La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro secondo/Capitolo CII

Libro secondo
Capitolo CII

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Sí come piacque a Iddio, che ogni cosa fa per il nostro meglio - io dico di quegli che lo ricognoscono e che gli credono, sempre Iddio gli difende - in questi giorni mi capitò innanzi un certo ribaldo da Vicchio, chiamato Piermaria d’Anterigoli, e per sopra nome lo Sbietta: l’arte di costui si è il pecoraio, e perché gli è parente stretto di messer Guido Guidi, medico e oggi proposto di Pescia, io gli prestai orecchi. Costui mi offerse di vendermi un suo podere a vita mia naturale, il qual podere io nollo volsi vedere, perché io avevo desiderio di finire il mio modello del gigante Nettunno; e ancora perché e’ non faceva di bisogno che io lo vedessi, perché egli me lo vendeva per entrata: la quale il detto mi aveva dato in nota di tante moggia di grano e di vino, olio e biade e marroni e vantaggi, i quali io facevo il mio conto che al tempo che noi eravamo, le dette robe valevano molto piú di cento scudi d’oro innoro, e io gli davo secento cinquanta scudi contando le gabelle. Di modo che, avendomi lasciato scritto di sua mano che mi voleva sempre, per tanto quanto io vivevo, mantenere le dette entrate, io non mi curai d’andare a vedere il detto podere; ma sí bene io, il meglio che io potetti, mi informai se il detto Sbietta e ser Filippo, suo fratello carnale erano di modo benestanti che io fussi sicuro. Cosí da molte persone diverse che gli conoscevano, mi fu detto che io ero sicurissimo. Noi chiamammo d’accordo ser Pierfrancesco Bertoldi, notaio alla Mercatanzia; e la prima cosa io gli detti in mano tutto quello che ’l detto Sbietta mi voleva mantenere, pensando che la detta scritta si avessi a nominare innel contratto: di modo che ’l detto notaio, che lo rogò, attese a’ ventidua confini, che gli diceva il detto Sbietta, e sicondo me ei non si ricordò di includere nel detto contratto quello che ’l detto venditore mi aveva offerto; e io, in mentre che ’l notaio scriveva, io lavoravo; e perché ei penò parecchi ore a scrivere, io feci un gran brano della testa del detto Nettunno. Cosí avendo finito il detto contratto, lo Sbietta mi cominciò affare le maggior carezze del mondo, e io facevo ’l simile a lui. Egli mi presentava cavretti, caci, capponi, ricotte e molte frutte, di modo che io mi cominciai mezzo mezzo a vergognare: e per queste amorevolezze io lo levavo, ogni volta che lui veniva a Firenze, d’in su la osteria; e molte volte gli era con qualcuno dei sua parenti, i quali venivano ancora loro; e con piacevoli modi egli mi cominciò a dire che gli era una vergogna che io avessi compro un podere, e che oramai gli era passato tante settimane, che io non mi risolvessi di lasciare per tre dí un poco le mie faccende ai mia lavoranti e andassilo a vedere. Costui potette tanto cone ’l suo lusingarmi, che io pure in mia mal’ora l’andai a vedere; e il detto Sbietta mi ricevvé in casa sua con tante carezze e con tanto onore, che ei non ne poteva far piú a un duca; e la sua moglie mi faceva piú carezze di lui; e in questo modo noi durammo un pezzo, tanto che e’ gli venne fatto tutto quello che gli avevano disegnato di fare, lui e ’l suo fratello ser Filippo.