VI. Kelidonio a Glycera ed a Mnasika

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V VII


Voi rimarrete sempre e sempre nella mia memoria. I miei occhi tutt’ora non vedono che voi, non ombre nella lontananza, ma corpi vivi e completi che le mie mani potrebbero toccare. Per quanto le meraviglie del mondo e delle grandi città mi aspettano, non so staccarmi dalla fresca oasi della vostra casa ospitale.

Così a pena giunta, ricevuta come una sorella diletta da Melissarion sento di dover pensare ancora a voi, ed ancora ringraziarvi. Scrivendo ora sono tutta con voi.

I due piccoli ed irsuti cavalli berberi appaiati al carro, d’un balzo hanno preso il galoppo e mi portano via. Volgo la testa indietro ed a voi; oh già quanto lontane; sul canto della via vi scorgo ancora, mentre le ruote tornano e volgono. Le vostre zone come immense ali, l’una aranciata, l’altra bianca, fanno trepidi segni di saluto, si gonfiano, volteggiano e si spiegano, mi mandano le ultime vostre voci, l’ultimo vostro profumo. I cavalli galoppano e mi portano via.

A mezzo giorno il Numida guidatore alza li occhi all’occaso e mi avverte vicino un temporale. Tutto era livido e nero per dove tramonta il sole e le nubi si torcevano e guizzavano come serpenti rabbiosi venendo in su ad inghiottire il sereno del cielo. Poco dopo un nembo di polvere mi avvolgeva e sembrava ch’io volassi tra le nebbie ed i cirri spumosi del Caucaso. Non credo per augurio buono, ma più tosto per l’infausto, sul fischio e sul mugolare del vento, tra la caligine rossigna e pungente della sabbia sollevata e vorticosa, vidi tre tortorelle, spaurite stridendo, passare a cono sopra alla mia testa e dietro uno sparviero a seguirle, battendo l’ali in corsa.

Pensosa del fatto come di un vaticinio, chinava la testa cercando di scifrarne la significazione quando il Numida mi fece animo ed indicandomi una casetta trasparita tra una siepe di mirti ed una ficaja, mi disse che là ci saremmo riposati a scampar la tempesta imminente.

Una giovane donna Demetria che voi conoscete, moglie del gastaldo, si sbracciava sull’aja a raccogliere le galline spaurite: un gran cane rosso, coll’abbajare le rincorreva perché andassero al pollajo: due bambinucci nudi sotto la volta della porta sdrajati dormivano a fianco a fianco, come l’innocenza e l’ignoranza, placidamente, nel terrore e nell’orrore dell’uragano. Qui passammo la notte dopo la cena e mi convennero i rivi stillanti d’acqua e quel grosso uomo del marito di Demetria, velloso come un lupo brontolone e mangiatore, il quale mi guardava di sott’occhio con molta insistenza mettendomi quasi paura ed irritando la moglie. Sembrava seduto in disparte colla ciotola in grembo e gonfiando le gote sbirciando di sotto alle ciglie ispide le pupille come un faunaccio all’agguato: ed in quella attitudine mi ricordò, o care, colui che, fuggendo dal bosco sulla montagna nel mio errore e nelle mie miserie mi ridusse a cercar scampo presso di voi. Per quanto durarono le tenebre di sotto nell’ovile udii belare e ruzzare come i caproni fossero impazziti od odorassero prossimo un branco di lupi. I cavalli nitrivano: ma lo schianto, l’abbarbaglio dei lampi, facevano un gran rumore di battaglia come se tutti i venti si fossero chiamati a convegno colle folgori olimpiche per subissare la terra. Sul tardi mi addormentai.

All’alba sorgemmo dopo un sonno di poche ore, ma greve. Il cielo era limpido come una coppa di cristallo azzurro e l’oro tenue dell’oriente palpitava sull’orlo estremo urgendo e chiamando l’aurora. I cavalli, sotto la scuriada del Numida, scalpitavano sfavillando colle zampe ferrate sui ciotoli ed il carro volse volando.

L’aurora era una soavità: così la vidi rugiadosa e timida tremolare sulle poppe turgide delle colline opposte e scendere sotto nella città in ombra, racchiusa nella valle e che mascherava il porto. Rabbrividì sopra ai frontoni dei templi e sui merli di pietra delle torri, attinse le terrazze delle case che sembravano d’oro e di porpora precipitandosi pei fori e per le vie oscure e ripide. Il carro dalla china scoscesa roteava verso il borgo ancora sonnacchioso tra siepi di tamerici cariche di grappe coralline e di gelsomini fragranti.

Come il sole si riversò sopra la cupola del tempio delle Buone Dee, la brezza gonfiò le sue gote increspando l’aCque della darsena immobile. Già salita sul ponte della nave attendeva che salpassero per il breve viaggio. Sulle gomene stendevano la gran vela rossa e quadra a cui avevano adattato la verga; la tela sbatteva e si inturgidiva gozzuta inegualmente. Poi la nave ondulò e parve scivolare.

L’acqua bruna si apriva alla carena: qua e là galleggiavano una buccia d’arancio svuotato, delle scorze verdi e nere di cocomeri, una carogna di cane.

L’acque gorgogliando fuggivan dietro di noi ricciolandosi di schiuma: e la tenda stirandosi e cigolando sulle carrucole e sull’anello, fu tutta un ventre rotondo, gravido, proteso e sostenuto dall’albero che per lo sforzo scricchiolava. La nave diè un balzo e passò via ratta oltre al piccolo faro di pietra in sulla punta estrema del molo. La terra si allontanava prestamente in un velo bigio, rosato e verde, in un confuso balenare di nebbie e di sole.

Qualcuno sotto il ponte pregava il buon dio del mare ed i gemelli salvatori; un mozzo cantava la canzone della partenza. La brezza più alacre spinse la navicella piegata verso il mare aperto violaceo ed irrequieto.

Per quali ignote avventure questo viaggio?

Per quali significative previsioni e le tre tortorelle fuggenti nel vento lo sparviero, e l’uragano della scorsa notte? E quale sarà la mia sorte? Per noi, bambine d’amore, una grande città ed un piccolo villaggio rappresentano comunque la medesima scena sulla quale si debbono ripetere i medesimi gesti: amore! Quando non sia fatica, e quando il cuore non balzi come in questo momento d’angoscia forse, certo di paurosa aspettazione. Io vado; vado verso qualche cosa che non so; domani all’alba, un’amica nuova, una sconosciuta mi aprirà le braccia nell’accoglienza; ma la vita futura dopo di avermi sorridente accolta, non mi soffocherà tra le sue braccia insensibili e poderose?

Per quali ignorate nozze mi dà felice avviso il coro delle Oceanine e Poseidon che sposò qui sull’onde Amphitrite e che ci accompagnano ridendo e sorridendo sull’acque che bene mi trasportano? Sul mio capo tondeggia la vela come il ventre di una donna pregnante, ottima predestinazione, s’io dò retta al dire del navalestro; ma per me? Eros ed Anteros tra il giorno e la notte tenzonano nel mio cuore e nel mistero, ed io dovrò servire l’uno e l’altro non ancando.

La lucerna per tre lingue di fiamma si rispecchia sui mosaici delle pareti di una cameretta che Melissarion mi ha destinato in casa sua. Tra i fumi lunghi e tenui delle fiamme distinguo i volti vostri che mi interrogano, o Glycera, o Mnasika; e che vorrebbero sapere: ma che so io oggi, in questa ora di notte, per voi? E che so io di me e per me sopra a tutto? Affiso le nostre ombre; le mie mani inerti ricercano presso di me la pupa d’avorio e d’argento, succinta in un mantelletto di jacinto e sdrajata a dormire sul cuscino del lettuccio. Un impeto folle me la fa portare alle labra: oh volto freddo, oh maschera d’argento e d’avorio che non risponde; né le braccine per quanto movibili mi abbracciano!

Per noi bambine d’amore una grande città ed un piccolo villaggio rappresentano comunque la medesima scena che il feroce Eros destina ed apparecchia, corega infaticato ed autocrate.

Amare? Ma se il cuore è gelido come li occhi di zaffiro di questa pupa per i giovani, ed arde come le fiamme di questa lampada per le fantasime? Voi mi rimarrete sempre sempre nella memoria; ora le vostre ombre si sono conturbate e confuse tra i fumi della lucerna. Amatemi quanto io vi amo.