La rivincita di Yanez/Capitolo XVIII - L'arrivo dei montanari

Capitolo XVIII - L’arrivo dei montanari

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Capitolo XVIII - L’arrivo dei montanari
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Capitolo XVIII.
L’arrivo dei montanari.


I banditi, furibondi per non aver potuto prendere quei quattro uomini che da tanti giorni inseguivano attraverso alle jungle ed ai pantani, sfogavano la loro ira con frequenti scariche, le quali per altro non potevano ottenere nessun successo. Solamente la cupola a poco a poco se ne andava poiché le palle l’attraversavano in gran numero, portando via dei pezzi interi di rame.

Ma le salde muraglie dei costruttori mongoli non si sgretolavano, quindi gli assediati, protetti dalla pesante porta di bronzo barricata con tre grosse spranghe di ferro, potevano aspettare tranquilli, e non si occupavano quasi piú degli assedianti.

Un gran fracasso regnava intanto intorno alla torre. I banditi, decisi questa volta di prendere o vivi o morti quegli inafferrabili avversari, continuavano a sparare, mirando specialmente alla veranda e alla cupola.

Delle palle entravano anche attraverso le strette feritoie e andavano a conficcarsi nell’opposta parete.

Era già mezzogiorno e piú di tre o quattrocento colpi di carabina erano stati sparati, ora isolati, ora a salve, eppure non pareva che quei testardi si fossero persuasi dell’impossibilità dell’impresa.

Rimaneva l’assedio, e con l’assedio lo spavento del povero rajaputo, il quale guardava malinconicamente i mhowah già ridotti a quel tanto che avrebbe potuto servire per una o due giornate tutt’al piú.

Verso l’una il fuoco fu sospeso, ed il capo della banda, passando dietro i grossi tronchi per non prendersi una fucilata, giunse a venti passi dalla porta di bronzo.

Era un bandito d’aspetto imponente, barbuto quanto il rajaputo, ed armato di carabina, di pistole a due colpi e di tarwar.

Si mostrò un momento, poi si ricacciò dentro la macchia dei mhowah tirandosi dietro il suo cavallo slombato.

La sua voce tuonò:

— Ogni difesa è inutile! Ormai siete nelle nostre mani. Arrendetevi una buona volta!

— Chi lo dice? — rispose Kammamuri, il quale si era trascinato fino sulla veranda.

— Voi non uscirete vivi.

— Tu credi di prenderci per fame, ma t’inganni: abbiamo viveri per due mesi, e tanto riso da fare del carri eccellente.

— È impossibile! — gridò il capo della banda. — Voi cercate di guadagnare tempo, contando forse su un aiuto del Maharajah.

— Ma no, ma no, amico. Non è il principe bianco che noi aspettiamo e che da un momento all’altro può giungere qui alla testa di dieci o quindici mila montanari. È Khampur, il vecchio orso della montagna, il protettore della rhani.

Il bandito lanciò tre o quattro imprecazioni, poi ripeté:

— Vi arrendete, sí o no?

— No, aspettiamo Khampur e la bellissima rhani. Quella gente vi farà correre fino al campo di Sindhia colle lance alle reni.

— Tu menti: nessun montanaro è piú disceso dopo che la rhani si è rifugiata fra le montagne di Sadhja.

— Ed il Maharajah che cosa fa?

— È stato preso tre giorni fa insieme col principe bruno che ha portato quelle terribili armi.

— A chi la dai a bere, amico?

— Te lo dico io, e basta.

— La parola d’un bandito! Ah ah! Sindhia non ha ancora veduto il principe bianco e nemmeno quello bruno; te lo assicuro io. Quegli uomini sono capaci di gettare a gambe levate tutti i paria, i fakiri, i bramini e i banditi, anche se sono in pochi. Ma voi dovete aver fame. Volete un sacco di riso? Ne abbiamo sette.

— Sarai tanto generoso? — chiese il bandito uscendo dalla macchia colla carabina armata.

— Non offriresti tu una coscia di qualcuno dei tuoi cavalli, che ormai sono sfiniti, a noi che non abbiamo nessuna specie di carne?

— Io no! — rispose il bandito.

— Io invece, piú generoso, ti farò un regalo. Abbiamo, come ti ho detto, anche troppa abbondanza di viveri.

— Gettami il sacco di riso. I miei uomini sono affamati, e a loro piace poco o punto la carne di cavallo.

Si era novamente avanzato fino a venti passi dalla porta di bronzo.

Kammamuri sapeva ormai e da tempo che l’aveva da fare con banditi pronti a qualunque sbaraglio e capaci di qualunque tradimento. Lo sorvegliava attentamente, tutto allungato sulla veranda, colla carabina armata e pronta.

— Getta dunque! — gridò il capo. — Abbiamo fame di riso.

— Eccolo! — gridò il maharatto, balzando rapidamente in piedi. — Questo riso sarà un po’ duro, ma non ne abbiamo nessuna colpa noi.

Il capo, temendo a sua volta un tradimento, aveva cercato di rifugiarsi nella macchia dei mhowah, dove lo aspettavano i compagni, ma la palla del vecchio cacciatore lo raggiunse in tempo e lo stese a terra fulminato, alla base d’un grosso albero.

Dieci o quindici colpi di carabina echeggiarono subito, crivellando novamente la cupola. Ma il maharatto che si aspettava quella sorpresa si era lasciato subito cadere sull’impiantito della veranda, abbastanza grosso per arrestare le palle.

— E due! — disse il rajaputo, mentre i banditi continuavano a sparare sempre piú furiosamente e ad urlare.

— Cosí sono diciotto, se non m’inganno — disse Kammamuri. — Sono ancora troppi, ma delle palle ne ho per tutti.

— Serbale per questa sera, sahib.

— Che cosa temi?

— Io sono certo che quegli uomini approfitteranno della nebbia e dell’oscurità per dare la scalata alla torre. Vi sono troppe piante rampicanti molto grosse e resistenti. Vuoi che le tagli?

— Non ancora.

— Vuoi accopparne degli altri?

— Lo spero — rispose Kammamuri. — Se monteranno all’assalto, li precipiteremo nel vuoto. Il tuo tarwar è sempre affilatissimo?

— Taglia come una scimitarra di Damasco. Quando me lo dirai, le piante cadranno recise insieme cogli assalitori.

— Ed io che non vi posso aiutare! — disse Timul. — Che cosa ne faccio di queste due pistole scariche?

— Le romperai sulla testa di qualcuno — rispose Kammamuri. — Vi sarà lavoro per tutti.

— Fuorché per il gurú — disse il rajaputo. — Ha succhiato fiori fino a poco fa, ed ora è addormentato placidamente.

— Lascialo russare: già, non ci servirebbe a nulla. È troppo vecchio.

Mentre chiacchieravano, i banditi non cessavano di sparare e di urlare. Parevano furibondi per la morte del loro capo, che valeva forse piú del padrone dello stallone.

Nuvole di fumo si alzavano al di sopra delle piante, ed i colpi si succedevano ai colpi sempre con lo stesso risultato.

Kammamuri ed il rajaputo spararono a casaccio alcuni colpi, ma essendo il bosco di mhowah troppo folto, non potevano accertarsi della giustezza dei loro tiri.

Tuttavia i banditi non osavano avanzarsi. Sparavano sempre di mezzo alle piante senza fare un passo avanti.

— Hanno paura della tua carabina — diceva il rajaputo al maharatto, il quale non mancava di quando in quando di rispondere al formidabile fuoco degli assedianti. — Sanno bene che se mostrano solamente un pezzetto d’orecchio, possono considerarsi perduti, però si tengono alla larga.

— Vorrei vedere solamente i loro turbanti. Ne getterei giú molti in pochi minuti di quegli ostinati banditi rompendo le loro teste come fossero noci di cocco.

— Ti credo, sahib; tuttavia siamo sempre allo stesso punto. Infatti i montanari non giungono, le provviste sono già quasi esaurite poiché il gurú non fa che masticare, e fra poco la notte calerà. Vuoi che tagli le piante rampicanti?

— Ti ho detto di no. Lasciamoli salire — rispose Kammamuri. — Questo attacco me l’aspetto.

— Pensa, sahib, che ho un solo tarwar, e nessuno che mi possa aiutare.

— Ci sarà la mia carabina, amico.

— Aver due pistole e non poterle caricare!... Quel bramino ci ha salvato la vita, ma è stato un grand’asino. Che cosa valgono quattro palle nelle jungle? Doveva lasciarci almeno un po’ di piombo.

— Non avrà avuto il tempo. I banditi non erano lontani, e potevano sorprenderlo e denunciarlo al rajah.

— E che cosa farà quel cane di Sindhia? Che continui ad ubriacarsi o che cerchi d’impadronirsi del Maharajah e della Tigre della Malesia?

— Io credo, amico, che nel suo campo il colera faccia già gran numero di vittime. Il medico olandese sapeva quello che si faceva.

— Allora i due principi saranno sempre trincerati sulla collina.

— Coi loro sikkari ed i tigrotti di Mompracem. Le mitragliatrici ed il colera sono bestie troppo cattive anche per quel pazzo.

— Ed intanto mangeranno gli elefanti.

— Qualcuno l’avranno già certamente divorato.

— Gente fortunata! E noi invece abbiamo solamente dei fiori dopo quasi quattro giorni di digiuno!

— Ti prenderai, a suo tempo, la tua rivincita.

— A suo tempo! Ah, sahib, tu non sai quanta fame ho sofferto e quanta ne soffro ancora! La rivincita vorrei avermela già presa.

— Abbi un po’ di pazienza. Tu sei un forte guerriero, e negli assedî gli assediati devono saper resistere.

— E morire — disse Timul sorridendo.

— Tante volte sí... Oh, infuriano ancora i banditi! Hanno fretta di crivellarci di piombo, ma non otterranno nessun...

S’interruppe e si mise in ascolto. A rischio di prendersi un colpo di carabina, uscí carponi sulla veranda.

— Odo un lontano fragore — mormorò, guardando la grande strada che conduceva alle montagne di Sadhja, e che spiccava bianchissima attraverso le immense jungle che occupano il cuore dell’Assam.

Guardò il sole che tramontava rapidamente, anzi pareva precipitare e scosse la testa.

— Che i banditi ricevano dei soccorsi? — si chiese.

— Che cosa borbotti, sahib? — chiese il rajaputo.

— Dico che attraverso la grande strada galoppano dei cavalieri e molti.

— Io non vedo nulla.

— Non odi questo fragore?

— Che sia la cateratta?

— No — disse Timul, il quale pure si era messo in ascolto. — Sono dei cavalli che si avanzano.

— Da ponente o da oriente? È questo che vorrei sapere.

— Io non posso dirtelo ancora, sahib.

— Se quei cavalieri vengono da levante, potrebbero essere i bravi montanari della rhani. Se vengono invece dall’altra parte, non possono essere che dei banditi — disse Kammamuri.

— Io non posso ancora saperlo, ma mi pare che il fragore si avvicini rapidamente, e fra poco noi sapremo se avremo da fare con degli amici o con dei nuovi nemici.

— Ebbene, aspettiamo.

In quel momento il gurú, che si era trascinato sulla parte opposta della veranda, mandò un grido altissimo:

— Al fuoco! al fuoco!

— Che cosa brucia? — chiese Kammamuri, balzando in piedi.

— Guarda giú, sahib, — rispose il sacerdote.

— Ah, i miserabili! Hanno dato fuoco alle piante parassite che avvinghiano la torre per arrostirci vivi o farci uscir fuori.

— Devo tagliare, sahib? — chiese il rajaputo, impugnando la mezza scimitarra. — Se le fiamme giungono fin quassú, tutta la veranda, che è di legno, crollerà.

— Taglia! taglia! E bada alle palle!

I banditi, approfittando dell’oscurità e della nebbia che ricominciava ad alzarsi, si erano spinti sotto la torre, ed avevano dato fuoco alle piante rampicanti che si spingevano fino alla cupola.

Alcuni erano rimasti nascosti nella macchia dei mhowah, e non avevano cessato di sparare.

Le piante vecchie ed abbastanza secche, si erano subito incendiate crepitando. Strisce di fuoco serpeggiavano intorno alla torre, mentre colonne di fumo si alzavano fino alla cupola.

Il rajaputo, quantunque esposto al fuoco dei banditi rimasti ancora imboscati, si era messo a recidere rabbiosamente i vecchi calamus che si abbarbicavano alla veranda.

Kammamuri intanto aveva ripreso a far fuoco, sparando sempre dentro la macchia dove vedeva balenare i lampi delle fucilate.

Timul e il gurú erano invece scesi a precipizio ed avevano levate due delle tre spranghe che barricavano la porta di bronzo.

Alla base della torre un calore intenso si sviluppava già, e delle lingue di fuoco entravano attraverso le feritoie sibilando.

I quattro disgraziati correvano il pericolo di morire lentamente arrostiti, poiché i calamus continuavano a bruciare con estrema rapidità, spingendo nubi di fumo verso la cima della torre.

Sahib, — disse il rajaputo il quale aveva udito parecchie palle fischiargli agli orecchi — ciò che mi hai ordinato l’ho fatto, ma l’incendio non accenna a scemare. Sono troppo secchi questi calamus.

Kammamuri, che aveva sparato un altro colpo di carabina, sempre sdraiato sulla veranda, guardò il gigante e disse:

— Le cose vanno male, pare.

— Quelle canaglie ci aspettano all’aperto per prenderci tutti.

— Lo so, per Siva! — esclamò il maharatto con voce rauca. — Non potremo resistere a lungo. Questa torre diventerà un forno crematorio, e noi non salveremo nemmeno le ossa.

— Perché non tentiamo un’uscita?

— Quattro contro... mettiamo che ormai i banditi siano quindici, poiché io ne ho colpiti alcuni... ma anche quindici sono sempre troppi.

— Pensa, sahib, che il fuoco continua a salire. Tutta la torre è avvolta dalle fiamme.

— E quel fragore, che abbiamo udito nel momento in cui il sole tramontava, si ode ancora? — chiese il giovane cercatore di piste, comparendo insieme al gurú.

— Pare che tutti quei cavalli si siano arrestati sul margine delle jungle — rispose Kammamuri. — Ma la torre fa piú luce d’un faro, e se quelli sono i montanari della rhani, non mancheranno di accorrere.

— E se fossero invece altri paria o fakiri mandati a chiamare dagli assedianti?

Il maharatto incrociò le braccia sulla carabina che fumava ancora, poi disse con accento di rassegnazione:

— Se Visnú vuole, ci porti pure nel suo paradiso.

— Senza combattimento, sahib? — chiese il rajaputo, il quale era diventato furioso.

— Oh, no! Balzeremo fuori come tigri e scompariremo nella jungla. Ma aspettiamo che i cavalli, che marciavano al cadere delle tenebre, si mostrino.

— Tu credi siano i montanari di Sadhja?

— Ho questa convinzione — rispose il maharatto.

— E se tu t’ingannassi?

— Impegneremo una lotta suprema che già dura da troppi giorni... Che caldo! È impossibile resistere!

— Scendiamo, sahib?

— Giú fa piú caldo che qui — disse il giovane cercatore di piste.

— La porta non si è fusa?

— No, sahib.

In quel momento sulla grande strada, che conduceva alle montagne di Sadhja, si udirono alcune scariche, fitte, serrate. Una grandine di grossi proiettili cadeva sulla torre ardente, tempestando specialmente la cupola che cominciava ad arrossarsi. Kammamuri mandò un grido:

— Son grossi fucili di montanari! Ecco la nostra salvezza che giunge!

— Non sono carabine, sahib? — chiese il rajaputo.

— No, sono i vecchi fucili dei cipai, che il governatore del Bengala, sempre buon negoziante, ha venduto loro. Buone armi cinque o sei anni fa.

Si slanciò sulla veranda e si mise a gridare a gran voce:

— Accorrete in aiuto dei guerrieri del Maharajah. Sospendete il fuoco! Io sono Kammamuri!

La fucileria, che rimbombava fortissima sulla grande strada delle montagne, subito cessò. Poi mentre i banditi di Sindhia non cessavano di sparare si udí una voce tonante gridare:

— Io sono Khampur, capo dei montanari di Sadhja e guido la rhani. Veniamo in tuo soccorso.

Tre o quattrocento cavalieri si slanciarono nella jungla, decimando crudelmente, con poche scariche, i banditi del rajah e giunsero in un momento sotto la torre, la quale ormai minacciava di crollare sotto i morsi delle fiamme.

— Giú! giú! — gridò Kammamuri. — La nostra salvezza ormai è assicurata.

Si precipitarono tutti e quattro giú per le scale, trattenendo il respiro, poiché l’aria era diventata ardente dentro la torre.

Il rajaputo con un colpo di tarwar fece cadere la terza sbarra di ferro che cominciava a diventar rossa, spinse con un poderoso calcio la porta e passò primo attraverso ad una vera cortina di fiamme.

I montanari, dopo aver messo in fuga i pochi banditi, erano prontamente tornati.

Li guidava un vecchio guerriero dalla pelle assai bruna e la barba assai bianca, d’aspetto imponente quanto il rajaputo.

Vestiva come un rajah, e sul turbante larghissimo portava un pennacchio di crini di cavallo bianco, tempestato di diamantini.

— Dov’è Kammamuri, l’amico del Maharajah? — chiese avanzandosi, e facendo caracollare il suo bellissimo cavallo morello.

— Eccomi, Khampur! — gridò il maharatto, il quale era pure riuscito dalla torre ardente insieme al gurú ed al giovane cercatore di piste. — Noi ti dobbiamo la vita.

— Chi vi assediava e tentava di arrostirvi? — chiese il capo.

— Le genti di Sindhia.

— Quelle che noi abbiamo fugate?

— Sí, Khampur, e stavano per prenderci. Dov’è la rhani?

— È sulla strada della montagna insieme a mio figlio, scortata da quindicimila cavalieri risoluti a riconquistare un’altra volta l’Assam. È ora di finirla con quel Sindhia. Ed il Maharajah resiste sempre? Noi abbiamo saputo che si era trincerato su una collina insieme agli uomini venuti dal mare colla Tigre della Malesia.

— Io spero che quei valorosi non si siano ancora arresi.

— Abbiamo pure saputo che il colera è scoppiato negli accampamenti del rajah e che fa strage.

— Quel malanno l’ha scatenato un famoso medico che la Tigre aveva condotto con sé.

— Quanti uomini potrà avere Sindhia?

— Un mese fa ne aveva ventimila, ma ora non credo che ne abbia piú tanti.

— Sono banditi, paria, fakiri e bramini; è vero? Oh, che pessimi combattenti! — disse il vecchio montanaro.

— Avremo da fare i conti anche con un migliaio di rajaputi.

— Siamo in buon numero, e la rhani ed il Maharajah riavranno ancora una volta il loro impero.

Fece scendere a terra quattro uomini, e fece condurre i loro cavalli dinanzi a Kammamuri.

— Montate e seguitemi — disse. — Abbiamo fretta di raggiungere il Maharajah e di dare un’altra e decisiva battaglia a quell’ostinato di Sindhia.

— Ai tuoi ordini, Khampur.

In quel momento la veranda della torre e la cupola, minate dalle fiamme che continuavano a innalzarsi, rovinarono con immenso fragore, sollevando una grossa nuvola di fumo e di scintille.

— Per Siva! — disse il rajaputo aiutando il gurú a montare a cavallo. — Se questi bravi montanari tardavano ancora un po’, a quest’ora eravamo morti e sepolti.

In mezzo alle folte piante si udirono alcuni spari.

— Non è ancora finita? — chiese Khampur, il quale era impaziente di raggiungere la rhani per accorrere poi in aiuto del principe bianco. — Quei banditi avrebbero la pretesa di misurarsi con noi? Che cento uomini si accampino qui ed attendano i miei ordini. Su, partiamo!

Cinquanta cavalieri sbucarono di tra le macchie di mhowah con le carabine ancora fumanti in mano.

— Sono fuggiti o li avete fucilati? — chiese il vecchio montanaro.

— Vi sono dieci o dodici morti, capo, — disse il comandante del drappello. — Gli altri sono riusciti a scapparci, attraversando un canale che poteva essere pericoloso.

— Prendi altri cinquanta uomini e rimani qui — disse Khampur. — Se quei furfanti ritornano, fucilateli come cani arrabbiati. Al galoppo!

I quattrocento cavalieri si misero rapidamente in moto, in file serrate, attraversando l’ultimo lembo della jungla.

Altri cento si erano accampati intorno alla torre, la quale continuava a fiammeggiare, minacciando da un momento all’altro una completa rovina.

I primi dopo dieci minuti raggiunsero la via della montagna, che era ingombra, a perdita d’occhio, di cavalieri d’aspetto imponente, con lunghe barbe, armati di grossi fucili, di pesanti scimitarre e di pistoloni a due canne.

Erano là i quindicimila montanari che Khampur per la seconda volta stava per scatenare contro il rajah pazzo.

Le linee si aprirono facilmente, essendo la via larghissima, ed il capo, Kammamuri ed i loro amici giunsero ben presto là dove si trovava la rhani, la principessa dell’Assam, moglie di Yanez, circondata da cinquanta cavalieri di statura imponente.

— Ah!... Kammamuri! — gridò la bella principessa, la quale montava una candida giumenta, ed indossava un lungo vestito di seta azzurra. — Mi porti finalmente notizie di mio marito?

— Io credo, signora, che resista sempre nei dintorni della capitale insieme con la Tigre e i tigrotti di Mompracem.

— Che non si siano arresi per fame?

— Ma che! Avevano cavalli ed elefanti, e per difendersi le terribili mitragliatrici.

— È vero che nei campi di Sindhia è scoppiato il colera?

— Un amico della Tigre ha portato delle bottiglie che contenevano dei germi terribili, e alcuni dei nostri si sono incaricati di vuotarle intorno alle tende del rajah.

— Ed i miei uomini non cadranno anche loro distrutti dalla terribile epidemia?

— Il signor Sandokan ha ai suoi ordini un famoso tobib che può scatenare ed anche curare rapidamente quel terribile morbo.

La rhani guardò Khampur e suo figlio, un giovanottone saldo come la cima d’una rupe e formidabilmente armato, e fece poi un cenno.

La nebbia in quel momento si era alzata e la luna cominciava a far capolino sopra le jungle. Verso il sud la torre bruciava ancora, cadendo a pezzo a pezzo e continuando a lanciare in aria nembi di scintille e di fumo.

— Quando potremo giungere a Gauhati? — chiese la rhani al maharatto, il quale aveva preso le briglie della bianca giumenta.

— Domani all’alba potremo piombare sulle orde del rajah.

— Sei sicuro che non sono bravi guerrieri?

— Sono banditi piú abituati a maneggiare il coltello e il bastone. Ed il piccolo Soarez?

— L’ho lasciato sulle montagne — rispose la principessa. — È ben guardato, e nessun nemico giungerà lassú.

— Allora si può partire — disse Khampur, il quale frenava a stento il suo cavallo, nero come la notte. — Faremo una sola volata e spazzeremo via i campi di Sindhia, prima che i rajaputi, i soli guerrieri temibili, si preparino ad una vigorosa difesa.

— Via! — gridò la rhani. — Andiamo a salvare il Maharajah e la Tigre della Malesia.

Uno squillo di tromba echeggiò, e allora tutti quei cavalieri si mossero a gran trotto, avviandosi verso la capitale dell’Assam, nei cui dintorni dovevano ancora resistere il Maharajah, Sandokan e le tigri imbrancate coi sikkari, i famosi cacciatori di tigri.