La trovatella di Milano/VIII
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CAPITOLO OTTAVO.
Rivelazioni.
l marchese Diego Tiani e sua moglie, invece di un lungo viaggio di nozze, avevano scelto per la loro luna di miele la solitudine di una villetta presso Cernusco-Merate.
Tanto Adriana che suo marito avevano avuto uno scopo nel ritirarsi in quel luogo.
La giovane poteva abbandonarsi al suo dolore senza che sguardi indiscreti la spiassero; Diego non avrebbe mancato di fare qualche scappata a Milano, onde continuare la vita di libertinaggio fino allora condotta.
Adriana aveva seco la sua fidata cameriera, che era a parte di tutti i suoi segreti. Diego teneva un domestico dall’aria furba e intelligente, che trattava con molta famigliarità il suo padrone e si mostrava strisciante sino al ridicolo con la giovine marchesa.
I due sposi si vedevano all’ora della colazione e del pranzo. Ma anche in quei momenti si parlavano assai poco: l’uno nervoso, irritato perchè offeso nel suo orgoglio, pieno di desiderii per quella donna ammirabilmente bella, che era sua moglie e gli apparteneva così poco: l’altra sempre assorta nelle sue tristi meditazioni, sollevando appena di quando in quando i suoi occhioni, in cui la sofferenza metteva spesso delle lacrime.
Passò un mese.
Una mattina che Adriana si trovava più pallida e più triste del solito, Diego dopo averla a lungo osservata con mal repressa ira, disse in tono sardonico.
— Sembra che non possiate dimenticare le memorie del passato, nè chi si è preso giuoco di voi.
Ella ebbe una contrazione nelle sopraciglia ed alzando la testa con aria indignata.
— E quando fosse! — esclamò alteramente — Credetemi, fareste meglio non farmi troppo pensare ad un simile avvenimento. Mi sono spiegata abbastanza prima del mio matrimonio: mi avete voluta lo stesso. Con qual diritto adunque mi rimproverate adesso, cercate scrutare i miei pensieri?...
— Dimenticate che sono vostro marito... e se conoscete la legge...
Adriana l’interruppe con un gesto imperioso.
— La legge non può impedirmi di riflettere a mio piacere: i miei doveri di moglie li conosco meglio di voi, che trascorrete le notti non si sa dove nè con chi.
— Se non mi sfuggiste come fate, se non mi mostraste in tutti i modi il vostro disprezzo, state certa che non mi allontanerei un solo istante dal vostro fianco. No non mi sarei aspettato tanta crudeltà da voi: eppure che vi feci... se non che adorarvi, quanto la stessa divinità, cercare tutti i mezzi per rendervi felice?
La sua voce si elevava a poco a poco: la sua passione scoppiava con violenza inusitata.
Adriana rimaneva fredda, insensibile.
Egli le si avvicinò e fissandola con occhi in cui passavano dei luccicori terribili.
— Badatevi — disse con voce sorda — in questo momento sono ancora lo schiavo che supplica; ma domani sarò il padrone che comanda.
Ella sostenne coraggiosamente quegli sguardi: c’era in lei qualche cosa che si ribellava contro la brutalità di quelle parole.
— Non potrete giammai costringermi ad amarvi — disse — perchè sarebbe una cosa superiore alla mia volontà. Mi spezzerete, ma senza giungere a piegarmi... e se mi aveste ben conosciuta, forse non avreste tentati tutti i mezzi per divenire mio marito.
Si alzò per andare nella sua camera, lasciando Diego furibondo, umiliato.
Appena fu sola, cadde su di una poltrona scoppiando in singhiozzi convulsi. Come si sentiva oppressa, infelice! Dunque la sua esistenza sarebbe sempre trascorsa così, vicino ad un marito che odiava, per il quale provava una repugnanza invincibile, qualche cosa che non avrebbe saputo spiegare a sè stessa... e col pensiero sempre fisso nell’altro, che l’aveva tradita, eppure amava sempre, come forse non l’aveva amato mai!
Una disperazione spaventosa assaliva la sua anima, il suo cuore sanguinava. Era stanca di vivere: uno scoraggiamento orribile l’accasciava.
La sua fidata cameriera la sorprese, mentre si dibatteva in una crisi violenta di nervi, lasciandosi sfuggire parole insensate, che mostravano il turbamento del suo cervello, lo spasimo del suo cuore.
— Signora, signora, per carità si calmi, — disse la cameriera con accento supplichevole, inginocchiandosi sul tappeto, vicino a lei.
— Ah! soffro tanto... non ne posso più, vorrei morire.
— Non dica così... ah! se potessi trovare un mezzo per consolarla... ma non so che volerle bene... offrirle la mia povera vita...
— Buona Clarina, sei sempre tu quella che mi rende la forza che sta per mancarmi: che Dio ti benedica.
Discorsero a lungo e quando la cameriera la lasciò, Adriana sembrava più calma. Ma era di una pallidezza cadaverica, i suoi occhi brillavano nelle orbite affossate, i capelli le cadevano in disordine sulle spalle.
Passò il giorno chiusa in camera. Suo marito si era allontanato dalla villa col suo domestico.
Scese la notte. Una soave tranquillità regnava nella natura: migliaia di stelle scintillavano nel cielo, i zeffiri scherzavano dolcemente tra le piante asportandone i profumi.
Adriana discese in giardino, e andò a sedersi sopra una rustica panchetta, seminascosta da un cespuglio di rose. Respirava più liberamente, i suoi pensieri avevano subito una trasformazione: erano meno amari, eccitanti, dolorosi. La calma di quella notte serena, passava nella sua anima.
Ad un tratto sentì stridere la ghiaia del giardino: sembrava che qualcuno si avanzasse con precauzione.
Sebbene la giovine donna non conoscesse la paura, di un balzo fu in piedi. Era forse suo marito che tornava? Ma non aveva sentito lo strepito del calesse, lo scrocchiare della frusta.
Stette in attese, pronta a nascondersi se qualcuno si fosse avvicinato. Non tardò a vedere un’ombra scivolare in mezzo alle piante e quando fu a pochi passi da lei, poco mancò che Adriana non gettasse un grido. Era una donna.
— Che venite a cercar qui? — chiese mostrandosi.
L’altra invece di rispondere, esclamò con una specie di trasporto...
— Voi... voi signora! Ah! come ringrazio Dio, che mi permette di parlarvi, prima di punire quel miserabile.
Ai primo suono di quella voce, Adriana trasalì, poi avendo potuto osservar meglio i lineamenti della donna che le parlava, indietreggiò con disgusto ed orrore...
— Maria la guantaia!
— Sì, Maria, una povera vittima come voi signora, di un uomo senza cuore, senza coscienza...
— Che intendete dire? Forse il vostro amante vi ha abbandonata e venite a lamentarvene con me?
Scoppiò in una risata stridente, convulsa, che parve uno schianto del cuore...
— Non giudicatemi così male, signora: Gabriele Terzi, l’uomo da voi amato, non è mai stato mio amante, ve lo giuro: un altro aveva preso il suo nome per sedurmi, mentre ingannava voi stessa: degnatevi ascoltarmi e vedrete a quale infernale seduzione abbiamo dovuto entrambe soccombere.
Adriana era divenuta pallidissima: la sua testa si smarriva. Afferrato un braccio di Maria, chiese con voce ansante, oppressa:
— L’infame, il miserabile è stato mio marito, eh?
— Sì...
— Ah! venite... ditemi tutto, — aggiunse traendo la bella guantaia sulla panchetta, dove poco prima si era abbandonata a soavi fantasticherie.
Maria le disse tutta la sua triste storia, le rivelò la scoperta fatta, riversò tutte le angoscie del suo cuore, nel cuore straziato di Adriana.
Entrambe erano in preda ad una violente emozione. Eppure in mezzo al suo atroce dolore, la contessina provava qualche cosa d’indefinibile, di stranamente dolce.
Gabriele era innocente, sempre degno di lei, del suo amore!
Ah! in quel momento comprendeva perchè non le era riuscita vincere il suo disgusto, il suo odio per Diego; capiva perchè al contatto di lui, tutto il suo essere si ribellava.
— Mi giurate Maria che quanto mi avete detto è la verità?
— Ve lo giuro e il signor Terzi potrà confermarvi che non ho mentito...
Adriana non si era ancora riavuta dallo sbalordimento cagionatele da queste parole, che Gabriele era ai suoi piedi...
Maria si alzò, ritirandosi di qualche passo per lasciar liberi i due giovani di spiegarsi. Ma nè l’uno, nè l’altra fu in grado per qualche momento di pronunziare parola...
Si tenevano stretti stretti per la mano, si guardavano muti, sospesi in un’onnipossente ebbrezza, dimenticando le sofferenze passate, l’infame tranello stato loro teso.
Un sospiro profondo della bella guantaia li strappò a quell’estasi.
— Credi tu adesso alla mia innocenza Adriana? — sussurrò Gabriele, fissandola con uno sguardo pieno d’amore.
Gli occhi della giovine donna ebbero un luccicore straordinario...
— Sì, vi credo — esclamò — ma voglio che quel miserabile stesso confessi; ah! vedi quando avrò strappata dalla sua bocca la verità, dal suo viso quella maschera d’ipocrisia, ti giuro che lascierò tosto questa casa per raggiungerti... Ma ora, se mi ami, devi ripartire, tornare a Milano ad attendermi, per non dare alcun pretesto a quel vile di mancarmi di rispetto... Se ti trovasse qui, essendo egli di fronte alla legge mio marito, noi soli saremmo i colpevoli e le vittime.
La voce le mancava: un’emozione dolorosa l’assalse, le velò gli occhi di lacrime.
Gabriele le cinse con le braccia la vita e traendola dolcemente a sè, le disse con voce tenue come un sospiro:
— Adriana non piangere, non affannarti: io sono tuo per amarti, ed obbedirti: ripartirò...
— Grazie, amico mio... grazie.
Si scambiarono uno di quei baci lunghi, soavi, che sembrano voler assorbire la vita; poi il giovane balzò in piedi.
Maria si era avvicinata...
— Io rimango qui — disse con un sussulto convulso — perchè quando la signora si sarà spiegata con suo marito, sarò io che gli parlerò.
— Siete nel vostro diritto, nè ve lo contendo — rispose con dolcezza Adriana — venite Maria, venite con me: a rivederci Gabriele...
Fece un passo per allontanarsi, ma in quel momento si udì un lontano rumore di sonagliere...
— È lui che torna — disse vivamente Adriana — Gabriele... non avete più tempo a ritirarvi, rimanete qui nascosto...
E prendendo una mano di Maria, la trasse seco, aggiungendo:
— Rientriamo subito, non vi è un minuto da perdere...
Maria la seguì senza dire una parola, ma se Adriana avesse guardato il suo volto, sarebbe rimasta atterrita, tanto ne era terribile l’espressione, tanto esprimeva la collera, il dolore, la disperazione!