La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro secondo/Capitolo XVIII

Libro secondo
Capitolo XVIII

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La mattina seguente subito detti principio alla gran saliera, e con sollecitudine quella con l’altre opere facevo tirare innanzi. Di già avevo preso di molti lavoranti, sí per l’arte della scultura, come per l’arte della oreficeria. Erano, questi lavoranti, italiani, franzesi, todeschi, e talvolta n’avevo buona quantità, sicondo che io trovavo de’ buoni; perché di giorno in giorno mutavo, pigliando di quelli che sapevano piú, e quelli io gli sollecitavo di sorte che per il continuo affaticarsi (vedendo fare a me, che mi serviva un poco meglio la complessione che a loro, non possendo resistere alle gran fatiche, pensando ristorarsi col bere e col mangiare assai), alcuni di quei todeschi, che meglio sapevano che gli altri, volendo seguitarmi, non sopportò da loro la natura tale ingiurie, che quegli ammazzò. In mentre che io tiravo innanzi il Giove d’argento, vedutomi avanzare assai bene dell’argento, messi mano sanza saputa del Re a fare un vaso grande con dua manichi, dell’altezza d’un braccio e mezzo in circa. Ancora mi venne voglia di gittare di bronzo quel modello grande che io avevo fatto per il Giove d’argento; messo mano a tal nuova impresa, quale io non avevo mai piú fatta, e conferitomi con certi vecchioni di quei maestri di Parigi, dissi loro tutti e’ modi che noi nella Italia usavono fare tal impresa. Questi a me dissono che per quella via non erano mai camminati, ma se io lasciavo fare sicondo i lor modi, me lo darebbon fatto e gittato tanto netto e bello, quant’era quello di terra. Io volsi fare mercato, dando quest’opera sopra di loro: e sopra la domanda che quei m’avevan fatta, promessi loro parecchi scudi di piú. Messon mano a tale impresa; e veduto io che loro non pigliavono la buona via, prestamente cominciai una testa di Iulio Cesare, col suo petto, armata, grande molto piú del naturale, qual ritraevo da un modello piccolo che io m’avevo portato di Roma, ritratto da una testa maravigliosissima antica. Ancora messi mano in un’altra testa della medesima grandezza, quale io ritraevo da una bellissima fanciulla, che per mio diletto carnale a presso a me tenevo. A questa posi nome Fontana Beliò, che era quel sito che aveva eletto il Re per sua propria dilettazione. Fatto la fornacetta bellissima per fondere il bronzo, e messo in ordine e cotto le nostre forme, quegli el Giove e io le mia dua teste, dissi a loro: - Io non credo che il vostro Giove venga, perché voi non gli avete dati tanti spiriti da basso, che el vento possa girare; però voi perdete il tempo -. Questi dissono a me, che quando la loro opera non fossi venuta, mi renderebbono tutti li dinari che io avevo dati loro a buon conto, e mi rifarebbono tutta la perduta ispesa; ma che io guardassi bene, che quelle mie belle teste, che io volevo gittare al mio modo della Italia, mai non mi verrebbono. A questa disputa fu presente quei tesaurieri e altri gentiluomini, che per commession del Re mi venivano a vedere; e tutto quello che si diceva e faceva, ogni cosa riferivano al Re. Feciono questi dua vecchioni, che volevan gittare il Giove, soprastare alquanto il dare ordine del getto; perché dicevano che arebbon voluto acconciare quelle dua forme delle mie teste; perché quel modo che io facevo, non era possibile che le venissimo, ed era gran peccato a perder cosí bell’opere. Fattolo intendere al Re, rispose Sua Maestà che gli attendessino a ’mparare e non cercassino di volere insegnare al maestro. Questi con gran risa messono in fossa l’opera loro; e io saldo, sanza nissuna dimostrazione né di risa né di stizza - che l’avevo - messi con le mie dua forme in mezzo il Giove: e quando il nostro metallo fu benissimo fonduto, con grandissimo piacere demmo la via al ditto metallo, e benissimo s’empié la forma del Giove; innel medesimo tempo s’empié la forma delle mie due teste: di modo che loro erano lieti e io contento; perché avevo caro d’aver detto le bugie della loro opera, e loro mostravano d’aver molto caro d’aver detto le bugie della mia. Domandorno pure alla franciosa con gran letizia da bere: io molto volentieri feci far loro una ricca colezione. Da poi mi chiesono li dinari che gli avevano da avere, e quegli di piú che io avevo promessi loro. A questo io dissi: - Voi vi siate risi di quello, che io ho ben paura che voi non abbiate a piangere; perché io ho considerato che in quella vostra forma è entrato molto piú roba che ’l suo dovere; però io non vi voglio dare piú dinari, di quelli che voi avete auti, insino a domattina -. Cominciorno a considerare questi poveri uomini quello che io avevo detto loro, e sanza dir niente se ne andorno a casa. Venuti la mattina, cheti cheti cominciorno a cavare di fossa; e perché loro non potevano iscoprire la loro gran forma, se prima egli non cavavano quelle mie due teste, le quali cavorno e stavono benissimo, e le avevano messe in piede, che benissimo si vedevano. Cominciato da poi a scoprire il Giove, non furno dua braccia in giú, che loro con quattro lor lavoranti messono sí grande il grido, che io li sentii. Pensando che fussi grido di letizia, mi cacciai a correre, che ero nella mia camera lontano piú di cinquecento passi. Giunsi a loro e li trovai in quel modo che si figura quelli che guardavano il sepulcro di Cristo, afflitti e spaventati. Percossi gli occhi nelle mie due teste, e veduto che stavan bene, accomoda’ mi il piacere col dispiacere: e loro si scusavano, dicendo: - La nostra mala fortuna! - Alle qual parole io dissi: - La vostra fortuna è stata bonissima, ma gli è bene stato cattivo il vostro poco sapere. Se io avessi veduto mettervi innella forma l’anima, con una sola parola io v’arei insegnato che la figura sarebbe venuta benissimo; per la qual cosa a me ne risultava molto grande onore e a voi molto utile: ma io del mio onore mi scuserò, ma voi né de l’onore né de l’utile non avete iscampo: però un’altra volta imparate a lavorare e non imparate a uccellare -. Pur mi si raccomandavono, dicendomi che io avevo ragione, e che se io non gli aiutavo, che avendo a pagare quella grossa spesa e quel danno, loro andrebbono accattando insieme con le lor famiglie. A questo io dissi, che quando gli tesaurieri del Re volessin lor far pagare quello a che loro s’erano ubrigati, io prommettevo loro di pagargli del mio, perché io avevo veduto veramente che loro avevan fatto di buon cuore tutto quello che loro sapevano. Queste cose m’accrebbono tanta benivolenzia con quei tesaurieri e con quei ministri del Re, che fu inistimabile. Tutto si scrisse al Re, il quale unico liberalissimo, comandò che si facessi tutto quello che io dicevo.