La palermitana/Libro secondo/Canto XVI

Libro secondo - Canto XVI

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[p. 210 modifica] CANTO XVI

Figura della regina Saba, che andò da Salomone.
Li magi entrano ad adorare ed offerire a Cristo.
Febo giá torna a riscaldar quel sole
ch’a noi dá il caldo, il lume, il corso e quanto
donde succresce l’universa prole.
Gioseppe ed io con esso lui, fra tanto
5che la gran Madre al maggior Figlio intende,
da lor ci erámo allontanati alquanto.
Non oziose il giusto l’ore spende,
ché in una sempre verde antica selva
per nutrir noi fa piú cosette e vende,
io Qui ladro alcun né temeraria belva
danneggiar suole, ove con lor armenti
piú d’un bifolco a pecorar s’inselva.
Qui il santo fabro ed io con li strumenti
fabrili ci trovamo; io mal perito
15solo a sgrossar, egli a pulir intenti.
Ma, giunta l’ora, poi, che l’appetito
nativo in noi chiede ristoro ed ésca,
seggiamo al nostro solito convito.
Pane, frutta, radici ed acqua fresca
20delizie sono e splendide vivande:
raro si caccia a noi, raro si pesca.
Qua sempre armenti e gregge in copia grande
vengono al mormorar delle vive acque;
chi l’erbe pasce e frondi e chi le ghiande.
25Benché gennaro sia nevoso, piacque
pur a natura assai per tempo sciòrre
e fronde e fiori ove ’l suo Mastro nacque.
È fra’ pastori alcun nato a comporre
semplici versi, e a querci darli ed olmi,
30e chi li canta e chi ad udirli corre.
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Son ei pastor si di memoria colmi,
eh’infinite ne dicon si soave,
eh’anco da lor esser lontano duoimi.
Quando sott’ombre e quando in pietre cave,
35concordan lor zampogne a voci vive,
sebben né acuto san né tuono grave.
Suoi satiri, sue ninfe ed altre dive
son gli angeli del del, non finti e vani.
Oh misere cittá, che ne son prive!
40Muggiolar vacche in boschi e latrar cani
quant’èssi meglio udir, che in piazze e templi
qua Bartoli gracchiar, lá Pietri ispani !
Chi vuol delle virtú ritrar gli esempli,
virtú native ed entro l’uovo assunte,
45vada fra quei pastori e vi contempli,
vegga lor opre ai documenti giunte,
come son casti, sobri, puri e schietti,
e legga poesie nei faggi punte!
Giá non fuor di ragion fúr essi eletti
50d’appresentarsi al gran presepio soli
e d’ amor riportarne colmi i petti.
Non hanno di Rachel quei buon figliuoli
altro a temer in tanta lor quiete,
che lupo o ladro qualche agnello involi.
55Or dunque noi, sedendo a quelle liete
fercole, udimo al monte voce tale,
ch’obliar ne fe’ lo stimol della sete:
voce d’un angiol, creggio, in pastorale
abito apparso e postosi, s’un ramo
60solo, a cantar, d’un pino al ciel uguale.
Noi, fatti un poco a lui di quel ch’erámo
vicini e occulti piú, per non sturbarlo,
questa canzone ad ascoltar cen stiamo.
— Platani ombrosi e palme, e voi, che il tarlo
65né il tempo offende, cedri, e voi cipressi,
udite il suono che cantando io parlo!

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Volan le trombe, e quinci e quindi i messi
spargon di Salomon le grazie, il senno:
corron a udirlo genti d’ambo i sessi.
70L’alta regina Saba, eh’ad un cenno
corre di sapienza al vivo fiume
(né in quattro etá gli ebrei cotanto fenno),
stupisce al grave aspetto, al bel costume,
al dir soave, al gran consiglio, al senso,
75all’intelletto, all’arte, al vivo acume.
Offregli l’oro come a re che immenso
sta sovra gli altri, e come a sacerdote
ofiregli mirra ed odorato incenso.—
Cosi cantando in leggiadrette note,
80cosa ci apparse che interruppe a lui
la bocca piena, a noi le orecchie vote.
Sferica fiamma e illustre in capo a nui
fece piú giri ed ampie rote; poscia
fermò sopra il presepio i raggi sui.
85Sembianza di gran stella avea, che roscia
fa l’aria intorno come ardesse il foco:
di che mi venne al cor subit’angoscia.
Senza pensarvi suso almen un poco,
lá m’avventai, com’uom che vede a caso
90essersi appreso alla sua stanza il foco.
Era nel bosco il mastro mio rimaso,
ed io, correndo nell’uscirne fuora,
pien d’allegrezza fui, di téma raso,
perché una squadra nobile, ch’onora
Q5 tre re nel mezzo, d’oro e gemme ornati,
veggo gir dove il nuovo Sol dimora.
So che divinamente ivi guidati
fur da quel vivo lume, e, giá discesi
di lor camilli, al Figlio son entrati.
100Córrevi la cittá, ché giá piú mesi
ed anni e lustri e secoli passáro,
che di tanto stupor non mai fúr presi.

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Ma non però dietro ai gran saggi entráro,
ché all’uscio stati le consuete guarde:
105sol i tre re nel vile albergo andáro.
Stanno con ronche, dico, ed alebarde
in sull’entrata del tugurio basso,
che tutto dentro e fuore raggia ed arde.
Io, giunto alfine lá, piú che di passo
110giro alle spalle della nota stanza,
ov’era scuro, e per veder m’abbasso.
M’abbasso curioso, e con baldanza
non so se troppo ardita, ad un forame,
sol per veder quell’inclita raunanza.
115Veggo Madonna, posto giú lo stame,
aver sulle ginocchia tolto il Figlio,
sedendo bassa in candido velame.
Tien vereconda sempre in terra il ciglio,
e il Bambin stassi ardito e fuor di fasce
120in un farsetto del color del giglio.
Io, nondimeno, in non so ch’astio e ambasce
era mirando i re prostrati e chini
toccar il bue, tant’ei vicino pasce!
Ma sciocco me, che gli ordini divini,
125né quanto può lo Spirto, ancor sapea,
ov’egli spiri, ov’egli afflar s’acchini!
Non di tre re tal maestá potea
piegar un piè, non che gittarsi a terra,
s’entro valor di Spirto non movea.
130II buono Dio, che in quel Fantin si serra,
dramma di luce propria in quei vecchioni
al primo entrar e vista lor disserra.
Essi, che, in legge di natura buoni,
disposte avean assai le stanze interne,
135ov’entri quella e d’ombre i cuor sprigioni,
nel porger di lor occhi alle lucerne
che il Fanciullin ha sotto fronte accese,
videro un poco delle gioie eterne.

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Però stan lor persone fuor distese,
140l’anime dentro alzate, e veggon schietto
il perché Dio qui s’ombra in vii arnese.
L’asino, il bove, il ruinoso tetto
a lor son in quel punto un ciel aperto,
né tórsi unque vorrian di tanto aspetto.
145Alfin, siccome a Dio fatt’uomo e a certo
re, sacerdote e che sostien martiro,
salute uni versai, gli ebber offerto
incenso, mirra ed òr: poi se ne giro.