La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro secondo/Capitolo LIII

Libro secondo
Capitolo LIII

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Il nostro Duca di Firenze in questo tempo, che eramo del mese d’agosto nel 1545, essendo al Poggio a Caiano, luogo dieci miglia discosto di Firenze, io l’andai a trovare, solo per fare il debito mio, per essere anch’io cittadino fiorentino e perché i mia antichi erano stati molto amici della casa de’ Medici, e io piú che nessuno di loro amavo questo duca Cosimo. Sí come io dico, andai al detto Poggio solo per fargli reverenza e non mai con nessuna intenzione di fermarmi seco, sí come Dio, che fa bene ogni cosa, a lui piacque: ché veggendomi il detto Duca, dipoi fattomi molte infinite carezze, e lui e la Duchessa mi dimandorno dell’opere che io avevo fatte al Re; alla qual cosa volentieri, e tutte per ordine, io raccontai. Udito che egli m’ebbe, disse che tanto aveva inteso che cosí era il vero; e da poi aggiunse in atto di compassione, e disse: - O poco premio a tante belle e gran fatiche! Benvenuto mio, se tu mi volessi fare qualche cosa a me, io ti pagherei bene altrimenti che non ha fatto quel tuo Re, di chi per tua buona natura tanto ti lodi -. A queste parole io aggiunsi li grandi obrighi che io avevo con Sua Maestà, avendomi tratto d’un cosí ingiusto carcere, di poi datomi l’occasione di fare le piú mirabile opere che ad altro artefice mio pari che nascessi mai. In mentre che io dicevo cosí il mio Duca si scontorceva e pareva che non mi potessi stare a udire. Da poi finito che io ebbi, mi disse: - Se tu vuoi far qualcosa per me, io ti farò carezze tali, che forse tu resterai maravigliato, purché l’opere tue mi piacciano; della qual cosa io punto non dubito -. Io poverello isventurato, desideroso di mostrare in questa mirabile Iscuola, che di poi che io ero fuor d’essa, m’ero affaticato in altra professione di quello che la ditta iscuola non istimava, risposi al mio Duca che volentieri, o di marmo o di bronzo, io gli farei una statua grande in su quella sua bella piazza. A questo mi rispose, che arebbe voluto da me, per una prima opera, solo un Perseo. Questo era quanto lui aveva di già desiderato un pezzo; e mi pregò che io gnene facessi un modelletto. Volentieri mi messi a fate il detto modello, e in breve settimane finito l’ebbi, della altezza d’un braccio in circa: questo era di cera gialla, assai accomodatamente finito: bene era fatto con grandissimo istudio e arte. Venne il Duca a Firenze e innanzi che io gli potessi mostrare questo ditto modello, passò parecchi dí; che propio pareva che lui non mi avessi mai veduto né conosciuto, di modo che io feci un mal giudizio de’ fatti mia con Sua Eccellenzia. Pur da poi, un dí doppo desinare, avendolo io condotto nella sua guardaroba, lo venne a vedere insieme con la Duchessa e con pochi altri Signori. Subito vedutolo gli piacque e lodollo oltramodo: per la qual cosa mi dette un poco di speranza che lui alquanto se ne ’ntendessi. Da poi che l’ebbe considerato assai, crescendogli grandemente di piacere, disse queste parole: - Se tu conducessi, Benvenuto mio, cosí in opera grande questo piccol modellino, questa sarebbe la piú bella opera di piazza -. Allora io dissi: - Eccellentissimo mio Signore, in piazza sono l’opere del gran Donatello e del maraviglioso Michelagnolo, qual sono istati dua li maggior uomini dagli antichi in qua. Per tanto Vostra Eccellenzia illustrissima dà un grand’animo al mio modello, perché a me basta la vista di far meglio l’opera, che il modello, piú di tre volte -. A questo fu non piccola contesa, perché il Duca sempre diceva che se ne intendeva benissimo e che sapeva appunto quello che si poteva fare. A questo io gli dissi che l’opere mie deciderebbono quella quistione e quel suo dubbio, e che certissimo io atterrei a Sua Eccellenzia molto piú di quel che io gli promettevo, e che mi dessi pur le comodità che io potessi fare tal cosa, perché sanza quelle comodità io non gli potrei attenere la gran cosa che io gli promettevo. A questo Sua Eccellenzia mi disse che io facessi una supplica di quanto io gli dimandavo, e in essa contenessi tutti i mia bisogni, ché a quella amplissimamente darebbe ordine. Certamente che se io fussi stato astuto a legare per contratto tutto quello che io avevo di bisogno in queste mia opere, io non arei aùto e’ gran travagli, che per mia causa mi son venuti: perché la voluntà sua si vedeva grandissima sí in voler fare delle opere e sí nel dar buon ordine a esse. Però non conoscendo io che questo Signore aveva piú modo di mercatante che di duca, liberalissimamente procedevo con Sua Eccellenzia come duca e non come mercatante. Fecigli le suppliche, alle quale Sua Eccellenzia liberalissimamente rispose. Dove io dissi: - Singularissimo mio patrone, le vere suppliche e i veri nostri patti non consistono in queste parole né in questi scritti, ma sí bene il tutto consiste che io riesca con l’opere mie a quanto io l’ho promesse; e riuscendo, allora io mi prometto che Vostra Eccellenzia illustrissima benissimo si ricorderà di quanto la promette a me -. A queste parole invaghito Sua Eccellenzia e del mio fare e del mio dire, lui e la Duchessa mi facevano i piú isterminati favori che si possa immaginare al mondo.