La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro secondo/Capitolo XXVII

Libro secondo
Capitolo XXVII

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In questo medesimo tempo in Parigi s’era mosso contro a di me quel sicondo abitante che io avevo cacciato del mio castello, e avevami mosso una lite, dicendo che io gli avevo rubato gran quantità della sua roba, quando l’avevo iscasato. Questa lite mi dava grandissimo affanno e toglievami tanto tempo, che piú volte mi volsi mettere al disperato per andarmi con Dio. Hanno per usanza in Francia di fare grandissimo capitale d’una lite che lor cominciano con un forestiero o con altra persona che ’e veggano che sia alquanto istraccurato allitigare; e subito che lor cominciano a vedersi qualche vantaggio innella ditta lite, truovano da venderla; e alcuni l’hanno data per dote a certi, che fanno totalmente quest’arte di comperar lite. Hanno un’altra brutta cosa, che gli uomini di Normandia, quasi la maggior parte, hanno per arte loro il fare il testimonio falso; di modo che questi che comprano la lite, subito instruiscono quattro di questi testimoni o sei, sicondo il bisogno, e per via di questi, chi non è avvertito, a produrne tanti in contrario, un che non sappia l’usanza, subito ha la sentenzia contro. E a me intravenne questi ditti accidenti: e parendomi cosa molto disonesta, comparsi alla gran sala di Parigi per difender le mie ragione; dove io viddi un giudice, luogotenente del Re, del civile, elevato in sun un gran tribunale. Questo uomo era grande, grosso e grasso, e d’aspetto austerissimo: aveva all’intorno di sé da una banda e da l’altra molti proccuratori e avvocati, tutti messi per ordine da destra e da sinistra: altri venivano, un per volta; e proponevano al ditto giudice una causa. Quelli avvocati, che erano da canto, io gli viddi talvolta parlar tutti a un tratto; dove io stetti maravigliato che quel mirabile uomo, vero aspetto di Plutone, con attitudine evidente porgeva l’orecchio ora a questo ora a quello, e virtuosamente a tutti rispondeva. E perché a me sempre è dilettato il vedere e gustare ogni sorte di virtú, mi parve questa tanto mirabile, che io non arei voluto per gran cosa non l’aver veduta. Accadde, per essere quella sala grandissima e piena di gran quantità di gente, ancora usavano diligenza che quivi non entrassi chi non v’aveva che fare, e tenevano la porta serrata e una guardia a detta porta; la qual guardia alcune volte, per far resistenza a chi lui non voleva ch’entrassi, impediva con quel gran romore quel maraviglioso giudice, il quale adirato diceva villania alla ditta guardia. E io piú volte mi abbatte’, e considerai l’accidente; e le formate parole, quale io senti’, furno queste, che disse il propio giudice, il quale iscòrse dua gentiluomini che venivano per vedere; e faccendo questo portiere grandissima resistenza, il ditto giudice disse gridando ad alta voce: - Sta’ cheto, sta’ cheto, Satanasso, levati di costí, e sta’ cheto -. Queste parole innella lingua franzese suonano in questo modo: “Phe phe Satan phe phe Satan alè phe”. Io che benissimo avevo imparata la lingua franzese, sentendo questo motto, mi venne in memoria quel che Dante volse dire quando lui entrò con Vergilio suo maestro drento alle porte dello Inferno. Perché Dante a tempo di Giotto dipintore furno insieme in Francia e maggiormente in Parigi, dove per le ditte cause si può dire quel luogo dove si litiga essere uno Inferno: però ancora Dante, intendendo bene la lingua franzese, si serví di quel motto; e m’è parso gran cosa che mai non sia stato inteso per tale; di modo che io dico e credo che questi comentatori gli fanno dir cose le quale lui non pensò mai.