III. Risposta all'opuscolo della signora Elvira Ostacchini

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III. Risposta all'opuscolo della signora Elvira Ostacchini1
II IV


In questa Risposta, la Mozzoni adopera la forma del dialogo, che i propagandisti popolari usavano spesso per diffondere le loro idee. Il tono è volutamente superficiale, ma il carattere piccolo-borghese del filisteismo proudhoniano è colto con chiarezza, e chiara risulta la denuncia del sentimentalismo di facciata, col quale veniva nascosta la discriminazione tra i sessi. Di questa Ostacchini, che la Mozzoni accusa di fare da prestanome a un uomo, si sa poco. Probabilmente essa accolse poi l’idea dell’«emancipazione» perché ritroviamo il suo nome fra quelli, assai numerosi, delle collaboratrici de «La donna».

La Risposta è stata reperita dalla dott. Maria Luisa Cantini, che l’ha acclusa tra i documenti della sua tesi di laurea sull’opera pedagogica e politica di A. M. Mozzoni (1975) e che ne ha cortesemente concessa la riproduzione in questo volume.


Trovandomi talvolta nel negozio del libraio Sonzogno mi accadde piú volte di posare gli occhi sopra un opuscolo intitolato Un Caos di pensieri sopra le donne e per le donne di Elvira Ostacchini. Benché ogni produzione di donna e per la donna m’interessi vivamente, pure il titolo di questo disgraziato opuscolo era così infelice che la mia curiosità ne fu poco assai stuzzicata. Poco dopo mi veniva da qualche signora avvertito che quello schizzo valeva la pena d’esser letto. Non me lo feci ripetere e lo provvidi.

Da una prima lettura fatta a passo di carica rilevai che il titolo di Caos, se non si faceva attraente, veniva per lo meno pienamente giustificato dall’andamento del discorso.

La Signora Ostacchini esordisce pateticamente colle prime e vaghe impressioni della sua giovinezza: ci conduce per mano attraverso alle verdi aspirazioni d’obbligo al grande ed al bello, ci fa passar la rassegna delle idee che le frullavano pel capo, idee nobili e generose, che la lettura dei sommi scrittori le ingigantivano in mente e facevano battere di forti palpiti il giovine cuore, palpiti di speranza e di desiderio, palpiti d’amor di gloria e di desio di creazione; ma... ella ignorava, meschina!, che «poesia è apostolato e rivelazione». Le sue forze vennero meno ed ella diede le sue dimiss ioni.

Dopo la poesia, la filosofia. Ed ecco coi sistemi dogmatici «la speranza, il conforto, la fede», coi materialisti lo scetticismo, la disperazione; e lungo le milliformi variazioni di questi due grandi paralleli starsene schierati e combattenti i robusti campioni della fede e della ragione, gli ontologisti e gli psicologisti. Le due parallele ora si accostano ed ora si scostano: ad ogni curva, ad ogni prominenza, ad ogni sghembo stà piantata una scuola, un sistema ed un drappello di combattenti. Si isoli pure l’uomo, cresca all’ombra selvaggia d’una deserta pineta, senza udir voce di simili mai; cerchi, frughi, mediti, percorra in ogni senso lo sterminato olimpo dell’idea, quando crederà di recare al mondo il parto nuovo delle sue solinghe elocubrazioni, si troverà caduto su due piedi in un punto qualunque delle due terribili parallele. La Ostacchini che vuole ad ogni patto far qualche cosa di nuovo si disgusta anche colla filosofia e volta cammino.

Seguiamola ancora, perché dovrete convenire che è una creaturina interessante la nostra Elvira, con quel suo spirito da cavalier di ventura.

Scesa dalle nubi nel basso mondo il suo occhio è colpito da un fatto abbastanza comune ma pur sempre degno d’interesse e di menzione: che cioè «Aprile fa i fiori e Maggio ne ha gli onori», in volgare, che chi lavora non ha pane, e chi non lavora viene alla luce colla tavola apparecchiata e la minestra servita, che l’onesto è satollo d’obbrobrio e di ignominia, e l’inonesto non di rado ha nome sacra maestà, altezza, eminenza, eccellenza, onorevole, o per lo men cavaliere; che l’uomo fa, dice, disfa bene o male, eccellentemente o scelleratamente, il che non toglie che abbia sempre piú o men ragione; e che la donna quando è giunta a furia di buon senso e di virtù ad accumulare dieci ragioni si guarda in mano e ne trova men che prima, e via dicendo. (Apro una parentesi per avvertire le mie lettrici, che queste ed altre cose ch’io traduco in prosa la nostra Elvira le dice in poesia, ossia in tanti periodi ben disposti, armoniosi, rotondi: ma io so che le mie lettrici tengono all’idea piú che alla forma e sanno che «l’abito non fa il monaco».)

Eccola dunque, appena avvertito il male, in cerca dei rimedii. Dovete aver capito che si tratta d’una ragazza di buon cuore: state dunque sicure di udire tutto un programma per lo men socialista; e ve ne stanno garanti certe ammirazioni per Proudhon che fanno capolino ad ogni tratto lungo il Caos, ché Proudhon nel Caos ci stà a suo agio come un pesce nell’acqua, come il paradosso nella confusione.

Abbasso dunque il Bramino, la udremo gridare; abbasso il Bramino che dispotizza col dogma! - Abbasso il Vasia che dispotizza con l’oro! - Sudra! hai finito di servire, alza la fronte ed associati ai tuoi fratelli nel condominio della creazione! - Paria! rientra nel consorzio delli uomini, e non ti spaventi piú l’incontro del Bramino! Le sue puppille sono cieche del lampo divino che incenerisce il sacrilego: le sue benedizioni non fecondano piú la terra, e le sue maledizioni trovano sorda la divinità e l’uomo schernitore! - Donna! esci dalle ombre perpetue del tuo gineceo; spezza gl’ingenerosi chiavistelli dei tuoi harem; scuoti dalle tue chiome i servili profumi dell’odalisca ed indorale cantando ai raggi del Sole della libertà! scaldati all’aure tepide e libere le belle membra assiderate dai geli secolari dei tuoi sepolcri, e tu o mondo sorridi ed esulta alle infrante catene della tua regina! - E tu o figlio di Cam, o uomo dalla bruna pelle! batti palma a palma, e intorno ai campi che lavorasti finora a colpi di bastone intreccia le tue bizzarre carole ed allegra l’aria dei tuoi gridi piú lieti! La tua maledizione è finita, il flagello è spezzato! Non cercherai piú a disperato domicilio l’umida landa insidiata dal serpente e dall’alligatore, e sulle tue orme fuggitive non udrai piú le mute dei mastini addestrati alla tua caccia! Esulta! d’oggi in avanti avrai tu pure una famiglia, un focolare, una proprietà, una coltura, un diritto! - E tu, o povero d’oro e d’intelletto, ergi la fronte peritosa e smarrita! perocché ogni despotismo è finito. Guerra al capitale infingardo! onta alla ricchezza dinastica e fannullona! Tutta l’umanità si organizzi in società di mutuo soccorso... ogni paese produca... ogni popolo importi ed esporti... si coprano i mari di galleggianti città... la mercede del lavoratore sia piú sacra del pubblico erario... la carità essa stessa s’inchini davanti alla redenta dignità dell’uomo e si tolga di fronte un’aureola il cui indiscreto fulgore lo sforza ad abbassare le fiere pupille... corrano le idee come fluídica corrente fra le plebi risorte alla vita ragionevole, e dal loro atrito potente esca incessante la luce ad illuminare le moltitudini...

Queste ed altre simili cose, col relativo sviluppo, devono logicamente scaturire dalle premesse della nostra interessante Elvira, poiché, lo ha già detto, vuol far del bene, del bello e dell’utile, ed il suo opuscoletto sarà un grosso tomo in piccolo volume.

Attente dunque lettrici mie, taccia l’orchestra, zitti la platea ed il loggione, silenzio nei palchetti, s’alza il sipario. La scena rappresenta... lasciamola descrivere dalla eloquente autrice.

«... il mondo vivente e palpitante... tutto da fare... la contraddizione essenza d’ogni fenomeno... s’interpone un abisso fra la teoria e la pratica; l’immortalità, l’ippocrisia regna per tutta la linea; cancrenati i vizii, rilassati i vincoli di famiglia e di sangue: scrittori che prostituiscono il nobile mandato al traviato gusto ed al traviato sentire del secolo e falsano la loro opera d’istitutori per la sola smania di veder stampato il loro nome (piano, Elvira nelle voltate) o per avidità di denaro».

Tutto questo a destra della scena; a sinistra poi:

«... cuori magnanimi per studiare, promuovere, condurre a fine sicuro le nobili aspirazioni delle moltitudini... difficilissima, tremenda epoca, epoca di transizione in cui gli animi dei molti oscillano incerti fra le crollanti credenze ed il sentito bisogno d’una rigenerazione, d’una religione che non inceppi le libere aspirazioni e i dettami della ragione. Le vecchie idee stanno di fronte alle nuove e combattono una gigantesca lotta. L’urto è possente, è sublime, la palma non è dubbia.» (A carte 12 e 13.)

Io - Non c’è che dire la scena è grandiosa e lo spettacolo assai promettente. Se non che mi permetterei di fare un’osservazione all’autrice, colla sempre debita riverenza. - Il libretto parla di mondo vivente e palpitante, di famiglia e di sangue, e non vedo però nella vostra scena rappresentati tutti gli ingredienti che costituiscono per l’appunto la famiglia ed il mondo vivente e palpitante. Vedo tenori senza prime donne, vedo tiranni senza vittime, vedo infine tutti gli uomini senza le donne... È forse risolto il problema della generazione spontanea?

Elvira - Ma vi dirò. Ecco, è una messa in scena di nuovo genere. Cioè, veramente non ne son’io l’inventrice. Mosè e Manú han fatto il loro meglio per farla passare e vi son riusciti per benino. Giunse Gesú che pensò bene di allargar le dandine a tutte le cose imbrigliate, e mise fuor di moda il ritrovato. Ma poi venne Maometto e la ripose in onore; e se in quei paesi in cui l’Opera va di questo passo la razza umana si conserva discretamente imbecille... però... si vive... Proudhon mio insigne maestro si provò di estenderla anche in Occidente, ed io sulla sua intonazione ho concertato il mio Caos. - «Noi donne stiamocene spettatrici; non discendiamo nell’arduo campo.» (A carte 13.)

Io - Ma perché, Elvira, volete mettere tutti gli uomini sul proscenio e tutte le donne in platea? La vostra Opera mancherà d’interesse e di verità!

Elvira - «Perché le nostre forze essendo naturalmente al disotto verrebbero meno all’altissimo compito.» (A carte 13.)

Io - Per esempio vorreste provarmi ciò che vi piace asserire?

Elvira - «Questo è ciò di cui mi hanno intimamente convinta i miei studii, o per meglio dire le mie letture e le mie osservazioni... Né posso persuadermi che vi siano donne che abbiano il coraggio (capite) il coraggio (dico) di pensarla tanto diversamente.» (A carte 13.)

Io - Calmatevi, Elvira, ed abbiate la bontà di catechizzarmi con un po’ di maniera, se è vero che siete una donna. Non dice il libretto a carte 11 parlando appunto della donna, compiangendola ed eccitandola a sperare, «la sciaurata cui miseria propria e libidine d’uomo condanna alla prostituzione, troverà altro pane non inzuppato di vergogna»? Sembrava dunque che nel vostro libretto la donna facesse la parte di vittima che doveva redimersi. Come dunque all’ora di andare in iscena a cantare le sue querele ed a rivendicare i suoi diritti conculcati, voi la rinviate in platea?

Elvira - «Adagio, adagio, gentili e colte signore! C’è molto da fare per voi (qui l’oratrice si atteggia gravemente a persona ben informata) e si farà; ma non trasmodiamo.» (A carte 14.) Prima di voi mi furono fatte da altri queste osservazioni, prima di voi, i miei attori là del proscenio, si lagnarono di non aver attrici, protestandone la necessità, l’opportunità, la convenienza, ma nessuno però di essi volle cedere alle donne la parte loro assegnata. E se qualcuno vi fu ch’era pronto per voi anche a questa cessione non lo fece che per la ragione ch’era piú imbecille di voi.

Io - Grazie, Elviruccia, grazie! Vedo che siete espansiva, e che Dio vuol preservarvi dalle repressioni di stomaco. Voi non ammalerete certo d’una frase rientrata. Ma come l’acconciamo con questo mondo palpitante senza donne?

Elvira - Oh Dio! cara mia, come siete noiosa! «La donna non serve che là dove il genio è fuor di servizio», è tanto vero che l’ha detto Proudhon! ed il genio è di sesso mascolino, e questo ve lo dico io, e non è men vero. (A carte 25.)

Io - Lasciamo da banda per un momento, se vi pare, i vostri aforismi e quei di Proudhon, li incontreremo piú tardi. Ditemi, per il momento, che cosa ne fate voi della donna?

Elvira - Oh per la donna ho delle idee assai belline, sapete, e nuove e liberali. L’ho studiata molto. È la mia specialità e mi ci conosco assai bene: e se certe stordite damine che schiamazzano tuttodí ai quattro venti, libertà, libertà, non ponessero in forse il loro successo, io potrei in pochi anni trasportare a Firenze, a Parigi, a Londra, a Berlino, a Vienna le delizie della Mecca e di Téhéran. «Ecco la donna è destinata ad esser madre.»

Io - E l’uomo ad esser padre...

Elvira - Adagio... la vostra proposizione è subito contestabile. Io parlo cose che si accettano, non si discutono. Io e Proudhon siamo indiscutibili.

Io - Vi ascolto religiosamente.

Elvira - Dunque io dicevo nel prologo del mio Caos, che la poesia mi scoraggiò, la filosofia mi sbalordí, l’economia politica e sociale mi lasciò tutte le domande senza risposta. Da ciò son venuta ad inferire che se l’uomo che ha tanto talento, che ha la potenza d’astrarre e di concretare, d’analizzare e di sintetizzare, di osservare e di dedurre, di discendere dal necessario al contingibile e di risalire dal contingente al necessario, che ha la privativa del genio, il monopolio del sapere, che ha il volume cerebrale del peso medio di 50 oncie secondo uno scienziato, e del peso normale di tre libbre a tre libbre e mezza secondo un altro; se l’uomo che ha trovate tante belle cose, altre ne ha dette e qualcheduna anche ne ha fatte, ha lasciato tuttavia il mondo quale il mio prologo l’ha detto, che mai volete che faccia, in nome di Dio! la donna che «autrice è un’utopia», letterata non mi piace, filosofessa vuol delle novità pericolose, e che ha il cervello del peso medio di 44 oncie?

Volete che vi provi tutto questo? Perché io poi so ragionare e di tanto in tanto mi piace a metter un po’ d’ordine e pulizia nel mio Caos. Vedete «le donne sono cosí esenzialmente piccole, che tutti i tipi foggiati dalle donne sono piccoli; v’ha di più essa non può crearvi un uomo grande, non solo...»

Io - (A bassa voce) E dire che tutti e piccoli e grandi son fatti dalle donne!

Elvira - «Ma neppure ritrarne un fedele profilo dalla realtà.» E questo è tanto vero che la duchessa d’Abrantès non seppe ritrar Napoleone ad onta che l’ammirasse tanto. «Povero Napoleone, se non rimanessero le tue gesta ed il tuo Codice!...»

Io - Cara mia, in quanto al codice non rimedia a niente dacché Bonaparte non ebbe che il genio di firmarlo. Un solo fra i sovrani dei nostri tempi delineò di proprio pugno le leggi che dar voleva al suo paese, e questo unico fu una donna, lo sapete benissimo anche voi.

Elvira - Non interrompete dunque ad ogni tratto il filo delle mie idee. Volevo dunque dire che tutte le donne piú celebri nelle lettere e nella filosofia, «piú eminenti per intelligenza e per coltura arrivarono mai ad eguagliare l’intelligenza e la coltura d’un uomo sommo? Giammai! esse appena giunsero al livello d’un uom mediocre; anzi (poiché sono in vena d’affermazioni) affermo che la dottrina d’una donna grande sarà sempre al dissotto di quella d’un uom mediocre.» (A carte 18.)

Io - Non è un po’ troppo Elviruccia mia?

Elvira - Ve lo provo. Io provo sempre o almeno di frequente, ed in modo che non lascia luogo a replica.

Si pretende che Madama Staël fu una donna di genio. Bene, io vi dico che non lo fu nient’affatto, e che anzi mancava del tutto di criteri; tant’è vero che quella sua Corinna non mi piace niente, e che quel lord Mélvil era ben imbecille d’amar Corinna. E poi che volete di piú? L’è un fatto che taglia netto la questione «Il cervello di lord Byron fu trovato pesare perfettamente il doppio di Madama Staël!!!» (A carte 27.) Vengo a Madama Sand altra donna che si reputa eminente «e davanti alle splendide manifestazioni di questo sterminato ingegno, sostiamo incerti» pure avanti! (quando si è allievi di Proudhon non si deve peritarsi neppure davanti al pericolo di contraddirsi) - Si pretende che la Lelia e l’Indiana siano i capolavori di lei. Dovete invece persuadervi che valgono ben poco; tant’è vero ch’io detesto il carattere d’Indiana, ed amo mediocrissimamente quello del marito. La Sand «per darci un quadro logico e vero doveva tratteggiare con minor delicatezza la figura del marito facendone un essere veramente brutale» (sic!). - In quanto a Lelia poi, io non la posso soffrire! com’è uggiosa quella dotta, sapiente e grande Lelia!... «V’è tale mancanza di senso comune da non sapersi concepire!»

Io - A mia volta, cara Elvira, sono tutta sassificata di udirvi tacciare di difetto di senso comune una donna che chiamate sterminato ingegno; e viceversa qualificar d'ingegno sterminato una donna che non ha senso comune!

Elvira - Non abbadate a queste inezie. «Proudhon disse essere la contraddizione l’essenza d’ogni fenomeno.» - Vi ho dunque provato all’evidenza che le donne letterate e filosofesse valgono niente, meno ancora valgono le donne in politica. Giovanna d’Arco lasciamola da banda, stimo meglio Madama Sevigné che non s’impicciò di niente e lasciò il mondo andare come voleva andare. Madama Roland perdette la Gironda, e Cesare e Napoleone non si consigliarono mai colle donne.» (A carte 35 e 36.)

Io - Siete ben compendiosa, Signora mia! Dove lasciate Maria Teresa che a 22 anni salvò l’impero e la dinastia, e contro l’avviso de’ suoi ministri e de’ suoi generali fece fronte all’Europa coalizzata? Dove perdete Catterina II, che ampliò l’impero, diede buone leggi, e civilizzò i suoi popoli sicché Voltaire stesso la chiamava la Semiramide del Nord? Dove dimenticate Elisabetta che fondò la potenza inglese, unificò i tre regni e tenne a bada le quattro potenze nemiche? Dove cacciate Eleonora che governò e diede alla Sardegna leggi eccellenti? Dove, Catterina da Siena, la consigliera dei papi? Né mi direste che dietro a queste dame v’erano degli uomini; sapete troppo bene la storia per poterlo asserire. E le due Margherite di Svezia, e Bianca di Castiglia dove le lasciate colle loro eminenti politiche?

Gli uomini han sempre avuto per vezzo di far ombra alle donne piú presto che di metterle in evidenza; per cui se riescono queste a mettersi in luce, non possono che essere aiutate da un altro genio di genere femminino che non conoscete o fingete di non conoscere. - E queste donne che vi ho nominate, Elviruccia mia, ed altre molte dell’evo antico e dell’evo moderno, che voi siete troppo colta per ignorare, e troppo destra per nominare, io ho l’ingenuità e la pretesa di porle a fronte, ed anche al dissopra talora, dei vostri Richelieu, Danton, Mirabeau, Robespierre, ed Alberoni anche, se volete, e Mazzarini e Wolsey!... Ma che veggo io mai!... la mia povera Elvira, che ha gli occhi umidi e vi lavora sopra di fazzoletto? Vorreste dirmi cara mia, che cosa è stato?

Elvira - (piangendo) «Molti mali che noi lamentiamo sono inerenti alla nostra stessa natura; questi affrontiamoli con coraggio e sopportiamoli con animo invitto... La gloria per voi, o donne, dev’essere la sventura sempre e dapertutto, mitigar dolori, asciugar lagrime; essere buone e brave mogli, buone e brave madri.»

Io - Amen! Che Dio vi rimeriti le vostre pie esortazioni! Nella patria celeste! Frattanto, poiché siete cosí tenera d’occhi e di cuore, vorreste vedere di buttare insieme qualcosetta per acconciare un po’ meglio queste donne? Perché vedete bene «una figlia del popolo che nulla possegga non può campare onestamente la vita, ella non ha davanti a sé che il ricovero di mendicità o l’asilo di vergogna». Deve, per dovere giuridico, alimentare all’uopo il marito ed i figli, e non ha accesso alle industrie di maggior retribuzione; nella famiglia nella società, nello Stato sopporta tutti i doveri e non ha da nessun lato godimento del diritto. Nei costumi, giovine, bella e povera, l’anima sua cosí fragile, cosí pusilla, pende perpetuamente fra un tremendo dilemma i cui estremi darebbero le vertigini alle teste piú salde, l’eroismo o l’infamia! Vedete, cosí non può continuare! pensate ciò che volete della sua potenza filosofica, politica e letteraria, cavate quelle conclusioni che v’aggradano dal peso del suo cervello, ma vedete di trovarle un po’ piú di benessere. Siete cosí buona ragazza, avete studiato tanto, vi sentivate tanta voglia di far qualche cosa di bello che certamente non vi verranno meno le forze nell’ora di pronunciarvi.

Elvira - Oh sí! Vi ho detto già che a furia di studiare ho trovato delle idee assai belline. Ecco «la donna può certamente rendersi utile in moltissime cose» verbigrazia, quando abbia un ingegno eccezionale può tentare un romanzo di genere intimo, qualche raccontino assai morale, nel quale sia d’obbligo la casta pergola, la pia capinera, il limpido ruscelletto; qualche commediola per collegio i cui interlocutori siano sempre le maestre e le alunne, la genitrice e le figlie, passi anche, per qualche giardiniere ben sorvegliato. Qualche anacreontichetta cosí, senza pretesa per feste natalizie e per compleanni, circostanze nelle quali si possono fare delle cosuccie assai graziosine. - Vedete le donne che si sono attenute a questi generi ed in questa sfera, han fatto assai bene, per esempio «la Percoto e la Beecker Stowe piú che altremai si fecero di ciò capaci, e i loro lavori ebbero tale brillante successo che maggiore non potevano desiderare».

Io - Voi mi sorprendete, Elvira! Passi ciò che dite per la Percoto. Ma per la Beecker Stowe! Hanno a far l’una coll’altra come un cavolo colla luna. L’autrice americana ha trattato una tesi sociale, di quelle che voi proibite alle donne. Se anche nella Capanna dello zio Tom voi avete avuto l’eccezionale miopia di non veder che un racconto più o men riescito, la Chiave della Capanna in cui la tesi è trattata con metodo e documenti avrebbe dovuto dissuggellarvi gli occhi. La tesi fece il successo e non la forma.

Elvira - Ma la tesi dell’emancipazione dei negri è cosí simpatica e giusta!

Io - Io non la credo piú simpatica per un piantatore del Sud che quella dell’emancipazione della donna per voi.

Elvira - Vi ho già detto che sono indiscutibile. Quel che ho detto, come vi dicevo, è per gl’ingegni eccezionali. In quanto poi alla massa delle donne, può ammazzare assai tollerabilmente il suo tempo cucendo e rattoppando, e se v’è dell’agio in famiglia, può anche ricamare poltroncine e sgabelli e lavorar d’uncinetto.

Io - Elvira, io sono assai conciliante, accetto le vostre larghezze in quanto al modo di passar il tempo, attesocché io pensi che ogni genere di lavoro sia utile sempre e sovente necessario. Ma volevo mo’ dire, per il suo benessere... per migliorare un po’ le sue condizioni...

Elvira - Oh Dio! Cara mia «certe quistioni che ci riguardano sono della piú alta importanza; somiglian quelle del pauperismo e del proletariato e sono perciò da lasciarsi discutere a menti piú vaste delle nostre».

Che cosa v’importa mai di star male? Che frega v’è saltata addosso di voler star meglio? Lasciate fare agli uomini; «non immischiatevi in cose che assolutamente non appartengono che ai soli uomini». (A carte 47.)

Io - Ma veramente, mi pare che nulla sia tanto di nostra competenza quanto ciò che personalmente ci riguarda, ed essendo noi parte integrante e sine qua non della specie umana, tutto ciò che interessa la specie, interessa noi pure.

Elvira - Ah cara mia, che idee storte avete mai! Come siete intollerabile con quelle vostre frasi grandiose! «Si persuadano le donne che non sono gli studenti soli ed i ragazzi che detestino le dottoresse, ma sibbene tutti gli uomini in generale e gli uomini piú eminenti in particolare.» (A carte 47.)

Io - Ah ci siete finalmente cascata signora mia! Il vostro Caos di pensieri non è mica dunque fatto sopra le donne e per le donne, ma è scritto contro le donne, per gli uomini!? Non è già che la vostra anima candida ed innamorata del bello e del buono vi portasse al bene, ma era una barricata che volevate erigere davanti ai combattenti per l’idea nuova in quella certa lotta gigantesca descritta a tinte forti nel vostro prologo! Non è il coscienzioso risultato delle vostre convinzioni che volete lealmente somministrare alle vostre lettrici, ma è forse «la smania di veder stampato il proprio nome», forse una civetteria di nuovo genere verso il sesso che ammirate cotanto e dei cui gusti ed interessi vorreste fare una legge anche per quelle, che, abborrenti ogni servilismo, respingono anche questo come il piú gretto ed il piú pedante, o forse, anzi certamente è un attaccamento al passato sotto veste pomposa di indipendenza di spirito.

Né vi sembri per avventura che questa apostrofe sia troppo violenta diretta ad una donna. Due cose spiacciono nel vostro Opuscolo che indipendentemente dall’urto delle opinioni ne deturpano il merito letterario, e sono, il tono sentenzioso e dogmatico e la malafede. E ve li provo l’uno e l’altro.

Mentre togliete Proudhon a scorta del vostro dire, non potevate ignorare che le parole che testualmente citavate facevano parte della polemica notissima ch’egli sostenne con Madama d’Héricourt. Voi non potevate ignorare, le risposte categoriche e vittoriose della terribile avversaria, la quale, dando al professor Michelet, al professor Comte ed al vostro insigne maestro una buona lezione di metodo doveva avervi provato che v’hanno donne che, senza essere reputate eminenti, sanno insegnare un po’ di logica ad uomini, che voi e la massa reputate eminenti. Eppure in tutto il vostro scritto avete voi dimostrato di pur conoscere queste cose? Che queste ed altre anzi schivate con arte infinita. Mentre vi scagliate con una rabbia, verosimile in un uomo, inqualificabile ed assurda in una donna, contro le donne che gli eccezionali talenti han posto in evidenza ad onta che le instituzioni si sbraccino a reprimerne i generosi conati e travolgerle nel silenzio, non è malafede la vostra riportando ciò che fa all’argomento vostro e tacendo ciò che strozza neonate le vostre dottrine?

Se davvero foste convinta che le donne non debbono scrivere, dovevate per debito di coerenza risparmiarci il vostro Caos; e lasciare invece scrivere quelle che sono convinte del contrario e possono perciò farlo senza essere incoerenti.

In quanto poi alla intonazione pedante e dottorale che fa del vostro scritto una specie di sovrano motu proprio, bisogna che vi comunichi in confidenza un’idea fissa che mi perseguitò lungo la lettura di esso. Il far cattedratico è proprio dell’uomo; avvezzo a far decreti ed a decider dogmi, ad aver nella famiglia un’autorità dispotica ed incontrollata, nel mondo letterario un posto inconteso, nel mondo elegante un incesso sempre trionfante in grazie delle donne che pensano e parlano come voi scrivete, egli crede ingenuamente d’essere infallibile ed impeccabile e trincia sentenze a proposito ed a sproposito con una convinzione che petrifica di meraviglia gli spiriti giudiziosi i quali, sapendo quanti dati voglionsi per un criterio comparativo, non possono a meno di peritarsi un momento innanzi di avventare un giudizio.

Se ponete questo primo dato vicino a quell’altro, che è il decreto che graziosamente emana urbi et orbi a tutta una metà del genere umano, col quale le vietate di porre in carta le proprie idee e comunicarle al pubblico, eccettuate quelle poche alle quali si accorda benignamente brevetto di privativa dietro certi considerandi, caro mio Torquemada in sessantaquattresimo, vi vedo spuntar sotto il naso due irti mustacchi e far capolino dalle tasche del tunichino il manico della durindana.

Altri sintomi aggravanti. Le vostre ripetute ammirazioni pei Cesari ed i Napoleoni, pei Mirabeau, pei Danton e pei Robespierre, come se tutti questi che ebbero bisogno di mezzo mondo per farsi largo, non fossero stati uomini come tanti, alle cui passioni comunissime le circostanze servirono mezzi non comuni. Le vostre decise e rabbiose antipatie per tutte le donne che mostrarono soverchia autonomia d’intelletto e d’azione e soprattutto per quelle che rivaleggiarono coll’uomo nel nobile maneggio della durindana. I vostri istinti mal dissimulati a disciplinare il sesso femminile come una truppa di linea. Siamo dunque intesi, don Elviro, individuale o collettivo che siate! Un’altra volta fatevi aiutare dal correttore della tipografia a rivedere attentamente il manoscritto, acciò non vi scappino delle idee troppo compromettenti o rilevanti, per esempio sul gusto di questa a carte 22.

«Casta per natura, la donna, checché ne dicano in contrario (avvertano i lettori che è Proudhon che sostiene quel contrario), vi fa respirare nei suoi scritti un’atmosfera d’impuri desiderii.»

Ma chi è che vicino alla donna casta sente impuri desiderii? Un’altra donna no!

«Preferisco la forma poco castigata di Paolo de Koch che vela sovente idee caste e morali, al casto stile femminile che respira libidine. (!!!)» Ah sí?!

Buona notte, Don Elviro. Tanti saluti in caserma.

Note

  1. Risposta di A. Maria Mozzoni all'Opuscolo della Signora Elvira Ostacchini, Milano, Tipografia Grazioli, 1866.