La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro secondo/Capitolo LXXII

Libro secondo
Capitolo LXXII

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Subito io me lo feci portare in bottega e cominciai a scarpellarlo; e in mentre che io lavoravo, io facevo il modello: e gli era tanta la voglia che io avevo di lavorare di marmo, che io non potevo aspettare di risolvermi a fare un modello con quel giudizio che si aspetta, a tale arte. E perché io lo sentivo tutto crocchiare, io mi penti’ piú volte di averlo mai cominciato allavorare: pure ne cavai quel che io potetti, che è l’Appollo e Iacinto, che ancora si vede imprefetto in bottega mia. E in mentre che io lo lavoravo, il Duca veniva a casa mia, e molte volte mi disse: - Lascia stare un poco ’l bronzo e lavora un poco di marmo, che io ti vegga -. Subito io pigliavo i ferri da marmo, e lavoravo via sicuramente. Il Duca mi domandava del modello che io avevo fatto per il detto marmo; al quale io dissi: - Signore, questo marmo si è tutto rotto, ma assuo dispetto io ne caverò qualcosa; imperò io non mi sono potuto risolvere al modello, ma io andrò cosí faccendo ’l meglio che io potrò -. Con molta prestezza mi fece venire ’l Duca un pezzo di marmo greco, di Roma, acciò che io restaurassi il suo Ganimede antico, qual fu causa della ditta quistione connil Bandinello. Venuto che fu ’l marmo greco, io considerai che gli era peccato a farne pezzi per farne la testa e le braccia ell’altre cose per il Ganimede; e mi providdi d’altro marmo, e a quel pezzo di marmo greco feci un piccol modellino di cera, al quale posi nome Narciso. E perché questo marmo aveva dua buchi che andavano affondo piú di un quarto di braccio e larghi dua buone dita, per questo feci l’attitudine che si vede, per difendermi da quei buchi, di modo che io gli avevo cavati della mia figura. Ma quelle tante decine d’anni che v’era piovuto sú, perché e’ restava sempre quei buchi pieni d’acqua, la detta aveva penetrato tanto che il detto marmo si era debilitato; e come marcio in quella parte del buco di sopra; e si dimostrò dappoi che e’ venne quella gran piena d’acqua d’Arno, la quale alzò in bottega mia piú d’un braccio e mezzo. E perché il detto Narciso era posato in su un quadro di legno, la detta acqua gli fece dar la volta, per la quale e’ si roppe in su le poppe, e io lo rappiccai; e perché e non si vedessi quel fesso della appiccatura, io gli feci quella grillanda de’ fiori che si vede che gli ha in sul petto; e me l’andavo finendo accerte ore innanzi dí, o sí veramente il giorno delle feste, solo per non perdere tempo dalla mia opera del Perseo. E perché una mattina in fra l’altre io mi acconciavo certi scarpelletti per lavorarlo, ed e’ mi schizzò una verza d’acciaio sottilissima nell’occhio dritto; ed era tanto entrata dentro nella pupilla, che in modo nessuno la non si poteva cavare. Io pensavo per certo di perdere la luce di quell’occhio. Io chiamai in capo di parecchi giorni maestro Raffaello de’ Pilli, cerusico, il quale prese dua pipioni vivi, e faccendomi stare rovescio in su una tavola, prese i detti pipioni e con un coltellino forò loro una venuzza che gli hanno nell’alie, di modo che quel sangue mi colava dentro innel mio occhio; per il qual sangue subito mi senti’ confortare e in ispazio di dua giorni uscí la verza d’acciaio e io restai libero e migliorato della vista. E venendo la festa di Santa Luscia, alla quale eravamo presso a tre giorni, io feci uno occhio d’oro di uno scudo franzese, e gnele feci presentare a una delle sei mie nipotine, figliuole della Liperata mia sorella, la quale era dell’età di dieci anni in circa, e con essa io ringraziai Iddio e Santa Luscia; e per un pezzo non volsi lavorare in sul detto Narciso, ma tiravo innanzi il Perseo colle sopra ditte difficultà, e m’ero disposto di finirlo e andarmi con Dio.