La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro secondo/Capitolo XXXIX

Libro secondo
Capitolo XXXIX

../Capitolo XXXVIII ../Capitolo XL IncludiIntestazione 17 luglio 2008 75% Autobiografie

Libro secondo - Capitolo XXXVIII Libro secondo - Capitolo XL

E con tutto che, sí come io ho detto, il Re dimostrassi di avergli fatte buone queste ditte ragione, innel segreto suo lui non la intendeva cosí; perché, sí come io ho detto di sopra, egli rivenne a Parigi, e l’altro giorno, senza che io l’andassi a incitate, da per sé venne accasa mia: dove, fattomigli incontro, lo menai per diverse stanze, dove erano diverse sorte d’opere, e cominciando alle cose piú basse, gli mostrai molta quantità d’opere di bronzo, le quali lui non aveva vedute tante di gran pezzo. Di poi lo menai a vedere il Giove d’argento, e gnene mostrai come finito, con tutti i sua bellissimi ornamenti: qual gli parve cosa molto piú mirabile che non saria parsa ad altro uomo, rispetto a una certa terribile occasione che allui era avvenuta certi pochi anni innanzi: che passando, di poi la presa di Tunizi, lo Imperadore per Parigi d’accordo con il suo cognato re Francesco, il detto Re, volendo fare un presente degno d’un cosí grande Imperadore, gli fece fare uno Ercole d’argento, della grandezza appunto che io avevo fatto il Giove; il quale Ercole il Re confessava essere la piú brutta opera che lui mai avessi vista; e cosí avendola accusata per tale a quelli valenti uomini di Parigi i quali si pretendevano essere li piú valenti uomini del mondo di tal professione, avendo dato ad intendere a il Re che quello era tutto quello che si poteva fare in argento e nondimanco volsono dumila ducati di quel lor porco lavoro; per questa cagione avendo veduto il Re quella mia opera, vidde in essa tanta pulitezza, quale lui non arebbe mai creduto. Cosí fece buon giudizio, e volse che la mia opera del Giove fossi valutata ancora essa dumila ducati, dicendo: - A quelli io non davo salario nessuno: a questo, che io do mille scudi incirca di salario, certo egli me la può fare per il prezzo di dumila scudi d’oro, avendo il ditto vantaggio del suo salario -. Appresso io lo menai a vedere altre opere d’argento e d’oro, e molti altri modegli per inventare opere nuove. Di poi all’utimo della sua partita, innel mio prato del castello scopersi quel gran gigante, a il quale il Re fece una maggior maraviglia che mai gli avessi fatto a nessuna altra cosa; e voltosi all’Amiraglio, qual si chiamava Monsignor Aniballe, disse: - Da poi che dal Cardinale costui di nulla è stato provisto, gli è forza che per essere ancor lui pigro a domandare, sanza dire altro voglio che lui sia provisto: sí che questi uomini, che non usano dimandar nulla, par lor dovere che le fatiche loro dimandino assai: però provedetelo della prima badia che vaca, qual sia insino al valore di dumila scudi d’entrata; e quando ella non venga in una pezza sola, fate che la sia in dua e tre pezzi, perché a lui gli sarà il medesimo -. Io, essendo alla presenza, senti’ ogni cosa e subito lo ringraziai, come se aúta io l’avessi, dicendo a Sua Maestà che io volevo, quando questa cosa fossi venuta, lavorare per Sua Maestà sanza altro premio né di salario né d’altra valuta d’opere, infino a tanto che costretto dalla vecchiaia, non possendo piú lavorare, io potessi in pace riposare la istanca vita mia, vivendo con essa entrata onoratamente, ricordandomi d’aver servito un cosí gran Re, quant’era Sua Maestà. A queste mie parole il Re con molta baldanza lietissimo inverso di me disse: - E cosí si facci - e contento Sua Maestà da me si partí, e io restai.