La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro secondo/Capitolo LXV

Libro secondo
Capitolo LXV

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Domenico e Giovanpagolo Poggini, orefici e frategli, lavoravano, sí come io credo d’aver detto, in guardaroba di Sua Eccellenzia illustrissima cone i miei disegni, certi vasetti d’oro cesellati, con istorie di figurine di basso rilievo e altre cose di molta inportanza. E perché io dissi piú volte al Duca: - Signor mio, se Vostra Eccellenzia illustrissima mi pagassi parecchi lavoranti, io vi farei le monete della vostra zecca e le medaglie colla testa di Vostra Eccellenzia illustrissima, le qual farei a gara con gli antichi e arei speranza di superargli: perché dappoi in qua che io feci le medaglie di papa Clemente io ho imparato tanto, che io farei molto meglio di quelle: e cosí farei meglio delle monete che io feci al duca Alessandro, le quale sono ancora tenute belle; e cosí vi farei de’ vasi grandi d’oro e d’argento, sí come io ne ho fatti tanti a quel mirabil re Francesco di Francia, solo per le gran comodità che ei m’ha date, né mai s’è perso tempo ai gran colossi né all’altre statue -. A queste mie parole il Duca mi diceva: - Fa’, e io vedrò - né mai mi dette comodità né aiuto nessuno. Un giorno Sua Eccellenzia illustrissima mi fece dare parecchi libbre d’argento e mi disse: - Questo è dello argento delle mie cave, fammi un bel vaso -. E perché io non volevo lasciare in dietro il mio Perseo e ancora avevo gran volontà di servirlo, io lo detti da fare, con i miei disegni e modelletti di cera, a un certo ribaldo che si chiama Piero di Martino, orafo: il quale lo cominciò male e anche non vi lavorava, di modo che io vi persi piú tempo che se io lo avessi fatto tutto di mia mano. Cosí avendomi straziato parecchi mesi, e veduto che il detto Piero non vi lavorava, né manco vi faceva lavorare, io me lo feci rendere, e durai una gran fatica a riavere, con el corpo del vaso mal cominciato, come io dissi, il resto dell’argento che io gli avevo dato. Il Duca che intese qualcosa di questi romori, mandò per il vaso e per i modelli e mai piú mi disse né perché né per come; basta che con certi mia disegni e’ ne fece fare a diverse persone e a Venezia e in altri luoghi, e fu malissimo servito. La Duchessa mi diceva spesso che io lavorassi per lei di oreficerie: alla quale io piú volte dissi, che ’l mondo benissimo sapeva, e tutta la Italia, che io ero buono orefice; ma che la Italia non aveva mai veduto opere di mia mano di scultura: - e per l’arte certi scultori arrabbiati, ridendosi di me, mi chiamano lo scultor nuovo; ai quali io spero di mostrare d’esser scultor vecchio, se Idio mi darà tanta grazia che io possa mostrar finito ’l mio Perseo in quella onorata piazza di Sua Eccellenzia illustrissima -. E ritiratomi a casa, attendevo a lavorare il giorno e la notte, e non mi lasciavo vedere in Palazzo. E pensando pure di mantenermi nella buona grazia della Duchessa, io gli feci fare certi piccoli vasetti, grandi come un pentolino di dua quattrini, d’argento, con belle mascherine in foggia rarissima, all’antica; e portatole li detti vasetti, lei mi fece la piú grata accoglienza che immaginar si possa al mondo e mi pagò ’l mio argento e oro che io vi avevo messo. E io pure mi raccomandavo a Sua Eccellenzia illustrissima pregandola che la dicessi al Duca, che io avevo poco aiuto a cosí grande opera, e che Sua Eccellenzia illustrissima doverrebbe dire al Duca, che ei non volessi tanto credere a quella mala lingua del Bandinello, con la quale e’ m’impediva al finire il mio Perseo. A queste mie lacrimose parole la Duchessa si ristrinse nelle spalle e pur mi disse: - Per certo che ’l Duca lo doverria pur conoscere, che questo suo Bandinello non val niente.