La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro secondo/Capitolo XII

Libro secondo
Capitolo XII

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Quando noi fummo giunti agli alloggiamenti del Re, noi passammo dinanzi a quelli del cardinale di Ferrara. Essendo il Cardinale in su la porta, mi chiamò a sé e disse: - Il nostro Re Cristianissimo da per sé stesso v’ha fatto la medesima provvisione, che sua Maestà dava a Lionardo da Vinci pittore: qual sono settecento scudi l’anno; e di piú vi paga tutte l’opere che voi gli farete; ancora per la vostra venuta vi dona cinquecento scudi d’oro, i quali vuol che vi sien pagati prima che voi vi partiate di qui -. Finito che ebbe di dire il Cardinale, io risposi che quelle erono offerte da quel Re che gli era. Quel mandato del Re, non sapendo chi io mi fussi, vedutomi fare quelle grande offerte da parte del Re, mi chiese molte volte perdono. Pagolo e Ascanio dissono: - Idio ci ha aiutati ritornare in cosí onorato carruccio -. Di poi l’altro giorno io andai a ringraziare il Re, il quale m’impose che io gli facessi i modelli di dodici statue d’argento, le quali voleva che servissino per dodici candelieri intorno alla sua tavola: e voleva che fussi figurato sei Iddei e sei Iddee, della grandezza appunto di Sua Maestà, quale era poco cosa manco di quattro braccia alto. Dato che egli m’ebbe questa commessione, si volse al tesauriere de’ risparmi e lo domandò se lui mi aveva pagato li cinquecento scudi. Disse che non gli era stato detto nulla. El Re l’ebbe molto per male, ché aveva commesso al Cardinale che gnene dicessi. Ancora mi disse che io andassi a Parigi, e cercassi che stanza fussi a proposito per far tale opere, perché me la farebbe dare. Io presi li cinquecento scudi d’oro e me ne andai a Parigi in una stanza del cardinale di Ferrara; e quivi cominciai innel nome di Dio a lavorare, e feci quattro modelli piccoli di dua terzi di braccio l’uno, di cera: Giove, Iunone, Appollo, Vulgano. In questo mezzo il Re venne a Parigi; per la qual cosa io subito lo andai a trovare, e portai i detti modelli con esso meco, insieme con quei mia dua giovani, cioè Ascanio e Pagolo. Veduto che io ebbi che il Re era sadisfatto delli detti modelli, e’ m’impose per il primo che io gli facessi il Giove d’argento della ditta altezza. Mostrai a Sua Maestà che quelli dua giovani ditti io gli avevo menati di Italia per servizio di Sua Maestà; e perché io me gli avevo allevati, molto meglio per questi principii avrei tratto aiuto da loro, che da quelli della città di Parigi. A questo il Re disse, che io facessi alli ditti dua giovani un salario qual mi paressi a me, che fussi recipiente a potersi trattenere. Dissi che cento scudi d’oro per ciascuno stava bene, e che io farei benissimo guadagnar loro tal salario. Cosí restammo d’accordo. Ancora dissi, che io aveva trovato un luogo il quale mi pareva molto a proposito da fare in esso tali opere; el ditto luogo si era di Sua Maestà particulare, domandato il Piccol Nello, e che allora lo teneva il provosto di Parigi, a chi Sua Maestà l’aveva dato; ma perché questo provosto non se ne serviva, Sua Maestà poteva darlo a me, che l’adoperrei per suo servizio. Il Re subito disse: - Cotesto luogo è casa mia; e io so bene che quello a chi io lo detti non lo abita, e non se ne serve; però ve ne servirete voi per le faccende nostre - e subito comandò al suo luogotenente, che mi mettessi in detto Nello. Il quale fece alquanto di resistenza, dicendo al Re che non lo poteva fare. A questo il Re rispose in còllora che voleva dar le cose sue a chi piaceva allui e a uomo che lo servissi, perché di cotestui non si serviva niente: però non gli parlassi piú di tal cosa. Ancora aggiunse il luogotenente, che saria di necessità di usare un poco di forza. Al quale il Re disse: - Andate adesso, e se la piccola forza non è assai, mettetevi della grande -. Subito mi menò al luogo ed ebbe a usar forza a mettermi in possessione: di poi mi disse che io m’avessi benissimo cura di non v’essere ammazzato. Entrai drento, e subito presi de’ servitori, e comperai parecchi gran pezzi d’arme in aste, e parecchi giorni mi stetti con grandissimo dispiacere; perché questo era gran gentiluomo pariciano, e gli altri gentiluomini m’erano tutti nimici, di modo che mi facevano tanti insulti, che io non potevo resistere. Non voglio lasciare indietro, che in questo tempo che io m’acconciai con Sua Maestà correva appunto il millesimo del 1540, che appunto era l’età mia de’ quaranta anni.