La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo XXXIII

Libro primo
Capitolo XXXIII

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Gli aveva quel suo misser Giovanni compro un cavallo morello bellissimo, in el quale aveva speso centocinquanta scudi. Questo cavallo si maneggiava mirabilissimamente, in modo che questo Luigi andava ogni giorno a saltabeccar con questo cavallo intorno a questa meretrice Pantassilea. Io, avedutomi di tal cosa, non me ne curai punto, dicendo che ogni cosa faceva secondo la natura sua; e mi attendevo a’ mia studi. Accadde una domenica sera, che noi fummo invitati da quello scultore Michelagnolo sanese a cena seco; ed era di state. A questa cena ci era il Bachiacca già ditto, e con esso aveva menato quella ditta Pantassilea, sua prima pratica. Cosí essendo a tavola a cena, lei era a sedere in mezzo fra me e il Bachiacca ditto: in su il piú bello della cena lei si levò da tavola, dicendo che voleva andare a alcune sue commodità, perché si sentiva dolor di corpo, e che tornerebbe subito. In mentre che noi piacevolissimamente ragionavàno e cenavamo, costei era soprastata alquanto piú che il dovere. Accadde che, stando in orecchi, mi parve sentire isghignazzare cosí sommissamente nella strada. Io teneva un coltello in mano, il quale io adoperavo in mio servizio a tavola. Era la finestra tanto appresso alla tavola, che sollevatomi alquanto, viddi nella strada quel ditto Luigi Pulci insieme con la ditta Pantassilea, e senti’ di loro Luigi che disse: - Oh se quel diavolo di Benvenuto ci vedessi, guai a noi! - E lei disse: - Non abiate paura; sentite che romore e’ fanno: pensano a ogni altra cosa che a noi -. Alle qual parole io, che gli avevo conosciuti, mi gittai da terra la finestra, e presi Luigi per la cappa e col coltello che io avevo in mano certo lo ammazzavo; ma perché gli era in sun un cavalletto bianco, al quale lui dette di sprone, lasciandomi la cappa in mano per campar la vita. La Pantassilea si cacciò a fuggire in una chiesa quivi vicina. Quelli che erano a tavola, subito levatisi, tutti vennono alla volta mia, pregandomi che io non volessi disturbate né me né loro a causa di una puttana; ai quali io dissi, che per lei io non mi sarei mosso, ma sí bene per quello scellerato giovine, il quale dimostrava di stimarmi sí poco: e cosí non mi lasciai piegare da nessuna di quelle parole di quei virtuosi uomini da bene; anzi presi la mia spada e da me solo me ne andai in Prati; perché la casa dove noi cenavamo era vicina alla porta di Castello, che andava in Prati. Cosí andando alla volta di Prati, non istetti molto che, tramontato il sole, a lento passo me ne ritornai in Roma. Era già fatto notte e buio, e le porte di Roma non si serravano. Avvicinatosi a dua ore, passai da casa di quella Pantassilea, con animo, che, essendovi quel Luigi Pulci, di fare dispiacere a l’uno e l’altro. Veduto e sentito che altri non era in casa che una servaccia chiamata la Canida, andai a posare la cappa e il fodero della spada, e cosí me ne venni alla ditta casa, la quali era drieto a Banchi in sul fiume del Tevero. Al dirimpetto a questa casa si era un giardino di uno oste, che si domandava Romolo: questo giardino era chiuso da una folta siepe di marmerucole, innella quale cosí ritto mi nascosi, aspettando che la ditta donna venissi a casa insieme con Luigi. Alquanto soprastato, capitò quivi quel mio amico detto il Bachiacca, il quale o sí veramente se l’era immaginato, o gli era stato detto. Somissamente mi chiamò compare (che cosí ci chiamavamo per burla); e mi pregò per l’amor di Dio, dicendo queste parole quasi che piangendo: - Compar mio, io vi priego che voi non facciate dispiacere a quella poverina, perché lei non ha una colpa al mondo -. A il quale io dissi: - Se a questa prima parola voi non mi vi levate dinanzi, io vi darò di questa spada in sul capo -. Spaventato questo mio povero compare, subito se li mosse il corpo, e poco discosto possette andare, che bisognò che gli ubbidissi. Gli era uno stellato, che faceva un chiarore grandissimo: in un tratto io sento un romore di piú cavagli e da l’un canto e dall’altro venivano inanzi: questi si erano il ditto Luigi e la ditta Pantassilea accompagnati da un certo misser Benvegnato perugino, cameriere di papa Clemente, e con loro avevano quattro valorosissimi capitani perugini, con altri bravissimi giovani soldati: erano in fra tutti piú che dodici spade. Quando io viddi questo, considerato che io non sapevo per qual via mi fuggire, m’attendevo a ficcare in quella siepe; e perché quelle pungente marmerucole mi facevano male, e mi aissavo come si fa il toro, quasi risolutomi di fare un salto e fuggire; in questo, Luigi aveva il braccio al collo alla ditta Pantassilea, dicendo: - Io ti bacerò pure un tratto, al dispregio di quel traditore di Benvenuto -. A questo, essendo molestato dalle ditte marmerucole e sforzato dalle ditte parole del giovine, saltato fuora, alzai la spada, e con gran voce dissi: - Tutti siate morti -. In questo il colpo della spada cadde in su la spalla al detto Luigi: e perché questo povero giovine que’ satiracci l’avevano tutto inferrucciato di giachi e d’altre cose tali, il colpo fu grandissimo; e voltasi la spada, dette in sul naso e in su la bocca alla ditta Pantassilea. Caduti tutti a dua in terra, il Bachiacca con le calze a mezza gamba gridava e fuggiva. Vòltomi agli altri arditamente con la spada, quelli valorosi uomini, per sentire un gran romore che aveva mosso l’osteria, pensando che quivi fossi l’esercito di cento persone, se bene valorosamente avevano messo mano alle spade, due cavalletti infra gli altri ispaventati gli missono in tanto disordine, che gittando dua di quei migliori sottosopra, gli altri si missono in fuga: e io veduto uscirne a bene, con velocissimo corso e onore usci’ di tale impresa, non volendo tentare piú la fortuna che il dovere. In quel disordine tanto smisurato s’era ferito con le loro spade medesime alcun di quei soldati e capitani, e misser Benvegnato ditto, camerier del papa, era stato urtato e calpesto da un suo muletto; e un servitore suo, avendo messo man per la spada, cadde con esso insieme, e lo ferí in una mana malamente. Questo male causò, che piú che tutti li altri quel misser Benvegnato giurava in quel lor modo perugino, dicendo: - Per lo... di Dio, che io voglio che Benvegnato insegni vivere a Benvenuto - e commesse a un di quei sua capitani, forse piú ardito che gli altri, ma per esser giovane aveva manco discorso. Questo tale mi venne a trovare dove io mi ero ritirato, in casa un gran gentiluomo napoletano, il quale avendo inteso e veduto alcune cose della mia professione, apresso a quelle la disposizione de l’animo e del corpo atta a militare, la qual cosa era quella a che il gentiluomo era inclinato; in modo che, vedutomi carezzare, e trovatomi ancora io nella propria beva mia, feci una tal risposta a quel capitano, per la quale io credo che molto si pentissi di essermi venuto inanzi. Apresso a pochi giorni, rasciutto alquanto le ferite e a Luigi e alla puttana e a quelli altri, questo gran gentiluomo napoletano fu ricerco da quel misser Benvegnato, al cui era uscito il furore, di farmi far pace con quel giovane detto Luigi, e che quelli valorosi soldati, li quali non avevano che far nulla con esso meco, solo mi volevano cognoscere. La qual cosa quel gentiluomo disse attutti, che mi merrebbe dove e’ volevano, e che volontieri mi farebbe far pace; con questo, che non si dovessi né dall’una parte né dall’altra ricalcitrar parole, perché sarebbon troppo contra il loro onore; solo bastava far segno di bere e baciarsi, e che le parole le voleva usar lui, con le quale lui volontieri li salveria. Cosí fu fatto. Un giovedí sera il detto gentiluomo mi menò in casa al ditto misser Benvegnato, dove era tutti quei soldati che s’erano trovati a quella isconfitta, ed erano ancora a tavola. Con il gentiluomo mio era piú di trenta valorosi uomini, tutti ben armati; cosa che il ditto misser Benvegnato non aspettava. Giunti in sul salotto, prima il detto gentiluomo, e io apresso, disse queste parole: - Dio vi salvi, signori: noi siamo giunti a voi, Benvenuto e io, il quale io lo amo come carnal fratello; e siamo qui volentieri a far tutto quello che voi avete volontà di fare -. Misèr Benvegnato, veduto empiersi la sala di tante persone, disse: - Noi vi richiedemo di pace e non d’altro -. Cosí misèr Benvegnato promisse, che la corte del governator di Roma non mi darebbe noia. Facemmo la pace: onde io subito mi ritornai alla mia bottega, non potendo stare una ora sanza quel gentiluomo napoletano, il quale o mi veniva a trovare o mandava per me. In questo mentre guarito il ditto Luigi Pulci, ogni giorno era in quel suo cavallo morello, che tanto bene si maneggiava. Un giorno in fra gli altri, essendo piovegginato, e lui atteggiava il cavallo a punto in su la porta di Pantassilea, isdrucciolando cadde, e il cavallo addòssogli; rottosi la gamba dritta in tronco, in casa la ditta Pantassilea ivi a pochi giorni morí, e adempié il giuro che di cuore lui a Dio aveva fatto. Cosí si vede che Idio tien conto de’ buoni e de’ tristi, e a ciascun dà il suo merito.