La vendetta d'uno schiavo/Capitolo V
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Capitolo V
Le rovine di Outar-Sama
Giovanni e i suoi compagni, inseguiti dai giavanesi, correvano nel bosco lanciati a tutta carriera. Di tratto in tratto delle fucilate risuonavano dietro a loro, ma essi, aggrappati alle criniere, si lasciavano trascinare in quella corsa furiosa, lasciando la cura ai cavalli di schivare i numerosi alberi che ingombravano il cammino.
In breve le grida dei giavanesi divennero più fioche per la distanza e poi a poco a poco tacquero del tutto. Giovanni, temendo che nuovi nemici si nascondessero nei dintorni, e volendo mettere la maggior distanza possibile fra sé e gli assalitori, lasciò che i cavalli corressero tutta la notte senza saper dove e da qual parte si dirigessero. Al mattino solamente egli diede ordine di fermarsi. Gli olandesi in numero di ventisei, avendo perduto quattro compagni nella lotta, rizzarono rapidamente le tende presso a un fiumicello che scorreva in una bella pianura.
Giovanni, seguito dai suoi due servi, andò a fare una esplorazione nelle vicinanze, e dopo un’ora ritornò non avendo trovato nessuna vestigia dei nemici. Egli fece chiamare il sergente dicendogli:
– Farwall, cosa credete che ci convenga di fare?
– Ritornare dal generale, – rispose il sergente.
– È intenzione anche degli altri?
– Sì, Cacciatore Nero.
– Bene, ritorneremo, – disse Giovanni, congedandolo.
– Aspettate, abbiamo perduto la bussola, – mormorò Farwall fermandosi.
– Perduto la bussola?
– Sì, il soldato che la portava è stato ucciso.
– Ebbene, come dirigersi ora al nord, in mezzo a queste foreste?
– Non lo so, – mormorò il cavalleggiero.
– Ciò vuol dire che siamo smarriti, – disse Giovanni.
– E allora che cosa fare?
– Cercheremo di ritornare al nord, guidandoci col sole, ciò che però sarà difficile in mezzo ai boschi.
– Ah! Se lo avessi saputo l’avrei portata io – disse Farwall.
– Ora è troppo tardi per pentirsi; andate.
Farwall uscì, e andò a metter sei sentinelle intorno al campo.
La notte trascorse senza che i nemici molestassero il piccolo accampamento. Al mattino, Giovanni diede il segnale della partenza cercando dirigersi verso il nord. Kabaut, che conosceva tutti i sentieri, si trovava anch’esso smarrito in mezzo a quelle vaste solitudini, nondimeno la marcia fu incominciata in silenzio.
I cavalleggieri, scoraggiati per la perdita dei quattro loro compagni, cavalcavano l’uno accanto all’altro, senza aprir bocca. Giovanni, in capo alla comitiva, scrutava la foresta, tendendo gli orecchi a tutti i rumori, e tutto osservando per vedere se trovava tracce dei nemici. In quanto a Kabaut e al cinese parevano assorti nei loro pensieri. A mezzogiorno Giovanni fece fare una fermata e mandò alcuni cavalleggieri alla caccia per provveder qualche cosa da mangiare. Alcune ore dopo, parecchi spari l’avvisarono che la selvaggina non mancava. Infatti poco dopo i sei cacciatori tornarono portando un grosso cervo.
Il Cacciatore Nero lo fece tagliare in ventisette parti, ne diede a tutti un pezzo di parecchie libbre, riservandosene uno anche per sé, poi si rimise in marcia seguito da tutti i cavalleggieri.
Alla sera si accamparono su un’alta roccia, ripida e dirupata. La situazione era bene scelta, poiché il nemico non avrebbe potuto salire che a prezzo d’immensi sacrifici d’uomini. Anche quella seconda notte passò tranquilla; altro non si udirono che i ruggiti delle tigri, e le grida rauche dell’avvoltoio delle rocce nere.
L’indomani il drappello riprendeva la ritirata ed alle due esso giungeva in un folto bosco attraversato da numerosi ruscelli. I cavalli si tuffarono con piacere nella fresca acqua, e i cavalleggieri ricevettero volentieri quel bagno, tanto desiderato sotto quel calore torrido. Verso sera, Giovanni, che marciava innanzi d’una decina di passi, vide una muraglia rizzarsi a trecento passi più in là, e che sorpassava gli alberi della foresta. Fermò il suo cavallo e chiamando i soldati disse:
– Preparate i fucili; vedo un muro.
– Una muraglia? – esclamarono in coro i soldati, meravigliati.
– Sì, guardate.
– Infatti è vero – risposero i cavalleggieri.
– Aspettate – disse in quel mentre Kabaut. – Mi ricordo che in questi luoghi vidi una volta le rovine di una vasta pagoda.
– Una pagoda in un bosco? – domandarono Giovanni e i cavalleggieri.
– Sì! Sì! Gli avanzi di un tempio – ribatté Kabaut. – Devono essere le rovine che i giavanesi chiamano di Outar-Sama.
– Ah! Ne ho udito parlar anch’io – disse un olandese – ma si raccontano delle strane cose.
– Eh via, non sono che ciance; io che l’ho visitato in tutte le sue parti non vi ho trovato che lucertole e topi – disse Kabaut.
– E questo tempio dista molto dal luogo occupato dal generale Wan Carpellen? – domandò Giovanni.
– Una trentina di miglia e forse di più – rispose Kabaut – ma la via deve essere boscosa e difficile. Bisognerà passare pel campo ruggente, una vasta pianura popolata da tigri.
– Bene, ora intanto occupiamo le rovine di Outar-Sama – disse Giovanni, prendendo il suo fucile per tema di cadere in un agguato.
Tutti i cavalleggieri lo seguirono. Poco dopo giunsero presso a una vasta muraglia, tutta diroccata, nel centro della quale si levava una vasta pagoda mezza rovinata.
Nel momento in cui i cavalleggieri vi giungevano, dai cespugli che circondavano le rovine uscirono sei o sette antilopi rosse le quali presero subito la fuga.
– Per la cena – urlò Giovanni, scaricando il suo fucile, a cui fecero eco i ventisei dei cavalleggieri.
Cinque antilopi caddero fra gli urràh dei cacciatori. Sei uomini furono incaricati di scuoiare le bestie, mentre la colonna, guidata da Kabaut, entrava nel recinto.
La muraglia di cinta aveva una lunghezza di trecento metri; era in parte diroccata, però in alcuni luoghi era ancora salda. Tutto all’ingiro sassi enormi, che un tempo costituivano la grossa muraglia, ingombravano il suolo. I cavalleggieri vi entrarono passando attraverso una specie di porta. Legati i cavalli ad alcuni sassi, tagliarono una dozzina di rami d’un albero resinoso chiamato dagli indigeni rimùt, e guidati sempre da Kabaut, entrarono arditamente nella pagoda.
Era questa una grande sala quadrata, lunga e larga quaranta metri, ripiena di rottami, di sassi e di erbe. Essa era alta dodici metri e tutta ornata di figure che ricordavano l’antica scultura giavanese. Alcune di esse rappresentavano i fatti principali dell’eroe giavanese, il capo Pandji, altre delle imprese del feroce sultano di Mattarem. Alla sommità del tempio, vi era una larga apertura, in parte diroccata.
Ad una estremità del fabbricato, Kabaut fece loro vedere una massiccia porta di legno del tek, legname che è duro quanto il ferro e che era ancora ben conservato. Essendo aperta, gli olandesi scesero in un vasto sotterraneo alquanto umido, ingombro di massi, di sepolture giavanesi, senza dubbio tombe che racchiudevano le spoglie di alcuni rajah.
– Basta, basta, usciamo – disse Giovanni a cui quelle cupe volte del sotterraneo facevano una viva impressione.
Kabaut uscì lentamente, seguito da tutti i cavalleggieri.
Temendo poi che dall’alto rovinasse qualche masso, uscirono all’aperto. In quel momento i sei cacciatori entravano nel recinto trascinando le cinque antilopi rosse già scuoiate.
– Suvvia, accendiamo il fuoco e rizziamo le tende – disse Giovanni.
– Ma non si potrebbe andar a dormire nell’interno del tempio? – domandarono parecchi soldati.
– No, sarebbe pericoloso; la moschea è in rovina e potrebbe, da un momento all’altro, caderci addosso.
– Sì, avete ragione – risposero i cavalleggieri e rizzarono le tende ed accesero i fuochi.
I pezzi d’antilope furono arrostiti ed i cacciatori si misero a cenare tranquillamente, certi di non venire disturbati. Terminato il pasto, collocarono alcune sentinelle all’intorno, poi si sdraiarono sotto le tende colla speranza di passare una buona notte.
Riposavano da qualche ora, quando Giovanni, che non sapeva trovar sonno, si alzò per accertarsi se le sentinelle vegliavano.
Si era appena accostato alla cinta, quando vide una testa apparire sulla cima della muraglia.
Temendo di essersi ingannato, si fermò, cercando di celarsi dietro un cespuglio.
Quella testa rimase anch’essa immobile, poi si alzò lentamente e comparve intera sulla muraglia. Un grido sfuggì a Giovanni. Balzò violentemente in piedi, urlando:
– Hamat-Peng!... – e puntato il fucile fece fuoco.
La testa sparve rapidamente, mentre la palla, colpendo la sommità della muraglia, faceva rovinare alcuni sassi.
– I nemici! I nemici! – urlò Giovanni lanciandosi verso la muraglia e inerpicandosi fino sulla cima.
I cavalleggieri, svegliati di soprassalto, si affrettarono ad imitarlo, occupando la cinta. Giunti lassù, guardarono dall’altra parte, ma nessun nemico era in vista.
Giovanni però, certo di non essersi ingannato, ordinò che si mettessero a cavalcioni della cinta, in modo da potere difendere tutto all’intorno la pagoda.
Quando vide che i cavalleggieri erano a posto, con Kabaut e Lu-Ciang scese dalla muraglia, e con grossi macigni barricò la porta che metteva nell’interno della cinta.
Pochi minuti dopo, dalle foreste circostanti, partirono alcune scariche e delle palle scrosciarono sulla muraglia e sul tetto della moschea, ferendo parecchi olandesi.
– Fuoco! – gridò Giovanni, scaricando le sue armi.
I ventisei fucili degli olandesi vi fecero eco. Quasi subito numerosi assalitori, un centocinquanta circa, uscirono dalla foresta correndo valorosamente all’assalto. La difesa degli olandesi fu breve: attaccati da tutte le parti, dopo alcune scariche abbandonarono la muraglia ritirandosi nella cinta. Giovanni solo rimase al suo posto, malgrado le palle che fioccavano.
Scaricò rapidamente parecchie volte il suo fucile, stendendo a terra sei assalitori, ma sopraffatto dal numero dovette imitare i suoi compagni. Appena la muraglia fu abbandonata i giavanesi la occuparono non senza subire però perdite gravissime, poiché gli olandesi non avevano cessato il fuoco. Però essi, per nulla intimiditi di quelle scariche micidiali, si diedero a correre rapidamente sulla muraglia, rispondendo coi fucili e colle freccie.
Una seconda scarica li accolse quando scesero nel recinto, gettandone a terra una quindicina, ma la posizione ormai era guadagnata. Giovanni s’avvide che se non batteva in ritirata, non avrebbe potuto resistere, quindi con voce tuonante gridò:
– Alla moschea! Alla moschea!
Gli olandesi non se lo fecero dire due volte.
Scaricati un’ultima volta i loro fucili fuggirono nella moschea.
Nel momento dell’entrarvi, un cavalleggiero gridò:
– I cavalli! I cavalli! O i viveri ci mancheranno!
Sei o sette olandesi afferrarono alcuni cavalli e li trassero rapidamente nella moschea, poi la porta fu violentemente rinchiusa, mentre i giavanesi salutavano la loro vittoria con altissime grida.