La società dello spettacolo/Capitolo V
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Traduzione dal francese di Pasquale Stanziale (XX secolo)
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"Oh gentiluomini, la vita è breve... Se viviamo, viviamo per camminare sulla testa dei re." Shakespeare, Enrico V.
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L'uomo, «l'essere negativo che è unicamente nella misura in cui sopprime l'Essere» è identico al tempo. L'appropriazione da parte dell'uomo della propria natura è anche il suo appropriarsi del dispiegarsi dell'universo. «La storia è essa stessa parte reale della storia naturale, della trasformazione della natura nell'uomo» (Marx). Al contrario, questa «storia naturale» non ha altra esistenza effettiva che attraverso il processo di una storia umana, della sola parte che ritrova questo tutto storico, come il telescopio moderno la cui portata raggiunge nel tempo la fuga delle nebulose alla periferia dell'universo. La storia è sempre esistita, ma non sempre in forma storica. La temporalizzazione dell'uomo, come si effettua attraverso la mediazione di una società, è uguale a un'umanizzazione del tempo, li movimento incosciente del tempo si manifesta e diventa vero nella coscienza storica.
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Il movimento propriamente storico, sebbene ancora nascosto, inizia nella lenta e impercettibile formazione della «natura reale dell'uomo», questa «natura che nasce nella storia umana nell'atto generatore della società umana», ma la società che è arrivata allora a padroneggiare una tecnica e un linguaggio, se essa è già il prodotto della propria storia, non ha coscienza che di un presente perpetuo. Ogni conoscenza, limitata alla memoria dei più anziani, vi è sempre portata da viventi. Né la morte né la procreazione sono comprese come una legge del tempo. Il tempo resta immobile, come uno spazio chiuso. Quando una società più complessa viene a prendere coscienza del tempo, il suo lavoro è piuttosto quello di negarlo, perché essa vede nel tempo non ciò che passa, ma ciò che ritorna. La società statica organizza il tempo secondo la propria esperienza immediata della natura, sul modello del tempo ciclico.
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Il tempo ciclico è già dominante nell'esperienza dei popoli nomadi, perché sono le stesse condizioni che essi ritrovano ad ogni momento del loro passaggio: Hegel nota che «l'errare dei nomadi è soltanto formale, perché è limitato a degli spazi uniformi». La società che, fissandosi localmente, dà allo spazio un contenuto mediante la strutturazione di luoghi individualizzati, si trova in tal modo imprigionata all'interno di questa localizzazione. Il ritorno temporale in simili luoghi è ora il puro ritorno del tempo nello stesso luogo, la ripetizione di una serie di gesti. Il passaggio dal nomadismo pastorale all'agricoltura sedentaria e la fine della libertà pigra e senza contenuto, l'inizio della fatica e del lavoro. Il modo di produzione agricolo in generale, dominato dal ritmo delle stagioni, è la base del tempo ciclico pienamente costituito. L'eternità gli è interiore: è, in tale ambito, il ritorno dell'identico. Il mito è la costruzione unitaria del pensiero che garantisce tutto l'ordine cosmico attorno all'ordine che questa società ha già di fatto realizzato entro le proprie frontiere.
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L'appropriazione sociale del tempo, la produzione dell'uomo mediante il lavoro umano, si sviluppano in una società divisa in classi. Il potere che si e costituito al di sopra della penuria della società del tempo ciclico, la classe che organizza questo lavoro sociale e si appropria del suo plusvalore limitato, si appropria ugualmente del plusvalore temporale della sua organizzazione del tempo sociale: essa possiede per sé stessa soltanto il tempo irreversibile del vivente. La sola ricchezza che può esistere concentrata nel settore del potere per essere materialmente spesa in una festa sontuosa, si trova anche spesa come dilapidazione di un tempo storico della superficie della società. I proprietari del plusvalore storico detengono la conoscenza e il godimento degli avvenimenti vissuti. Questo tempo, separato dall'organizzazione collettiva del tempo che predomina con la produzione ripetitiva della base della vita sociale, scorre al di sopra della propria comunità statica. E' il tempo dell'avventura e della guerra, in cui i padroni della società ciclica vivono la loro storia personale; ed è ugualmente il tempo che appare nell'urto fra comunità straniere, la crisi dell'ordine immutabile della società. La storia sopraggiunge dunque davanti agli uomini come un fattore estraneo, come ciò che non hanno voluto e contro cui si credevano al riparo. Ma per questa via, ritorna indirettamente anche l'inquietudine negativa dell'umano, che era stata all'origine stessa di tutto lo sviluppo che si era addormentato.
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Il tempo ciclico è in se stesso il tempo senza conflitto. Ma il conflitto è ben presente in quest'infanzia del tempo: la storia lotta inizialmente per essere la storia nell'attività pratica dei padroni. Questa storia crea superficialmente dell'irreversibile; il suo movimento costituisce il tempo stesso che esso esaurisce, all'interno del tempo inesauribile della società ciclica.
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Le «società fredde» sono quelle che hanno rallentato al massimo la loro parte di storia; che hanno mantenuto in un costante equilibrio la loro opposizione all'ambiente naturale e umano, e le loro opposizioni interne. Se l'estrema diversità delle istituzioni costituite a questo fine testimonia della plasticità dell'autocreazione della natura umana, questa testimonianza appare evidentemente solo per l'osservatore esterno, all'etnologo venuto dal tempo storico. In ognuna di queste società, una strutturazione definitiva ha escluso il cambiamento. Il conformismo assoluto delle pratiche sociali esistenti, con le quali si trovano per sempre identificate tutte le possibilità umane, non ha altro limite esterno che quello della paura di ricadere nell'animalità senza forma. Qui, per restare nell'umano, gli uomini devono rimanere se stessi.
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La nascita del potere politico, che sembra essere in relazione con le ultime grandi rivoluzioni della tecnica - come la fusione del ferro, alle soglie di un periodo che non conoscerà più sconvolgimenti in profondità fino all'apparire dell'industria - è anche il momento nel quale incominciano a dissolversi i legami di consanguineità. Da quel momento, la successione delle generazioni esce dalla sfera del puro ciclo naturale per divenire avvenimento orientato, successione di poteri. Il tempo irreversibile è il tempo di colui che regna; e le dinastie sono la sua prima misura. La scrittura è la sua arma. Nella scrittura, il linguaggio raggiunge la sua piena realtà indipendente di mediazione fra le coscienze. Ma questa indipendenza è identica all'indipendenza generale del potere separato, come mediazione che costituisce la società. Con la scrittura compare una coscienza che non è più contenuta e trasmessa nella relazione immediata dei viventi: una memoria impersonale, che è quella dell'amministrazione della società. «Gli scritti sono i pensieri dello Stato; gli archivi la sua memoria» (Novalis).
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La cronaca è l'espressione del tempo irreversibile del potere, e anche lo strumento che mantiene la progressione volontaristica di questo tempo a partire dal suo tracciato precedente, perché questo orientamento del tempo deve fondersi con la forza di ogni potere particolare e ricadere nell'oblio indifferente del tempo ciclico conosciuto dalle masse contadine che, nel crollo degli imperi e delle loro cronologie, non cambiano mai. I possessori della storia hanno introdotto nel tempo un senso: una direzione che è anche un significato. Ma questa storia si svolge e soccombe a parte; essa lascia immutabile la società profonda, perché è propriamente ciò che rimane separato dalla realtà comune. E' il motivo per cui la storia degli imperi d'Oriente si riduce per noi alla storia delle religioni: queste cronologie ricadute in rovina non hanno lasciato che la storia apparentemente autonoma dalle illusioni che le avviluppavano. I padroni che detengono la proprietà privata della storia, sotto la protezione del mito, la detengono essi stessi anzitutto nella forma dell'illusione. In Cina e in Egitto hanno avuto a lungo il monopolio dell'immortalità dell'anima: come le loro prime dinastie riconosciute sono l'ordinamento immaginario del passato. Ma questo illusorio possesso dei padroni è anche tutto il possesso possibile, al momento, di una storia comune e insieme della loro propria storia. L'estensione del loro potere storico effettivo procede insieme a una volgarizzazione del possesso mitico illusorio. Tutto ciò deriva dal semplice fatto che è solo nella misura in cui i padroni si sono incaricati di garantire miticamente la permanenza del tempo ciclico, come nei riti stagionali degli imperatori cinesi, che se ne sono essi stessi relativamente affrancati.
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Affinché la secca cronologia senza spiegazioni del potere divinizzato, che parla ai suoi servitori, cronologia che non vuole essere compresa se non come esecuzione terrena dei comandamenti del mito, possa essere superata e divenire storia cosciente, è necessario che la partecipazione reale alla storia sia stata vissuta da gruppi estesi. Da questa comunicazione pratica fra coloro che si sono riconosciuti come i possessori di un presente singolare, che hanno provato la ricchezza qualitativa degli avvenimenti come attività propria e luogo proprio in cui vivevano - la loro epoca - nasce il linguaggio generale della comunicazione storica. Coloro per i quali il tempo irreversibile è esistito vi scoprono insieme il memorabile e la minaccia dell'oblio: «Erodoto di Alicarnasso presenta qui i risultati della sua inchiesta, affinché il tempo non elimini le opere degli uomini...».
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Il ragionamento sulla storia è, inseparabilmente, ragionamento sul potere. La Grecia è individuabile come un momento in cui il potere e il suo cambiamento si discutono e si capiscono, la democrazia dei padroni della società. Là vi era l'opposto delle condizioni conosciute dallo Stato dispotico, in cui il potere non regola mai i conti con se stesso, nell'inaccessibile oscurità del suo punto più concentrato: con la rivoluzione di palazzo, che la riuscita o il fallimento mettono ugualmente fuori discussione. Tuttavia, il potere condiviso delle comunità greche non esisteva che nella spesa di una vita sociale, la cui produzione rimaneva separata e statica nella classe servile. Solo coloro che non lavorano vivono. Nella divisione delle comunità greche, e nella lotta per lo sfruttamento delle città straniere, era esteriorizzato il principio della separazione, che fondava interiormente ognuna di esse. La Grecia, che aveva sognato la storia universale, non giunse a unirsi di fronte all'invasione; e neanche a unificare i calendari delle proprie città indipendenti. in Grecia il tempo storico è divenuto cosciente, ma non ancora cosciente di se stesso.
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Dopo la scomparsa delle condizioni localmente favorevoli che avevano conosciuto le comunità greche, la regressione del pensiero storico occidentale non è stata accompagnata da una ricostituzione delle antiche organizzazioni mitiche. Nell'urto dei popoli del Mediterraneo, nella formazione e nel crollo dello Stato romano, sono comparse delle religioni semistoriche che sono diventate dei fattori fondamentali della nuova coscienza del tempo e la nuova armatura del potere separato.
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Le religioni monoteistiche sono state un compromesso fra il mito e la storia, fra il tempo ciclico dominante ancora la produzione e il tempo irreversibile in cui si affrontano e si ricompongono i popoli. Le religioni originate dal giudaismo costituiscono la riconoscenza universale astratta del tempo irreversibile che si trova democratizzato, aperto a tutti, ma nell'illusione. Il tempo è orientato interamente verso un solo avvenimento finale: «Il regno di Dio è vicino». Queste religioni sono nate sul terreno della storia e vi si sono stabilite. Ma là esse si mantengono ancora in opposizione radicale alla storia. La religione semistorica definisce un punto di partenza qualitativo nel tempo, la nascita del Cristo, la fuga di Maometto, ma il suo tempo irreversibile - introducendo un'accumulazione effettiva che potrà prendere nell'Islam la forma di una conquista o nel cristianesimo della Riforma quella di una crescita del capitale - viene ad essere di fatto invertito nel pensiero religioso come un conto alla rovescia: l'attesa, nel tempo che diminuisce, dell'accesso all'altro vero mondo, l'attesa del Giudizio finale. L'eternità è uscita dal tempo ciclico. E' il suo al-di-là. E' l'elemento che sminuisce l'irreversibilità del tempo, che sopprime la storia nella storia stessa, ponendosi, come puro elemento puntuale in cui il tempo ciclico è rientrato e si è abolito, dall'altro lato del tempo irreversibile. Bossuet dirà ancora: «E per mezzo del tempo che passa, noi entriamo nell'eternità che non passa».
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Il Medioevo, questo mondo mitico incompiuto che aveva la sua perfezione al di fuori di se stesso, è il momento in cui il tempo ciclico, che regola ancora la parte principale della produzione, è veramente eroso dalla storia. Una certa temporalità irreversibile è riconosciuta individualmente a tutti, nella successione delle età della vita, nella vita considerata come un viaggio, un passaggio senza ritorno in un mondo il cui senso è altrove: il pellegrino è l'uomo che esce da questo tempo ciclico per essere effettivamente il viaggiatore che segnatamente ognuno è. La vita storica personale trova sempre la propria realizzazione nella sfera del potere, nella partecipazione alle lotte condotte dal potere e alle lotte per la contesa del potere; ma il tempo irreversibile del potere è diviso all'infinito, sotto l'unificazione generale del tempo orientato dell'era cristiana, in un mondo della fiducia armata, dove il gioco dei padroni ruota attorno alla fedeltà e alla contestazione della fedeltà dovuta. Questa società feudale, nata dall'incontro fra «la struttura organizzativa dell'esercito conquistatore così com'è andata sviluppandosi durante la conquista» e «le forze produttive trovate nei paesi conquistati» (L'ideologia tedesca) - e bisogna comprendere nell'organizzazione di queste forze produttive il loro linguaggio religioso - ha diviso il dominio della società fra la Chiesa e il potere statale, questo a sua volta suddiviso nelle complesse relazioni di sovranità e di vassallaggio delle amministrazioni territoriali e dei comuni urbani. In questa diversità della vita storica possibile, il tempo irreversibile che inconsciamente s'imponeva nella società profonda, il tempo vissuto dalla borghesia nella produzione delle merci, nella fondazione e l'espansione delle città, nella scoperta commerciale della Terra - la sperimentazione pratica che distrugge per sempre ogni Organizzazione mitica del cosmo - si rivelò lentamente come il lavoro sconosciuto dell'epoca, quando la grande impresa storica ufficiale di questo mondo fallì con le Crociate.
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Col declino del Medioevo, il tempo irreversibile che pervade la società è recepito, dalla coscienza legata all'antico ordine, sotto forma di un'ossessione della morte. E' la malinconia della dissoluzione di un mondo, l'ultimo in cui la sicurezza del mito equilibrava ancora la storia; e per questa malinconia ogni cosa terrestre si avvia soltanto verso la sua corruzione. Le grandi rivolte dei contadini europei sono anche il loro tentativo di risposta alla storia che li strappava violentemente al sonno patriarcale, che aveva garantito la tutela feudale. E' l'utopia millenaristica della realizzazione terrestre del paradiso, in cui ritorna in primo piano ciò che era all'origine della religione semistorica, quando le comunità cristiane, come il messianesimo giudaico da cui esse provenivano - risposte ai disordini e alla sofferenza del tempo - attendevano l'imminente realizzazione del regno di Dio e aggiungevano un fattore d'inquietudine e di sovversione nella società antica, li Cristianesimo venuto a partecipare al potere nell'impero aveva smentito a suo tempo, come semplice superstizione, ciò che sussisteva di questa speranza: questo è il senso dell'affermazione agostiniana, archetipo di tutti i satisfecit dell'ideologia moderna, secondo la quale la Chiesa instaurata era già da molto tempo quel regno di cui si era parlato. La rivolta sociale della classe contadina millenaristica si definisce anzitutto naturalmente come una volontà di distruzione della Chiesa. Ma il millenarismo si esplica nel mondo storico e non sul terreno del mito. Non sono le speranze rivoluzionarie moderne, come crede di mostrare Norman Cohn in La poursuite du Millenium 1, ad essere degli strascichi irrazionali della passione religiosa del millenarismo. Al contrario, è il millenarismo, lotta di classe rivoluzionaria parlante per l'ultima volta la lingua della religione, ad essere già una tendenza rivoluzionaria moderna, alla quale manca ancora la coscienza di non essere che storica. I millenaristi dovevano perdere perché non potevano riconoscere la rivoluzione come operazione propria. Il fatto che essi aspettavano per agire un segno esterno della decisione di Dio è la traduzione in pensiero di una pratica in cui i contadini insorti seguono dei capi presi al di fuori di loro stessi. La classe contadina non poteva raggiungere una giusta coscienza del funzionamento della società, e del modo di condurre la propria lotta: è perché essa mancava di queste condizioni d'unità nella sua azione e nella sua coscienza, che essa espresse il proprio progetto e condusse le proprie guerre secondo le rappresentazioni del paradiso terrestre.
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Il nuovo possesso della vita storica, il Rinascimento che trova nell'Antichità il suo passato e il suo diritto, porta in essa la rottura gioiosa con l'eternità. Il suo tempo irreversibile è quello dell'accumulazione infinita delle conoscenze, e la coscienza storica derivata dall'esperienza delle comunità democratiche e delle forze che le insidiano, può riprendere con Machiavelli il ragionamento sul potere desacralizzato, dirà l'indicibile dello Stato. Nella vita esuberante delle città italiane, nell'arte delle feste, la vita si conosce come un godimento del passaggio del tempo. Ma questo godimento del passaggio doveva essere esso stesso passeggero. La canzone di Lorenzo de' Medici, che Burckhardt considera come l'espressione dello «spirito stesso del Rinascimento», è l'elogio che questa fragile festa della storia ha pronunciato su se stessa: «Com'è bella giovinezza/che si fugge tuttavia».
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Il costante movimento di monopolizzazione della vita storica da parte dello Stato della monarchia assoluta, forma di transizione verso il completo dominio della classe borghese, fa apparire nella sua verità cosa sia il nuovo tempo irreversibile della borghesia. E' al tempo di lavoro, per la prima volta affrancato dal ciclico, che la borghesia è legata. Il lavoro è divenuto, con la borghesia, lavoro che trasforma le condizioni storiche. La borghesia è la prima classe dominante per la quale il lavoro è un valore. E la borghesia che sopprime ogni privilegio, che non riconosce alcun valore che non derivi dallo sfruttamento del lavoro, ha giustamente identificato col lavoro il proprio valore come classe dominante, e fatto del progresso del lavoro il proprio progresso. La classe che accumula la merce e il capitale modifica continuamente la natura modificando lo stesso lavoro, scatenandone la sua produttività. Ogni vita sociale si è già concentrata nella povertà decorativa della Corte, ornamento della fredda amministrazione statale che culmina nel «mestiere di re»; e ogni particolare libertà storica ha dovuto consentire alla propria morte. La libertà del gioco temporale irreversibile dei feudali si è consumata nelle loro ultime battaglie, perdute con le guerre della Fronda o la sollevazione degli Scozzesi per Carlo-Edoardo. Il mondo ha cambiato di base.
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La vittoria della borghesia è la vittoria del tempo profondamente storico, perché è il tempo della produzione economica che trasforma la società, in permanenza e da cima in fondo. Per tutto il tempo durante il quale la produzione agraria rimane il lavoro principale, il tempo ciclico che resta presente al fondo della società dà vita alle forze coalizzate della tradizione, che freneranno il movimento. Ma il tempo irreversibile dell'economia borghese estirpa queste sopravvivenze su tutta l'estensione della terra. La storia che era apparsa fin qui come il solo movimento degli individui della classe dominante, è dunque scritta come storia di avvenimenti, è adesso compresa come movimento generale, e in questo severo movimento gli individui sono sacrificati. La storia che scopre la propria base nell'economia politica conosce adesso l'esistenza di ciò che era il suo inconscio, ma che tuttavia rimane ancora l'inconscio che essa non può portare alla luce. E' solo questa cieca preistoria, una nuova fatalità che nessuno domina, che l'economia mercantile ha democratizzato.
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La storia che è presente in tutta la profondità della società, tende a perdersi alla superficie. Il trionfo del tempo irreversibile è anche la sua metamorfosi in tempo delle cose, perché l'arma della sua vittoria è stata proprio la produzione in serie degli oggetti, secondo le leggi della merce. Il prodotto principale che lo sviluppo economico ha fatto passare dalla lussuosa rarità al consumo corrente è dunque la storia, ma solo in quanto storia del movimento astratto delle cose che domina ogni uso qualitativo della vita. Mentre il tempo ciclico anteriore aveva sopportato una parte crescente di tempo storico vissuto da individui e gruppi, il dominio del tempo irreversibile della produzione tende ad eliminare socialmente questo tempo vissuto.
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Così la borghesia ha fatto conoscere e ha imposto alla società un tempo storico irreversibile, ma gliene rifiuta l'uso. «C'è stata una storia, ma ora non c'è più», perché la classe dei possessori dell'economia, che non può rompere con la storia economica, deve anche reprimere come una minaccia immediata ogni altro impiego irreversibile del tempo. La classe dominante, fatta di specialisti del possesso delle cose, che sono essi stessi, per questo, una proprietà delle cose, deve legare la propria sorte al mantenimento di questa storia reificata, al permanere di una nuova immobilità nella storia. Per la prima volta il lavoratore, alla base della società, non è materialmente estraneo alla storia, perché è ora mediante la propria base che la società si muove irreversibilmente. Nella rivendicazione di vivere il tempo storico che egli produce, il proletariato trova il semplice centro indimenticabile del proprio progetto rivoluzionario; e ognuno dei tentativi fin qui falliti, di porre in atto questo progetto, segna un possibile punto di partenza della nuova vita storica.
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Il tempo irreversibile della borghesia padrona del potere si è dapprima presentato sotto il suo nome, come un'origine assoluta, l'anno Primo della Repubblica. Ma l'ideologia rivoluzionaria della libertà generale che aveva abbattuto gli ultimi resti dell'organizzazione mitica dei valori e ogni regolamentazione tradizionale della società, lasciava già intravvedere la sua reale volontà, che essa aveva vestito alla romana: la libertà di commercio generalizzata. La società della merce, scoprendo allora che doveva ricostruire la passività, che aveva dovuto mettere in discussione sin dalle fondamenta per istituire il proprio puro regno, «trova nel Cristianesimo col suo culto dell'uomo astratto... il complemento religioso più conveniente» (Il Capitale). La borghesia ha concluso allora con questa religione un compromesso che si esprime anche nella presentazione del tempo: abbandonato il proprio calendario, il tempo irreversibile è tornato a modellarsi sull'era cristiana di cui continua la successione.
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Con lo sviluppo del capitalismo, il tempo irreversibile è mondialmente unificato. La storia universale diviene una realtà, perché il mondo intero è raccolto sotto lo sviluppo di questo tempo. Ma questa storia che è la stessa contemporaneamente dappertutto, non è ancora che il rifiuto infrastorico della storia. E' il tempo della produzione economica, ritagliata in frammenti astratti uguali, che si manifesta su tutto il pianeta come lo stesso giorno. Il tempo irreversibile unificato è quello del mercato mondiale, corollario dello spettacolo mondiale.
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Il tempo irreversibile della produzione è anzitutto la misura delle merci. Così dunque il tempo che si afferma ufficialmente nello spazio mondiale come il tempo generale della società, manifestando solo gli interessi specializzati che lo costituiscono, non è che un tempo particolare.
Note
- ↑ N. Cohn, The Pursuit of the Millennium. Revolutionary millenarians and mystical anarchists of the Middle Ages, London 1957 (ed. rivista, 1970) [n.d.r.]