La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo XXXIV

Libro primo
Capitolo XXXIV

../Capitolo XXXIII ../Capitolo XXXV IncludiIntestazione 25 giugno 2008 75% Autobiografie

Libro primo - Capitolo XXXIII Libro primo - Capitolo XXXV

Era di già tutto il mondo in arme. Avendo papa Clemente mandato a chiedere al signor Giovanni de’ Medici certe bande di soldati, i quali vennono, questi facevano tante gran cose in Roma, che gli era male stare alle botteghe pubbliche. Fu causa che io mi ritirai in una buona casotta drieto a Banchi; e quivi lavoravo a tutti quelli guadagnati mia amici. I mia lavori in questo tempo non furno cose di molta importanza; però non mi occorre ragionar di essi. Mi dilittai in questo tempo molto della musica e di tal piaceri simili a quella. Avendo papa Clemente, per consiglio di misser Iacopo Salviati, licenziato quelle cinque bande che gli aveva mandato il signor Giovanni, il quale di già era morto in Lombardia, Borbone, saputo che a Roma non era soldati, sollecitissimamente spinse l’esercito suo alla volta di Roma. Per questa occasione tutta Roma prese l’arme; il perché, essendo io molto amico di Alessandro, figliuol di Piero del Bene, e perché a tempo che i Colonnesi vennono in Roma mi richiese che io gli guardassi la casa sua: dove che a questa maggior occasione mi pregò, che io facessi cinquanta compagni per guardia di detta casa, e che io fussi lor guida, sí come avevo fatto a tempo de’ Colonnesi; onde io feci cinquanta valorosissimi giovani, e intrammo in casa sua ben pagati e ben trattati. Comparso di già l’esercito di Borbone alle mura di Roma, il detto Alessandro del Bene mi pregò che io andassi seco a farli compagnia: cosí andammo un di quelli miglior compagni e io; e per la via con esso noi si accompagnò un giovanetto addomandato Cechino della Casa. Giugnemmo alle mura di Campo Santo, e quivi vedemmo quel maraviglioso esercito, che di già faceva ogni suo sforzo per entrare. A quel luogo delle mura, dove noi ci accostammo, v’era molti giovani morti da quei di fuora: quivi si combatteva a piú potere: era una nebbia folta quanto immaginar si possa. Io mi vuolsi a Lessandro e li dissi: - Ritiriamoci a casa il piú presto che sia possibile, perché qui non è un rimedio al mondo; voi vedete, quelli montano e questi fuggono -. Il ditto Lessandro spaventato, disse: - Cosí volessi Idio che venuti noi non ci fussimo! - e cosí vòltosi con grandissima furia per andarsene, il quale io ripresi, dicendogli: - Da poi che voi mi avete menato qui, gli è forza fare qualche atto da uomo -. E vòlto il mio archibuso, dove io vedevo un gruppo di battaglia piú folta e piú serrata, posi la mira innel mezzo apunto a uno che io vedevo sollevato dagli altri; per la qual cosa la nebbia non mi lasciava discernere se questo era a cavallo o a piè. Vòltomi subito a Lessandro e a Cechino, dissi loro che sparassino i loro archibusi, e insegnai loro il modo, acciocché e’ non toccassino una archibusata da que’ di fuora. Cosí fatto dua volte per uno, io mi affacciai alle mura destramente, e veduto in fra di loro un tumulto istrasordinario, fu che da questi nostri colpi si ammazzò Borbone; e fu quel primo che io vedevo rilevato da gli altri, per quanto da poi s’intese. Levatici di quivi, ce ne andammo per Campo Santo, ed entrammo per San Piero; e usciti là drieto alla chiesa di Santo Agnolo, arrivammo al portone di Castello con grandissime difficultà, perché il signor Renzo da Ceri e il signor Orazio Baglioni davano delle ferite e ammazzavono tutti quelli che si spiccavano dal combattere alle mura. Giunti al detto portone, di già erano entrati una parte de’ nimici in Roma, e gli avevamo alle spalle. Volendo il Castello far cadere la saracinesca del portone, si fece un poco di spazio, di modo che noi quattro entrammo drento. Subito che io fui entrato, mi prese il capitan Pallone de’ Medici, perché, essendo io della famiglia del Castello, mi forzò che io lasciassi Lessandro; la qual cosa molto contra mia voglia feci. Cosí salitomi su al mastio, innel medesimo tempo era entrato papa Clemente per i corridori innel Castello; perché non s’era voluto partire prima del palazzo di San Piero, non possendo credere che coloro entrassino. Da poi che io mi ritrovai drento a quel modo, accosta’ mi a certe artiglierie, le quali aveva a guardia un bonbardiere chiamato Giuliano fiorentino. Questo Giuliano affacciatosi lí al merlo del castello, vedeva la sua povera casa saccheggiare, e straziare la moglie e’ figliuoli; in modo che, per non dare ai suoi, non ardiva sparare le sue artiglierie; e gittato la miccia da dar fuoco per terra, con grandissimo pianto si stracciava il viso; e ’l simile facevano certi altri bonbardieri. Per la qual cosa io presi una di quelle miccie, faccendomi aiutare da certi ch’erano quivi, li quali non avevano cotai passione: volsi certi pezzi di sacri e falconetti dove io vedevo il bisogno, e con essi ammazzai di molti uomini de’ nemici; che se questo non era, quella parte che era intrata in Roma quella mattina, se ne veniva diritta al Castello; ed era possibile che facilmente ella entrassi, perché l’artiglierie non davano lor noia. Io seguitavo di tirare; per la qual cosa alcun cardinali e signori mi benedivano e davonmi grandissimo animo. Il che io baldanzoso, mi sforzavo di fare quello che io non potevo; basta che io fu’ causa di campare la mattina il Castello, e che quelli altri bonbardieri si rimessono a fare i loro uffizii. Io seguitai tutto quel giorno: venuto la sera, in mentre che l’esercito entrò in Roma per la parte di Tresteveri, avendo papa Clemente fatto capo di tutti e’ bonbardieri un gran gentiluomo romano, il quale si domandava misser Antonio Santa Croce, questo gran gentiluomo la prima cosa se ne venne a me, faccendomi carezze: mi pose con cinque mirabili pezzi di artiglieria innel piú eminente luogo del Castello, che si domanda da l’Agnolo a punto: questo luogo circunda il Castello atorno atorno e vede inverso Prati e in verso Roma: cosí mi dette tanti sotto a di me a chi io potessi comandare, per aiutarmi voltare le mie artiglierie; e fattomi dare una paga innanzi, mi consegnò del pane e un po’ di vino, e poi mi pregò, che in quel modo che io avevo cominciato seguitassi. Io, che tal volta piú era inclinato a questa professione che a quella che io tenevo per mia, la facevo tanto volentieri, che la mi veniva fatta meglio che la ditta. Venuto la notte, e i nimici entrati in Roma, noi che eramo nel Castello, massimamente io, che sempre mi son dilettato veder cose nuove, istavo considerando questa inestimabile novità e ’ncendio; la qual cosa quelli che erano in ogni altro luogo che in Castello, nolla possettono né vedere né inmaginare. Per tanto io non mi voglio mettere a descrivere tal cosa; solo seguiterò descrivere questa mia vita che io ho cominciato, e le cose che in essa a punto si appartengono.