La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro secondo/Capitolo XV

Libro secondo
Capitolo XV

../Capitolo XIV ../Capitolo XVI IncludiIntestazione 17 luglio 2008 75% Autobiografie

Libro secondo - Capitolo XIV Libro secondo - Capitolo XVI

Mi tornai a Parigi. Con tanto favore fattomi dal Re io era ammirato da ugniuno. Ebbi l’argento, e cominciai la ditta statua di Giove. Presi di molti lavoranti, e con grandissima sollecitudine giorno e notte non restavo mai di lavorare; di modo che, avendo finito di terra Giove, Vulcano e Marte, di già cominciato d’argento a tirare innanzi assai bene il Giove, si mostrava la bottega di già molto ricca. In questo conparse el Re a Parigi: io l’andai a visitare; e subito che Sua Maestà mi vedde, lietamente mi chiamò e mi domandava se alla mia magione era qualcosa da mostrargli di bello, perché verrebbe insin quivi. Al quale io contai tutto quel che io avevo fatto. Subito gli venne voluntà grandissima di venire; e di poi il suo desinare, dette ordine con madama de Tampes, col cardinal di Loreno, e certi altri di quei signori, qual fu il re di Navarra, cognato del re Francesco, e la Regina, sorella del ditto re Francesco; venne il Dalfino e la Dalfina; tanto si è, che quel dí venne tutta la nobiltà della Corte. Io m’ero avviato a casa, e m’ero misso a lavorare. Quando il Re comparse alla porta del mio castello, sentendo picchiare a parecchi martella, comandò a ugniuno che stessi cheto: in casa mia ogniuno era innopera; di modo che io mi trovai sopraggiunto dal Re, che io non lo aspettavo. Entrò nel mio salone: e ’l primo che vedde, vedde me con una gran piastra d’argento in mano, qual serviva per il corpo del Giove: un altro faceva la testa, un altro le gambe, in modo che il romore era grandissimo. In mentre che io lavoravo, avendo un mio ragazzetto franzese intorno, il quale m’aveva fatto non so che poco di dispiacere, per la qual cosa io gli avevo menato un calcio, e per mia buona sorte, entrato col piè nella inforcatura delle gambe, l’avevo spinto innanzi piú di quattro braccia, di modo che all’entrare del Re questo putto s’attenne addosso al Re: il perché il Re grandemente se ne rise, e io restai molto smarrito. Cominciò il Re a dimandarmi quello che io facevo, e volse che io lavorassi; di poi mi disse che io gli farei molto piú piacere a non mi affaticare mai, sí bene tòrre quanti uomini io volessi, e quelli far lavorare: perché voleva che io mi conservassi sano per poterlo servir piú lungamente. Risposi a Sua Maestà, che subito io mi ammalerei se io non lavorassi, né manco l’opere non sarebbono di quella sorte - che io desidero fare per Sua Maestà -. Pensando il Re che quello che io dicevo fussi detto per millantarsi, e non perché cosí fussi la verità, me lo fece ridire dal cardinal de Loreno, al quali io mostrai tanto larghe le mie ragione e aperte, che lui ne restò capacissimo: però confortò il Re che mi lasciassi lavorare poco e assai, secondo la mia voluntà.