La vendetta d'uno schiavo/Capitolo II

Capitolo II

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Capitolo II

Il campo olandese

Quattro ore dopo gli avvenimenti accaduti, Giovanni de Mejra entrava in Batavia, la capitale dell’isola di Giava.

Nel 1825, ossia nell’epoca in cui comincia questa veridica istoria, Batavia non era ancora la regina delle colonie malesi dell’Olanda, né aveva una popolazione così numerosa come oggi.

Allora contava appena cinquantamila anime e non possedeva gli opulenti quartieri, che vennero costruiti durante l’ultimo trentennio e che ne hanno fatta una delle città più moderne e più comode di tutti i possedimenti neederlandesi. Risentiva ancora dell’antica dominazione dei rajah malesi ed era una delle più malsane dell’isola, essendo costruita specialmente su d’un terreno pantanoso, quasi sul letto d’un antico corso d’acqua, ed avendo intorno numerosi stagni che durante l’estate esalavano miasmi mortali agli europei.

Aveva ancora vie strette, quartieri interi di capanne abitati da una popolazione tutt’altro che pulita, composta di malesi, di giavanesi e di chinesi, bazar che erano immondezzai e poche case europee. Anche il suo porto, in gran parte coperto di banchi fangosi e di sabbia, lasciava molto a desiderare, malgrado gli sforzi costanti degli olandesi per migliorarlo.

Un solo quartiere era ancora discreto, quello europeo, ma essendo anch’esso costruito su d’un terreno melmoso, non era meno insalubre degli altri e numerosi coloni vi lasciavano la vita durante la stagione calda.

Giovanni de Mejra, appena entrato in città, si diresse senz’altro verso il palazzo del governo, situato sulla spianata di Weltendren, onde avere innanzi a tutto un abboccamento col governatore.

Il signor Baud, che in quell’epoca reggeva la colonia e che lo conosceva personalmente, appena informato della presenza del piantatore, s’affrettò a riceverlo, tanto più che già era stato informato della rivolta scoppiata sull’alto corso del Tjiliwong.

– M’immagino lo scopo della vostra venuta, signor de Mejra, – gli disse, appena se lo vide dinanzi. – I partigiani di Diepo-Nigoro hanno sollevati gli schiavi delle piantagioni del nord, è vero?

– Hanno già distrutte tutte le piantagioni, signore, – rispose Giovanni.

– Anche le vostre?

– Non solo, ma mi hanno anche rapito il figlio, – disse il piantatore con accento disperato.

– Vostro figlio! – esclamò il governatore. – E a quale scopo?

– Io lo ignoro, ma sospetto che si tratti d’una vendetta.

– E da parte di chi?

– Dal malese Hamat-Peng.

– Di quello schiavo che aveva osato alzare gli occhi su vostra sorella?

– Sì, signor governatore.

– E cosa contate di fare ora, signor de Mejra?

– Di raggiungere quel miserabile e riprendergli mio figlio.

– Avete pensato ai pericoli che dovrete affrontare?

– Sono deciso a tutto, signore.

– Ma a quest’ora il malese sarà fra le bande di Diepo-Nigoro.

– Andrò a trovarlo anche colà.

– È una cosa impossibile!

– Pure lo tenterò, signor governatore. O libererò mio figlio o perirò nell’impresa.

– Ditemi almeno cosa posso fare per voi.

– Non vi chiedo che un favore: quello di lasciarmi arruolare fra le truppe destinate a combattere i ribelli. Io non sono olandese, sono catalano, ma sono un europeo al pari di voi e andrò a misurarmi coi ribelli, colla speranza di poter un giorno vendicarmi di Hamat e di riavere mio figlio.

– Signor de Mejra, voi siete un uomo troppo valoroso per rifiutare il vostro concorso in questa disgraziata guerra. Io vi raccomanderò al generale Wan Carpellen che è incaricato di marciare contro i ribelli.

– È già partito il generale?

– Da tre giorni.

– Dove potrei raggiungerlo?

– Lo troverete accampato nei dintorni di Krawang. Non ha con sé che quattromila uomini, sarà quindi necessario che attenda i rinforzi che sono partiti da Tjieribon, avendo da misurarsi contro centomila ribelli. Quando partirete?

– Questa sera istessa o domani mattina.

Il signor Baud si accostò ad un tavolo e scrisse alcune righe su di un foglio di carta.

– Prendete, signor de Mejra, – disse poi. – Il generale vi farà una buona accoglienza.

– Grazie, signore, – disse Giovanni.

– Vi auguro buona fortuna.

Il piantatore strinse la mano che il governatore gli porgeva e lasciò il palazzo del governo più tranquillo di quando era entrato, avendo ormai una vaga speranza di poter trovarsi in breve sulle tracce di Hamat-Peng.

Salito in sella, attraversò lentamente la città dirigendosi verso Kramat, uno dei sobborghi settentrionali, e si fermò dinanzi ad una taverna dalla quale uscivano schiamazzi e ondate di fumo.

Consegnato il cavallo ad un ragazzo, entrò risolutamente, facendosi largo fra alcuni curiosi che si erano radunati attorno al cavallo, stupiti forse di vedere un bianco arrestarsi colà.

Quella taverna, una delle più luride di Batavia, era ingombra di bevitori. Attorno ai numerosi tavoli, chinesi, malesi, giavanesi e bornesi, bevevano dei grandi bicchieri di ginepro e di vino di palma e fumavano grandi pipe ripiene di tabacco o di oppio, schiamazzando e bestemmiando.

Giovanni cercò cogli sguardi qualcuno, poi s’avvicinò ad un tavolo dove due uomini, un malese ed un cinese, stavano giuocando agli scacchi, giuoco che era stato allora importato dai figli del Celeste Impero.

Quando essi videro avvicinarsi Giovanni, si levarono i cappellacci di fibre di rotang, esclamando:

– Il padron de Mejra!

– Olà! Kabaut, Lu-Ciang, seguitemi, – disse Giovanni.

Il malese e il cinese si levarono rapidamente e uscirono dietro a Giovanni. Quando furono fuori da quell’orribile taverna, quest’ultimo disse:

– Dovendo raggiungere la spedizione olandese ed avendo bisogno di avere due fidi servi, vengo a reclutarvi. Vi bastano dodici piastre di Spagna al mese?

– Sì! Sì! – esclamarono i due uomini. – Però non abbiamo armi fuorché i nostri kriss.

– Comperatevi due cavalli, due fucili e delle munizioni, – disse Giovanni porgendo loro cento piastre.

I due uomini fecero una smorfia di contentezza e presero a volo le cento piastre. Essi sapevano che qualcuna ne sarebbe rimasta anche a loro, avendo in quell’epoca le piastre un valore quasi doppio.

– Domani mi aspetterete fuori della città, presso il Tjiliwong, – disse Giovanni, e salito sul suo cavallo partì dirigendosi verso un albergo, tenuto da un olandese suo amico.

All’indomani, quando uscì, era totalmente cambiato. Egli indossava un vestito tutto nero, serrato ai fianchi da una cintola egualmente nera, sostenente due pistole e un lungo kriss. Aveva lunghi stivali, sproni di acciaio brunito; un cappello di paglia nera ornato di lunghe piume e un ampio mantello, gettato sbadatamente sulle spalle e fornito di cappuccio, completavano il suo abbigliamento. Alla cintura poi, dal lato sinistro, aveva un enorme corno, ripieno di polvere e dall’arcione gli pendeva un lungo fucile.

Salito sul suo cavallo, il piantatore si avviò lentamente verso la parte della città ove doveva raggiungere i due servi.

Una mezz’ora dopo, presso la riva del Tjiliwong trovò i suoi due servi, il malese e il cinese, i quali erano montati su due robusti cavalli giavanesi, vestiti di panni nuovi, armati di fucili e ben provvisti di munizioni da bocca e da guerra.

Quei due uomini, che soleano sempre accompagnare Giovanni quando viaggiava per l’isola, erano assai devoti e valenti, sapendo che pagava come un principe, e che era buono.

Il piantatore fece loro cenno di salire in arcione ed il piccolo drappello si mise in viaggio. Giovanni camminava innanzi, ed i due servi seguivano a cinque passi di distanza l’un dall’altro, tenendo i fucili dinanzi alla sella, per essere pronti a rispondere a qualsiasi attacco.

Attraversati gli ultimi sobborghi, ben presto i tre cavalieri si cacciarono sotto i grandi boschi, seguendo una specie di sentiero che doveva condurli a Krawang, ossia all’accampamento della spedizione incaricata di debellare le bande insorte.

Enormi alberi fiancheggiavano quel sentiero. Erano per lo più giganteschi tek, alti ottanta a cento piedi, che si lanciavano ritti verso il cielo, piante di lingoa, alberi pure assai alti e che sono d’una durezza senza pari. Non mancavano però le piante pregiate, anzi ve n’erano a centinaia e che crescevano senza coltura.

Si vedevano dei bassia, i cui tronchi somigliano al canary, e che producono un frutto simile al nocciuolo, il quale facendolo bollire, dà una specie di sevo giallognolo, adoperato nella fabbricazione delle candele; dei bendaud, altri alberi assai preziosi che forniscono una specie di caucciù simile a quello americano, e forse migliore. Vi erano pure dei rarak, alberi che producono l’alcali che tien luogo di sapone, e che potrebbero diventare un ramo di commercio assai importante per l’Europa; dei kanarium, che danno un frutto oblungo, simile a una noce, il quale contiene una mandorla che somministra in abbondanza il miglior olio commestibile che trovar si possa; dei gambir che producono un siroppo che si mischia al pane, il quale può allora conservarsi per più anni; dei sogoutier, gli alberi forse più preziosi di tutta la Malesia, somiglianti ai palmis e che producono delle frutta che hanno la forma di un uovo e danno una farina gommosa, assai nutritiva e che può supplire il grano.

Il piccolo drappello durante l’intera mattinata continuò ad inoltrarsi attraverso quelle splendide foreste, senza fare cattivi incontri e verso il mezzodì si accampava in mezzo ad una radura. I tre cavalli furono lasciati liberi a vagare nella foresta, e gli uomini si sedettero sul tronco di un albero atterrato, onde mangiare un boccone.

Il cinese estrasse dal suo sacco alcune focaccie fatte di farina e di siroppo di gambir, e il malese della carne secca, aggiungendovi alcune frutta, specialmente dei banani che crescevano lì frammischiati agli altri alberi, senza coltura di sorta. Terminato il frugale pasto, Giovanni si stese accanto al fuoco, si avvolse nel suo mantello e si addormentò, mentre il malese e il cinese, presi i loro fucili, si internarono nei boschi per cacciare. Due ore dopo tornarono entrambi; il cinese portava una mezza dozzina di pappagalli, e il malese un gatto selvatico. Stavano per sedersi presso il fuoco, onde spennacchiare i volatili, quando udirono un sibilo lamentevole. Il cinese e il malese si guardarono in faccia stralunando l’uno i suoi piccoli occhi obliqui e l’altro i suoi due grandi occhi neri.

– Un serpente! – mormorarono entrambi, armando i loro fucili.

Un nuovo fischio si fe’ udire, vicino a loro.

Si guardarono intorno; Giovanni, steso accanto al fuoco dormiva sempre, ma il serpente non si scorgeva in nessun luogo.

– Dove può essersi nascosto? – domandò il cinese.

– Deve essere un outar-sawa, – mormorò il malese facendo un salto e dirigendosi verso il fuoco. Ma d’un tratto entrambi mandarono un grido di spavento. Un crotalo era raggomitolato presso il corpo di Giovanni. Il malese mandò un fischio leggiero, e tosto l’outar-sawa levò lentamente il capo, e lasciò il fuoco dirigendosi verso la foresta.

Allora il malese e il cinese piombarono sul velenoso rettile, e sparando tutti e due assieme, gli fracassarono il capo.

– Ohé! Che scherzo è questo?

– Non è uno scherzo, padron mio; abbiamo ucciso un serpente, un vero outar-sawa e nel momento in cui stava per mordervi, – disse il malese schiacciando il corpo del rettile col calcio del suo fucile.

– Grazie amici, – disse Giovanni alzandosi e lanciando uno sguardo ripugnante sull’outar-sawa.

– Se vi mordeva non vi sareste alzato più mai, – disse il cinese. – Sono velenosissimi questi serpenti.

– Lo so, Lu-Ciang. Orsù, abbiamo riposato abbastanza; in sella amici.

Il malese e il cinese non se lo fecero dire due volte: coll’agilità che caratterizza i chinesi e i malesi, in un balzo furono in sella, e seguirono Giovanni il quale era già a cavallo. Ripresero subito la via fra i boschi, che divenivano ognor più folti, rendendo la marcia assai faticosa in causa delle radici e delle liane numerosissime. I cavalli si avanzavano lentamente, con precauzione, onde non farsi mordere dai numerosi rettili, che si trovavano nascosti nei folti cespugli.

Verso sera i tre cavalieri uscirono da quelle folte foreste, e giunsero in un altipiano che andava man mano elevandosi.

Colà la vegetazione era poco rigogliosa, ma delle splendide vedute, d’una bellezza senza pari, si estendevano tutto all’intorno. A destra e a sinistra, alte roccie dirupate si ergevano verso il cielo, brulle, grigie, d’un aspetto selvaggio. L’altipiano si elevava su su, e si andava convertendo in china, la quale saliva fiancheggiata da burroni e da picchi solitari. Giovanni allentò le briglie del cavallo, e volse uno sguardo indietro. Giù nel piano si estendevano folti boschi, e in lontananza, seguendo la striscia argentea del Tjiliwong, vide la città di Batavia avvolta nell’ombra, e scorse infiniti lumicini accesi qua e là, mentre che più lontano ancora, scorgevasi il mare, il quale scintillava come una immensa lastra di metallo sotto i raggi della luna allora sorta.

I due servi di Giovanni, trovata una piccola grotta scavata nella viva roccia, vi accesero il fuoco per arrostirvi i pappagalli uccisi dal cinese durante la giornata. Poco dopo quando tutto fu pronto Kabaut chiamò Giovanni, il quale era rimasto al di fuori, guardando quello splendido panorama.

Alla chiamata del malese si scosse, ed entrò lentamente nella grotta. La cena fu assai triste. Giovanni, che era diventato taciturno, toccò appena alcune briciole di pane e un mezzo pappagallo. Il cinese ed il malese, non essendo abituati a vederlo così triste, vollero cercare di conoscere il motivo di quel nero umore.

– Padron mio, – disse il malese. – Una volta eravate più allegro.

– Ho l’inferno nell’anima ed il sangue che mi arde, – mormorò sordamente Giovanni.

– Vi giuro che non vi conosco più. Cosa avete ora?

– Allora ero un uomo felice ed ora sono il più sventurato degli uomini, – disse Giovanni.

– Voi pensate a vostro figlio, mio povero padrone.

– È vero, Kabaut, e non tornerò più felice se non lo avrò liberato.

– Lo ritroveremo, padrone.

– Sì, forse.

– Quel cane di Hamat-Peng la pagherà cara.

– Se lo ritroveremo.

– Egli deve essere al campo di Diepo-Nigoro.

– Lo suppongo, Kabaut. Non sarà cosa facile andarlo a scovare in mezzo a centomila ribelli, ma ho fiducia nel valore degli olandesi.

– Se riescono a battere Diepo-Nigoro, quel furfante di Hamat cadrà, un dì o l’altro, nelle nostre mani.

– Non vivo che per questa speranza. Riposate, amici; forse domani noi raggiungeremo la spedizione.

– Riposate voi, padrone; noi siamo abituati alle veglie. Lu-Ciang farà il primo quarto di guardia e io lo surrogherò alla mezzanotte.

– Vegliate attentamente; forse i ribelli non sono lontani.

– Dormite tranquillo, padrone, – dissero i due servi.

Il malese strisciò sotto un mucchio di paglia, si coprì col mantello fatto di pelle di capra e si addormentò accanto al padrone. Il cinese invece si mise il fucile accanto, accese la sua pipa e si mise a fumare a lunghi tratti, come i suoi compatriotti di Canton. Di quando in quando però si levava per udir meglio i rumori che portava il vento, ma tosto rassicurato tornava a sedere. A mezzanotte, entrò nella grotta, e tirò per la gamba il malese Kabaut, il quale dormiva con un sol occhio e tenendo il kriss in mano; sentendosi toccare, il malese si levò di colpo domandando:

– Chi vive?

– Son io, – miagolò il cinese con una voce così sottile che fece ridere il malese.

Kabaut uscì, prese il suo fucile, e andò a sedersi alcuni passi lontano dalla grotta, su un grosso sasso. Colà, masticando il suo betel, vi rimase sino al mattino, senza che alcun incidente venisse a rompere il silenzio che regnava sull’altipiano.