La vendetta d'uno schiavo/Capitolo XV

Capitolo XV

../Capitolo XIV ../Capitolo XVI IncludiIntestazione 19 febbraio 2024 75% Da definire

Capitolo XIV Capitolo XVI

Capitolo XV

Il fortino olandese

L’indomani, dopo la festa del giorno precedente, l’esercito giavanese levava il campo e si metteva in marcia diviso in sessanta schiere.

Diepo-Nigoro si era recato nella tenda di Giovanni, per avvertirlo che l’esercito lasciava quei monti.

– Ah! Siete voi, capo, – disse Giovanni muovendogli incontro.

– Stiamo per partire – disse Diepo.

– Dove andiamo? – domandò il piantatore.

– Ad assaltare un fortino olandese.

– Ed i prigionieri, sono morti?

– Mi è stato impossibile salvarli. Orsù, venite, se volete veder sfilare il mio esercito.

Mentre alcuni uomini piegavano la tenda, Giovanni e Nigoro balzarono su due cavalli che li aspettavano poco distanti.

Giovanni guardò per alcuni istanti il destriero che Nigoro gli aveva destinato.

– È arabo? – gli chiese.

– Sì, è un arabo magnifico, che adoperavo io quando cacciavo la tigre, – rispose Nigoro.

– Come si chiama?

– Pandji, – disse Nigoro.

– Sempre Pandji, – mormorò Giovanni, sorridendo.

– Cosa volete? È l’eroe di quest’isola.

– È vero. Andiamo a vedere sfilare le truppe.

– Venite; giudicherete se le mie truppe sono degne di stare a fronte a quelle olandesi.

In due minuti i due cavalieri giunsero su una piccola altura, dove già si trovavano Kedir-Peng e vari altri capi.

– Ecco le mie truppe, guardate, – disse Nigoro.

Infatti l’esercito giavanese, diviso in sessanta schiere, si avanzava in bell’ordine.

Veniva prima una grossa schiera formata di cinquecento uomini, montati tutti su magnifici cavalli giavanesi, armati di fucili e di lunghe lancie, coll’inseparabile kriss. Erano gli esploratori.

Seguiva una seconda colonna divisa in venti bande, forse di diecimila uomini. Erano i cacciatori ed erano armati di fucili di lunga portata e di larghe scimitarre. Questa colonna era comandata dal capo Kedir-Peng.

La terza colonna, formata di altre venti schiere, era composta di pig-maker, ossia di lancieri armati di lunghe aste e montati su ottimi cavalli.

Veniva poi l’artiglieria con otto pezzi e una trentina di racchette; quindi i guastatori, armati d’ogni specie di fucili, di sciabole, di lancie, di giavellotti e perfino di archi.

– Che cosa vi pare del mio esercito? – domandò Nigoro a Giovanni.

– Lo credo tale da preoccupare gli olandesi, – rispose il piantatore.

– Sì, sì, – rispose Nigoro. – Vedete i capi che comandano quelle colonne; essi si chiamano i senapati, o signori della guerra, ed hanno sotto di loro cinquecento uomini. Vi sono poi i sotto capi che si chiamano widana, poi altri minori che sono i tindiks che ne comandano ottanta, e infine i babachels che non ne hanno che quaranta. In quanto a me, sono il gran senapato, cioè il signore sopra tutti i signori della guerra.

– E in guerra come vivete? Voi non avete forgoni per le provviste?

– In guerra si vive di caccia e di saccheggio. La selvaggina abbonda, e mille cacciatori, ogni giorno, vanno a battere i boschi e uccidono tigri, daini, bufali e camaleonti. I miei guerrieri hanno stomachi di ferro, e divorano tutto ciò che loro si dà. Venite, – disse poi, spronando il suo cavallo.

Giovanni lo seguì, e dopo mezz’ora, entrambi raggiunsero la testa delle colonne. Colà, un centinaio di uomini, vestiti sfarzosamente e armati di fucili e di pistole e montati su magnifici cavalli giavanesi, attendevano Nigoro.

– Chi sono questi bei guerrieri? – domandò Giovanni, fermando il suo cavallo.

– È la mia scorta, – rispose Nigoro sorridendo, poi diede il segnale della partenza.

L’esercito giavanese si mise tosto in marcia scendendo le montagne e inoltrandosi in mezzo ai boschi.

Nigoro, seguito dalla sua scorta, lo precedeva segnando il cammino.

Giovanni, che cavalcava a fianco del gran capo giavanese, pareva immerso in tristi pensieri e non rivolgeva la parola a nessuno.

– A che cosa pensate? – gli chiese ad un tratto Nigoro, toccandolo.

– A Hamat-Peng, – rispose Giovanni.

– Pare che quel furfante sia sfuggito ai miei uomini, perché la piccola squadriglia che ho mandato a inseguirlo non è più tornata.

– E l’abbandonate così, senza che possa sapere ove siete diretto?

– Oibò! Vi ingannate. L’ultimo dei miei soldati conosce i miei disegni. E poi, sebbene non mi raggiungano, cento uomini poco contano per me.

– Ne avete altri guerrieri sparsi nell’isola?

– Sì, – rispose Nigoro. – Ho ancora due corpi abbastanza formidabili, composti di ventimila uomini ciascuno, comandati da due capi valenti, e che operano alle sorgenti del fiume Tjiliwong, pronti a venirmi in aiuto, qualora io mi decidessi a muovere su Batavia.

– Avete dunque questa idea? – domandò Giovanni.

– Sì, l’ho.

– Settantamila uomini sono pochi per assediare una città difesa da ventimila olandesi armati di grossi cannoni con un buon numero di navi.

– Giava conta cinque milioni d’indigeni e posso mettere in campo altri eserciti.

– Non tutti però ubbidiscono a voi.

– È vero; posso però contare su tre milioni di indigeni. Nei distretti della bassa Giava e nel centro si fanno già grosse leve per allestire un esercito di centomila uomini, tutti pronti a vendicarsi degli oppressori.

– Questa rivolta darà assai da fare agli olandesi. Ah!... ecco il forte!

– No, non è che un forte in ruina, che ci servirà di asilo per questa notte, – disse Nigoro.

Essendo già quasi sera, Nigoro diede il segnale della fermata.

Tosto l’esercito si accampò, senza confusione e senza fretta. Tutti si fermarono ai posti ove si trovavano. Quelli vicini al forte rizzarono le tende presso i bastioni e gli altri nei boschi.

Diepo-Nigoro e Giovanni invece, fecero alzare la loro tenda nell’interno del forte, il quale, sebben in parte rovinato, aveva ancora delle buone muraglie.

Alla sera vi fu riunione nella tenda di Nigoro per prendere gli opportuni accordi onde cercare di sorprendere gli olandesi del fortino.

Al mattino, prima ancora che il sole sorgesse, tutto il campo era in piedi, pronto alla partenza, ma Nigoro avvertì che per quel giorno nulla si sarebbe intrapreso, volendo mandare esploratori verso il fortino olandese che si trovava a sei miglia di distanza.

Scelti quindici uomini montati su rapidi cavalli, furono mandati a spiare il forte.

Giovanni e Nigoro, dopo che gli esploratori furono partiti, salirono in sella e andarono a visitare il campo.

Stavano ritornando alle loro tende, quando videro tornare gli esploratori, che erano partiti quattro ore prima.

– Quali nuove? – chiese Nigoro al loro capo.

– Il forte è guardato da tre o quattrocento uomini ed armato con sei grosse spingarde, – rispose il capo.

– Credi che si possa sorprenderlo?

– È impossibile, gran capo. Gli olandesi vegliano attentamente.

– Bah! Non potranno opporre lunga resistenza alle nostre bande.

Congedò gli esploratori, poi voltosi a Giovanni, gli disse:

– Cosa mi consigliereste di fare?

– Chiedere la resa, – rispose Giovanni.

– Mandare un messaggio a loro, sarebbe pericoloso.

– M’impegno io d’andarvi.

– Se si può risparmiare una inutile effusione di sangue, sarò lieto.

– Datemi quattro uomini ed io mi reco al fortino. Questa sera sarò di ritorno.

Nigoro chiamò alcuni uomini della sua scorta. Giovanni ne scelse quattro, indi, stretta la mano al gran capo, s’incamminò verso il fortino. La marcia non fu faticosa, perché un sentiero abbastanza largo era tracciato nella foresta. Dopo un’ora di cammino, essi giunsero dinanzi alla spianata, in mezzo alla quale si alzava il forte. Esso consisteva in una vasta cinta alta cinque metri e di molto spessore, capace di resistere ai cannoni più poderosi. Nell’interno si rizzava una massiccia costruzione in pietra con numerose feritoie, sormontata da un terrazzo, sul quale si scorgevano otto spingarde. Sulla cinta si vedevano altre quattro spingarde e parecchi olandesi affaccendati a fortificare le mura.

Giovanni rimase alcuni minuti nascosto ad osservarli, poi prese il fucile, vi attaccò il fazzoletto bianco, e ordinato ai quattro uomini di suonare i loro corni guerreschi, marciò verso il forte.

Le sentinelle, uditi quei corni e visto quel piccolo drappello, diedero piglio ai fucili, gridando:

– Chi vive?

– Pace, – gridò il piantatore, avanzandosi fino al fossato che circondava il forte.

Il comandante olandese apparve sulla muraglia, e vista quella bandiera bianca, gridò:

– Cosa volete? Chi siete?

– Noi siamo giavanesi e siamo venuti a proporvi la resa del forte, – rispose Giovanni.

– Arrendermi?... E a chi?

– A Diepo-Nigoro, il quale fra poco sarà qui con trentamila combattenti.

– Al diavolo Diepo-Nigoro! – gridarono gli olandesi.

– Ma voi siete un europeo? – gridò in quel mentre il comandante.

– Sì – rispose Giovanni.

– Qualche traditore?

– No, signore, perché io non sono olandese.

– Dite a Diepo-Nigoro che gli olandesi non si arrendono senza combattere, – disse il comandante, accennandogli di partire.

– Rifiutate adunque?

– Ci prepariamo a ricevere gl’insorti, mio caro.

– Io volevo salvarvi; giacché volete la morte, l’avrete, – gridò Giovanni, e voltate le spalle si allontanò.

– Bandito! L’avrai anche tu la morte! – urlò il comandante.

Giovanni si volse arditamente. In quell’istante una scarica partì dal forte e due giavanesi caddero.

– Traditori! – gridò Giovanni esasperato. – Pagherete cara questa infamia.

E si slanciò nel bosco, seguito dai due superstiti.

Un’ora dopo, Giovanni entrava nella tenda del gran capo giavanese.

– Ebbene? – gli domandò questi, andandogli incontro.

– Non solo hanno rifiutato, ma mi hanno ucciso anche due uomini. – rispose Giovanni.

Una vampa d’ira salì in volto al gran capo.

– Questo tradimento verrà terribilmente punito, – disse.

Poi, presolo per una mano e condottolo fuori dalla tenda, si avvicinò a quattro schiere forti di duemila uomini, dicendogli: – Questi guerrieri sono tuoi.

Quindi gli mise tre penne bianche sul cappello, distintivo dei capi.

Dieci minuti più tardi, Diepo-Nigoro sceglieva venti schiere, tra le quali le quattro di Giovanni, si metteva alla loro testa, dirigendosi verso il fortino, presso cui giungeva verso il tramonto.