in comune fondato sulla catena naturale dell’essere, ma è invece il risultato storico di relazioni inevitabili tra diversità di appartenenze e di interessi. Tutto avviene come se ogni “comunità di vita e di destino” fosse in qualche modo costretta ad avere relazioni con altre, ad essere “socia” di “forme di vita” totalmente diverse, ad aprirsi ad una collaborazione costruttiva, a partire da uno statuto di uguaglianza che legittima tutte a livello di diritto e rimette in moto di fatto un nuovo sistema condiviso e condivisibile di “idee e principi”. Non si tratta ovviamente solo di “idee e principi”, da ri-definire con una sorta di dialogo su ciò che accomuna le diverse esperienze, ma soprattutto di rituali di condotta e di regole generali di costume da inventare nella contingenza della storia ed a partire dall’arbitrarietà delle esperienze di vita. Anche il comune punto di partenza e di aggregazione è frutto di un processo di decisione privo sia di fondamento naturale sia di intuizioni e/o conoscenze simboliche autoritative e predeterminanti. L’unica costrizione è insieme storicosociale e simbolico-culturale: c’è un’identità che non corrisponde più simbolicamente al “mondo della vita” e perciò non è in grado di governare istituzionalmente il sistema empirico delle relazioni sociali, perciò occorre cambiarne sia la struttura sia le forme, se non si vuole perdere tutto il resto. Le domande storiche ed antropologiche diventano inevitabili: come l’Occidente ha costruito questi modelli? Come si è rapportato alla diversità antropologica? Come ha coniugato le differenze strutturali delle identità culturali di “comunità di vita e di destino” con le istanze di uguaglianza civile implicite nella democrazia moderna? Il concetto antropologico di cultura può aiutarci a delineare una linea di tendenza che esplode nella e con la globalizzazione? I due concetti di identità brevemente delineati sono comprensibili solo all’interno di due prospettive storiche che attraversano la lunga durata della modernità: da un lato quella che si formalizza nella visione romantico-idealista o storico-formale del nazionalismo etnico-culturale tipico della Mitteleuropa, dall’altro quella che si esprime nella scienza positivo-sociologica o razionale-illuministica del progresso civilizzatore di Stati che tentano di costruire una prospettiva di futuro nella e con la rivoluzione industriale. Entrambi trovano nel popolo il referente sostanziale, ma lo pensano simbolicamente e lo identificano nella pratica sociale in modo diverso: il primo principalmente come “nazione”, cioè come collettività “naturale” e “data” di identici per sangue, lingua, territorio di origine, tradizioni culturali più o meno ancestrali, “spirito culturale”; il secondo strutturalmente come “stato”, cioè come società “storica” e “voluta” di uomini diversi che trovano nella comune cittadinanza civile il legame contrattuale capace di rendere possibile la compatibilità delle differenze naturali e sociali in un progetto ugualitario e collettivo. I due sensi e le due prospettive si sono spesso fusi insieme, a volte persino confusi, 5 La distinzione tra “comunità” e “società” risale a F. Tönnies, Gemeinschaft und Gesellschaft del 1887: si veda la traduzione italiana Comunità e società, Edizioni di Comunità, Milano 1979. 3 nella storia degli ultimi due secoli, ma restano sostanzialmente diversi: nessun politologo può oggi confondere la nazione-stato che ha ispirato i nazionalismi etnico-territoriali o linguisticoculturali6 , spesso tragici per i popoli d’Europa, con lo Stato-nazione che ancora oggi è alla base della concezione civile della società e del contratto democratico. La differenza politologica sottende quella storico-culturale e socio-istituzionale. L’identità di popolo in senso etnico rinvia ad una “comunità” di identici sia da un punto di vista naturale (nati da e nello stesso territorio, accomunati da una stirpe originaria ed originale, a volte da uno stesso sangue “immaginario”), sia da un punto di vista culturale (identica tradizione, stessa lingua come espressione dello stesso spirito comunitario, uguale prospettiva di futuro predeterminata dallo “spirito del popolo”). Anzi la cultura spirituale non è altro che la traduzione storica dell’appartenenza naturale: ad ogni etnia la sua cultura, ad ogni cultura la sua autonomia, ad ogni autonomia la sua legittimazione prima simbolica, ideale e morale, e solo in seconda istanza pratica, sociale e giuridica. Persino il concetto antropologico di cultura risente di questa determinazione naturalistica: essa non è altro che lo spirito della natura e conseguentemente lo “spirito” di un popolo in senso etnico, al punto che è difficile distinguere l’identità etnica da quella culturale, dal momento che si nasce, si vive e si muore all’interno dello stesso tessuto sociale che è insieme struttura simbolica di valori e prospettiva di futuro, in definitiva una sorta di seconda natura alimentata dalla forza dello spirito. Ne consegue che il sistema della res publica è una conseguenza normativa di un “dato” ideale dello spirito comunitario, inscritto nella tradizione dello strutturalmente identico che si esprime nella storia quotidiana. La forza interna dello spirito e la grande comunione di intenti rendono superflue ogni forma di contratto sociale ed ogni costruzione alternativa alla propria “visione del mondo”: tutta la storia è una forma dello “spirito” nel tempo, un “reale” che incarna l’“ideale” nel passato come nel presente, e più ancora nel futuro. L’identità di base coincide così con la “tradizione” forte dell’etnia, del popolo in senso etnico-culturale, con il presente vissuto come autorealizzantesi, con il futuro prevedibile di continuità temporale e di contiguità simbolica dei valori: una presenza dell’essere in definitiva fondata sulla tradizione condivisa come forma sostanziale dell’esistenza e sul futuro già vivibile sia come destinazione voluta, ma non scelta, sia come destino tanto teleologico quanto naturalisticamente predeterminato. Ma se tutto è predeterminato, o si vive all’interno o si è radicalmente fuori: senza origine, senza fini, senza la dignità che solo la condivisione spontanea dei valori può dare, in definitiva naturalmente “selvaggi” e culturalmente “radicalmente altri”, senza possibilità di riscatto e/o di conversione. Inevitabile la conseguenza politica: la cittadinanza è già segnata dall’appartenenza e dalla condivisione spontanea, l’esercizio dialettico del potere deve distinguere necessariamente l’identico dall’altro o, per dirla con un politologo mitteleuropeo esaltato dai leghisti fanatici, l’amico dal nemico. Ancora una volta la politica è implicita nella struttura dei valori: prima di tutto l’uguaglianza è solo un “dato” interno, e mai una costruzione storico-sociale; una forma sostanziale della “nazione” e del suo “spirito”, e mai una conquista civile o un progetto storico; in definitiva un’incarnazione collettiva dello spirito etnico-comunitario. In secondo luogo la differenza è il nucleo essenziale dell’esistenza umana, perché segnata irreversibilmente dai grandi determinismi della natura: sono, infatti, diversi i sessi, le razze, le appartenenze etniche, gli orientamenti al valore; quindi devono essere diversi i rapporti sociali esterni alla comunità, le nazioni, le culture, i valori, i modelli di comportamento, le politiche e i progetti di emancipazione e di sviluppo. Ad ogni differenza la sua autonomia e ciò che vale per gli individui vale per le comunità intese come individualità collettive (date dalla natura come gli individui: non a caso 6 Per una chiara analisi antropologica di questi problemi, si veda E. Gellner, Nazioni e nazionalismo, Editori Riuniti, Roma 1985. 4 mettono insieme individui naturalmente simili): ognuno per sé e Dio per tutti, esposti come siamo alla naturalità del mercato dei valori e delle relazioni sociali. La struttura antropologica di questa identità di popolo è evidente: il segno prioritario è la differenza tra gli uomini, ed è questa a coniugare le possibilità di uguaglianze tra identici, escludendo ogni possibilità di uguaglianza strutturale e generale. A livello di sistema è evidente che il concetto di comunità è moltiplicabile, ma non generalizzabile, e l’autonomia istituzionale è l’effetto della moltiplicazione naturalistica: ad ogni popolo (in senso etnico-culturale) la sua vita ed il suo destino, che il processo attuale di globalizzazione trasforma in una sorta di capitalismo selvaggio dei valori e delle relazioni politiche. Il dramma del nostro tempo è che questo modello di identità è in dispersione: esso non è né giusto né sbagliato, è solo storicamente superato, socialmente inutile e quindi antropologicamente improponibile. La globalizzazione in atto evidenzia, con una velocità imprevista ed imprevedibile, il ruolo prioritario e strategico delle relazioni rispetto ai termini, dei rapporti sociali a più livelli rispetto all’appartenenza prefissata, dei linguaggi interculturali rispetto alle lingue tradizionali, dei processi di continua trasformazione rispetto alle identità tradizionali. A livello di valori il problema è evidente: altre grandi “comunità di vita e destino”, spesso con una forza interna ed una coesione socioculturale maggiori, cominciano ad imporsi sulla scena del mondo, mettendo in crisi il nostro sistema di valori, il nostro orizzonte di futuro, la nostra visione della natura, la nostre capacità scientifiche e tecnologiche e persino la nostra pretesa superiorità politica. Dire che l’identità da “solida” è diventata “liquida” non è ancora un modo di esorcizzare la sua inevitabile scomparsa o di utilizzare ideologicamente il suo fantasma? Meglio fare di necessità virtù e prendere coscienza di una verità di fatto: la sua dispersione è solo la conseguenza della sua origine e del suo paradossale sviluppo. La verità di fatto implica però subito un interrogativo di diritto: quale identità allora? Dobbiamo rassegnarci alla perdita della presenza storica, alla scomparsa della soggettività produttiva di valori, alla fine del libero arbitrio che da sempre è la linfa della politica e della democrazia? Quale altra identità elaborata dalla nostra civiltà può salvarci dalla crisi del presente e dalla minaccia di un nuovo tramonto dell’Occidente? L’identità di popolo in senso “civile” rinvia ad una “società” di “diversi” sia da un punto di vista naturale (razza, sesso, sangue, territorio di origine, ecc.) sia da un punto di vista culturale (religione, lingua, cultura, tradizioni, ecc.), che “inventano” storicamente una struttura condivisa, grazie ad un “contratto sociale”, capace di garantire l’esercizio pratico delle differenze all’interno di un sistema di “uguali”. L’opposizione radicale all’altro tipo di identità è evidente: i naturalmente “identici” sono sostituiti dai socialmente e storicamente “uguali”, ed il concetto di popolo riguadagna tutto il valore semantico, implicito nella sua etimologia, di “pubblico”, di “condiviso”, e quindi di “giuridicamente garantito”. L’uguaglianza è infatti da un lato il prodotto strutturale di una sorta di accordo di base, il cosiddetto “contratto sociale”, dall’altro l’elaborazione simbolica di una coscienza culturale soggettiva di cittadini storici (non di individui naturali) che si sentono protagonisti pubblici della propria condizione presente e del proprio futuro. L’essenza dunque è un’appartenenza alla civitas, che comporta diritti e doveri uguali per tutti, e non ad una natio che stabilisce differenze fondate sui determinismi della natura. Il corpo sociale fondamentale è l’insieme dei cittadini, appunto la civitas, e perciò ancora oggi parliamo di “società civile” come soggettività collettiva, cosciente e libera, vero fondamento storico delle istituzioni democratiche. Lo stato, conseguentemente, è pensato come proprietà dei cittadini, come res publica, perché costruito a loro immagine e somiglianza, e soprattutto per vigilare sull’uguaglianza “civile” e “pubblica”, che garantisce le libertà di esercizio delle diversità pensate come “private”. Di qui il vero “senso” fortemente civile delle costituzioni moderne e 5 democratiche, da un lato socialmente inclusive delle differenze naturali e dall’altro simbolicamente aperte al confronto con quelle culturali interne ed esterne. Queste ultime diventano patrimonio comune nella misura in cui hanno la capacità di esprimere la loro ricchezza simbolica e pratica in un sistema di compatibilità generale: l’uguaglianza è di diritto e di fatto il fondamento dell’esercizio delle differenze e nello stesso tempo il limite strutturale e operativo. La nozione antropologica che è alla base di questo tipo di identità è la civiltà, intesa come sistema di modelli di comportamento e di elaborazione di valori storicamente variabile ed antropologicamente inclusivo: la soggettività storica della società civile ne garantisce la democraticità, la sua apertura alla diversità delle culture la sottopone ad un continuo processo di destrutturazione e ristrutturazione. E’ proprio questa apertura socialmente dinamica a rendere flessibile il modello: la sua capacità di inclusione dà un senso al futuro sociale e un futuro sociale al senso della vita e della morte, che continua ad essere l’orizzonte fondamentale dell’identità. Questa caratteristica rende certamente meno “solido” il riferimento individuale alla struttura dei valori -di qui il disagio soggettivo della cosiddetta “crisi di identità”-, ma garantisce un movimento storico al sistema socio-culturale, chiamato continuamente a ricostruire simbolicamente la propria struttura “di idee e principi” e a ricostituzionalizzare le implicite norme di comportamento. Si tratta in definitiva di un’identità esistenzialmente precaria per chi è abituato ad un senso forte ed immutabile della vita e della storia, ma ha i vantaggi della libera elaborazione, del confronto intersoggettivo e dell’immaginazione del futuro: la società “civile” elabora progetti di trasformazione di diritto e lavora per realizzarli di fatto, non delinea mai “un destino” che per sua natura segna la fine della storia e l’implosione delle civiltà. Kant aveva ben compreso le potenzialità e la prospettiva futura di questa elaborazione di lunga durata, e perciò la riteneva l’unico sistema di valori e di istituzioni capace di garantire la “pace perpetua”. Restano i problemi concreti della vita quotidiana che la scienza sociale non può eludere: come ripensare le tradizionali categorie antropologiche di “cultura minoritaria”, di “minoranze etniche, linguistiche, religiose, ecc.”, che la globalizzazione dei rapporti tra civiltà rimette in azione? Quale il ruolo dei nuovi movimenti “glocali” di identità? Le varie forme di “invenzione della tradizione”7
hanno una legittimazione antropologica? Come analizzare scientificamente questi
nuovi processi socio-culturali? Non è ovviamente questo il luogo per rispondere analiticamente a questi grandi interrogativi del presente, ma è possibile inserirli nella prospettiva trattata, almeno per chiarirne la consistenza antropologica e riformularli in modo storicamente più corretto. Se le nuove comunità “glocali” sono pensate ad immagine e somiglianza della “comunità di vita e di destino” e l’invenzione della tradizione diventa una sorta di mito di fondazione di un’autenticità originaria e di una purezza costitutiva, sono inevitabili il separatismo simbolico e il governo autoritario del senso della vita e della morte. Questo vale non solo per le “forme di vita” esterne, ma soprattutto all’interno della comunità: il monopolio della purezza originaria, vera o presunta, crea statuti differenziali di appartenenza etnica, discriminazioni di “spirito”e di “verità”, subalternità di purezza culturale, in definitiva luoghi simbolici di “sauvagerie”. Le conseguenze sociali e politiche sono facilmente deducibili da questo immaginario immobile perché puro ed autentico, ed immodificabile perché sostanzialmente costituivo fin dalla forma originaria. E’ ovvio che i problemi nascono non dalle rivendicazioni differenziate, ma dai principi “assoluti” della purezza e dell’autenticità stabiliti a monte ed in qualche modo “metastorici”: quando entrano in azione nei rapporti sociali, è il loro statuto simbolico, strutturalmente gerarchico, a provocare prima classificazioni differenziali di senso e poi discriminazioni sociali. La differenza prestabilita, immaginata come fondamento “forte” e costituzionale, non può non produrre altre 7 Per un approccio serio al problema, è possibile cominciare da E. J. Hobsbawm, T. Ranger, L’invenzione della tradizione, Einaudi, Torino 1987; B. Anderson, Comunità immaginate, manifestolibri, Roma 1996. 6 differenze interne ed esterne, maggioranze di senso “solido” e minoranze di “senso” liquide, “spirito” autentico di un’etnia numerosa e consolidata nel tempo e nello spazio -la propria storia autentica e la propria nazione pura!-, e “spirito” minoritario di un’etnia debole nel pensiero e nell’azione. Le numerose politiche del riconoscimento, messe in azione dal multiculturalismo differenzialista, non hanno di fatto intaccato il nocciolo sostanziale di questa struttura simbolica: la tolleranza sociale non può eliminare la gerarchia implicita nei valori vissuti come autentici ed esclusivi, così come la diffusione, ovviamente differenziata, di atteggiamenti “politicamente corretti” non risolve il problema delle discriminazioni sociali e politiche. Il cerchio etnico-culturale si chiude con il paradosso antropologico della rivendicazione di un’identità fino al separatismo politico-istituzionale, a partire dalla differenza, “inventandosi” culturalmente una tradizione fondante, una specificità “minoritaria”, una competenza particolare, ma in definitiva rafforzando la struttura simbolica e implicitamente politica del sistema generale. Autolesionismo simbolico del senso? Masochismo istituzionale della società civile? No! Forse si tratta solo di un’acritica diffusione di massa -i mass media chiamati in causa da Lévi-Strauss hanno un ruolo fondamentale- di un’ideologia gestionale del presente, priva di coscienza antropologica e di prospettiva storica. Il vero nodo del problema è costituito dallo statuto differenziale dell’identità e dalla sua rivendicazione a partire da un’origine autentica e pura: il primo garantisce un funzionamento sociale e politico, la seconda ne legittima l’autorità simbolica ed il valore pragmatico. Nulla è modificabile e tutto si ripete: le identità sono molte come le culture -il cosiddetto “multiculturalismo”-, e continuano a trovare forza sociale e potere di senso nelle loro rispettive “comunità di vita e di destino”. In questo senso anche le cosiddette nuove istanze non sono “glocali”, ma solo “locali” perché non hanno nulla di universale e/o di generale che possa metterle sullo stesso piano: ogni relazione continua ad essere gerarchica e discriminante. Di più: l’origine autentica rivendicata è un passato che non passa mai e solo per questo riesce a legittimare il presente dell’identità ed a garantirne la continuità nel futuro. Un paradigma di eterno presente è la forza ideologica di questo immaginario fisso e preordinato e costituisce una sorta di contrappunto temporale ai limiti spaziali ed etnici delle cosiddette minoranze culturali: l’identità ristretta è forte solo perché delinea una continuità e una durata che coincide con il destino. Il presente diventa così il paradigma della storia individuale e collettiva ed occorre evitare coloro che in qualche modo ne minacciano la continuità, la direzione e il “senso”. E’ impossibile comprendere lo statuto ontologico della differenza senza questa dimensione temporale della durata: è il circolo vizioso dell’ideologia da cui è impossibile uscire se si resta prigionieri dei suoi fondamenti simbolici “assoluti”e delle sue procedure ripetitive. Ci si può salvare solo con una critica antropologica radicale, capace di partire dalle contingenze pratiche e dall’esperienza del disagio sociale. La globalizzazione dei rapporti tra civiltà ha messo in crisi le tradizioni consolidate, le identità etniche e gli stati nazionali, lanciando una sfida antropologica sul senso del futuro: essa provoca disagi individuali e collettivi perché è più una grande rete di relazioni intrecciate e molteplici da comprendere in prospettiva e da governare in modo pluridirezionale che una giustapposizione geopolitica di differenze da tollerare nella sincronia e da gestire da un centro che pensa il mondo in modo autoreferenziale. Occorre una diversa cosmologia culturale: può essere messa in moto solo da uno sviluppo ulteriore della prospettiva moderna della civiltà, perché è stata l’unica ad opporsi radicalmente all’immaginario prefissato della differenza sostanziale e della tradizione ispiratrice. Proprio perché usa l’immaginazione civile, essa è una pratica continua di relazioni sociali e di interferenze culturali, di linguaggi intrecciati e di connessioni simboliche diverse, a partire dall’uguaglianza “di diritto” dei soggetti coinvolti e dall’ampliamento degli spazi discorsivi e deliberativi. Questa civiltà di uguali cambia lo statuto della differenza e le sue 7 dinamiche: essa non ha più un fondamento “naturale” e/o “metastorico”, ma diventa un diritto “di idee e di principi” e conseguentemente una scelta consapevole e libera che trovano nell’uguaglianza “antropologica” il loro fondamento storico e il loro limite strutturale. L’esercizio pratico della differenza diventa ricchezza di senso solo a partire dall’uguaglianza che garantisce il confronto e il dibattito pubblico con altre “forme di vita”, favorendo sintesi progressive e innovative, condivisibili a livello simbolico nella misura in cui rendono compatibili diverse dimensioni di senso. Più che una rinuncia è un’opportunità allargata: gli spazi discorsivi e deliberativi si ampliano -si pensi all’esigenza sempre più diffusa, a tutti i livelli, di aggregazioni che trascendono i vecchi confini degli Stati nazionali- proprio perché l’uguaglianza civile è socialmente e politicamente inclusiva di ogni tipo di differenza. Se la civitas è per sua natura sopranazionale, la civiltà non può che essere plurietnica, pluriculturale, plurilinguistica, plurireligiosa, ecc.: una ricchezza di senso senza precedenti culturali. All’interno di un sistema di relazioni così vasto scompaiono tutte le vecchie classificazioni: un’identità culturale interna non è più riducibile alla sua consistenza etnica e/o demografica e ancora meno al suo statuto comunitario, ma si definisce nelle e con le relazioni che riesce a costruire socialmente e a rendere significative a livello simbolico; si può paradossalmente essere “minoranza” culturale e mettere in moto una “maggioranza” civile di senso condiviso. Le vecchie categorie saltano perché si rimette in gioco tutto e si scommette sul senso del futuro e sul dover essere dell’identità ugualitaria: da questo punto di vista la prospettiva di un’Europa “civile” e pluriculturale è un’esigenza che trascende l’economia e la politica. Questo ampliamento di spazio pubblico e simbolico cambia anche la struttura dei movimenti “glocali” di identità e ne legittima le rivendicazioni: l’uguaglianza civile li rende di interesse comune perché arricchiscono il patrimonio conoscitivo del sistema, moltiplicano le relazioni di senso, aggiungono storie sociali di vita al discorso pubblico sull’etica e rendono più dinamici e democratici i processi deliberativi dei valori. Occorre incoraggiare e favorire queste istanze proiettandole verso il futuro come giuste rivendicazioni di differenze all’interno dell’uguaglianza e considerarle “di diritto” e “di fatto”, come fa Seyla Benhabib8 , vere e proprie rivendicazioni di cittadinanza differenziata. Ci avviamo tutti verso un nuovo modo di essere nel mondo: per dare ad esso un senso sono necessari un diverso impegno civile, capace di produrre immaginazione innovatrice, e la coscienza antropologica che, grazie alla globalizzazione, siamo passati dalla ricchezza delle “nazioni” culturali alla critica civile dell’economia politica dei rapporti tra civiltà. 8 S. Benhabib, La rivendicazione dell’identità culturale. Eguaglianza e diversità nell’era globale, Il Mulino, Bologna 2005. Non a caso questa interessante ricerca nasce dalla consapevolezza pratica delle carenze del multiculturalismo e del liberalismo politico: la sfida globale esige un’uguaglianza democratica ed una visione civile dei rapporti tra culture. 8