La liberazione della donna/II
Questo testo è completo. |
◄ | I - 8 | III | ► |
Le pagine che seguono sono tratte da un opuscolo uscito nel 1865, dopo che il progetto del nuovo Codice Civile era stato discusso al Senato che aveva modificato in peggio gli articoli sulla condizione delle donne nei rapporti familiari, già approvati dalla Camera dei deputati.
Lo scritto, piú polemico del precedente, si chiude tuttavia con parole di speranza, nate dalla fiducia in una revisione delle norme più arcaiche.
In questi due primi lavori, la questione femminile è vista soprattutto come un fatto di discriminazione, da assimilarsi a quelle di tipo razzista. Va notato tra l’altro che la Mozzoni è tra i rarissimi scrittori del tempo che denuncino a tutte lettere il permanere dell’antisemitismo in Europa; e poiché la sua allusione all’esistenza dell’antisemitismo nei «paesi democratici e progressisti», vale a dire in Francia, proprio nel paese della Grande Rivoluzione, che aveva proclamato l’emancipazione degli ebrei, precedeva di decenni l’affare Dreyfus, probabilmente non serví che a renderla anche più incomprensibile ai democratici contemporanei, per i quali la Francia era un mito intoccabile.
«Si c'est là ce qu'on appelle la famil le,
vaut elle bien en conscience le bruit
qu'on en a fait?»
«La femme ne fait rien, parce que
l'homme fait tout.»
Girardin, Lib. d. I. Mar.
La legislazione può dessa astrarre dai principii riconosciuti della filosofia?
Il diritto giuridico può egli non essere che convenzionale, epperò insubordinarsi al diritto naturale?
Le leggi civili possono desse appagarsi di tutelare più o meno la proprietà e le persone, senza sollecitarsi del principio da cui parte l’umano consorzio e del fine a cui cammina?
Riconosciuto ed affermato un diritto, può essa, la legge, impedirne l’esplicazione e sopprimerne l’applicazione?
Ecco le tesi ch’io mi ponevo discutendo le condizioni della donna in faccia al diritto, nel libro, per me testé pubblicato, La Donna e i suoi rapporti sociali. Ardue tesi, delle quali cercavo la soluzione in una logica base di diritto, e la prova di essa soluzione riscontravo nelle imperfezioni, nelle contraddizioni, nei barbarismi delle leggi esistenti.
Ma ben poco avrei giovato al mio sesso, e non avrei che mediocrissimamente servito alla causa che propugno se, paga di avere invocato l’attenzione dei corpi legislativi e delle genti logiche ed oneste, sulle miserrime condizioni nelle quali è costretta la donna sotto l’impero del codice vigente (imperfezioni sulle quali l’Italia tutta è piú o meno d’accordo dacché se ne vuole riforma), paga, dico, di cosí poco, riposassi fiduciosa piú che non vogliano ragione ed esperienza in una vittoria, che numerosi interessi, diffusissimi pregiudizii e secolari abitudini concorrono a rendere piú che mai difficile, se non impossibile.
L’affermazione dei diritti della donna, in principio, è oggi voluta dallo spirito delle masse, e questo principio si è già incarnato nei costumi di tutti i popoli civili. Se l’uomo rappresenta la famiglia negli affari, la donna la rappresenta nella società. Del resto, non un marito che prenda oggi sul serio il dominio legale sulla persona della moglie, non un figlio che disconosca il diritto materno e non rispetti il voler della madre, laonde nulla piú avrebbe a fare la legge, che apporre al fatto la sua sanzione. E tanto piú dovrebbe ciò fare, in quanto che nessun suo paragrafo, per quanto energicamente concepito, potrà mai distruggere questo fatto, ché dovrebbe prima distruggere la ragione, il sangue, gli affetti e l’ordine della natura.
Ma v’ha di piú; siccome la legge, nel porre i destini della famiglia nelle mani dell’uomo e nel confidarla alla sua capacità, non gli diede e non gli poté dar sempre questa capacità, ne segue, che non di rado la famiglia è nelle mani della donna che l’amministra e la dirige di fatto non solo, ma altresí di diritto, dovendo bene l’idoneo supplire l’inetto ed il veggente guidare il cieco. Ed allora la legge deve impotente presenziare la propria abolizione e chinarsi alla necessità.
Il diritto parziale si pone egli stesso in tale stato d’infermità e d’impotenza, ogni qualvolta nega i principii del diritto naturale, che non è il diritto d’un luogo, d’un popolo e d’un tempo, ma il diritto di tutti i luoghi, di tutti i popoli, di tutti i tempi, e questa insufficienza della legge potentemente si appalesa nella sua eterna lotta coi costumi.
Davanti a questo fatto, che vigorosamente mi appoggia, io non rifarò teorie di diritto, che già ho fatto di pubblica ragione, e che parvero soddisfare al comune senso. Non è ora mio assunto teorizzare, ma bensí porre quelle dottrine a fronte delle condizioni, che il nuovo progetto del Codice Civile crea alla donna italiana. Ed il mio lavoro sarà tanto piú facile, in quanto non trovomi neppure di dover cavare induzioni e cercare interpretazioni allo spirito ed alle intenzioni della legge attraverso succinti ed aridi paragrafi; ma si riduce la mia fatica a seguire l’onorevole ministro Pisanelli nella sua relazione, e considerare lo svolgimento delle sue dottrine, e le piú o meno esatte applicazioni che egli ne propone.
Il signor ministro si fa un dovere di motivare, discutere e dimostrare tutte le sue proposte, di antivedere le obbiezioni che gli possono venir mosse e di prepararne la soluzione.
Egli si appella ora alla ragione, ora al sentimento, talora all’uso e piú sovente alle tradizioni del Diritto Romano, alle leggi napoleoniche, all’uno ed all’altro dei codici, ora vigenti, in terra italiana. L’ecletismo del signor ministro è evidente, un’ape non potrebbe superarlo!
Benché per natura avversa all’ecletismo, i cui portati sono necessariamente ibridi, ed amante piuttosto dei lucidi principii dai quali scendono le applicazioni logiche, spontanee, sicure e tutte improntate dei caratteri originarii, vedo la necessità di rassegnarmi al fatto, poiché non è già una nuova legislazione, ma bensí una riforma, epperò una modificazione, che si vuole; ed eccomi ad ormeggiare gli svolgimenti delle nuove norme civili per quanto concerne le condizioni della donna.
Non posso a meno d’applaudire al signor ministro, e venir d’accordo con lui quando, considerando il matrimonio come istituzione sociale, in quanto è fondamento della famiglia, epperò nido dell’umanità, lo chiama a dipendere dallo Stato ed a ricevere da lui la legale sanzione. Questo fatto, preparando lo Stato all’emancipazione da una religione dominante, che è un’implicita depressione dei culti tollerati e che trae dietro a sé privilegi per il culto dominatore, obbedisce perfettamente al principio della libertà di coscienza, sí altamente reclamata dalla filosofia...2
... Il progetto comincia col chiamare la madre alla tutela; dietro a lei, e per corollario logico, le ascendenti; poi considera, che il nipotismo ha sempre giocato una gran parte nel dramma sociale, e che ad una donna, che non ha famiglia propria, i nipoti la costituiscono naturalmente. E va bene. Ma ad un tratto il progetto s’arresta sullo sdrucciolo pendio, s’accorge che la tutela è un ufficio pubblico, e come tale non conviene alla donna; e taglia netto il filo delle concessioni. Indarno forse gli si farà osservare che la tutela è una maternità, e che per conseguenza, pubblica o privata ch’ella sia, non v’ha funzione piú addicevole alla donna di questa. Il progetto non risponde, ma s’è incaponito di non dare pubblica gestione alla donna. Gettiamo dunque il guanto alla pubblicità.
Che cos’abbia di pubblico, in atto pratico, la tutela, per vero dire non si saprebbe, dacché si esercita fra le mura domestiche; che se il contatto con un magistrato ed un tribunale pupillare è tutto ciò che ne costituisce la pubblicità, in tal caso possiamo ben dire di vivere tutti pubblicamente, dacché non v’ha cittadino che per i fatti suoi non sia esposto a simili eventualità, maschio o femmina che sia. È così elastico questo problema che non si saprebbe posarne lucidamente gli estremi.
Ciò che avremmo voluto dal signor ministro si è che, in luogo di escludere la donna da un pubblico ufficio per escluderla,3 ci avesse addimostrato e provato sopra documenti, che cosa v’è d’incompatibile fra la donna ed un pubblico ufficio. Quando la società impiega le braccia della donna nelle fatiche e nelle industrie se ben gli torna, senza sollecitarsi che il suo muscolo non sia di prima forza, non vedo ragione per cui non possa impiegar la sua testa, che non è tanto scarica quanto si pretende.
Volgi e rivolgi questo sillogismo, non potrà il signor ministro venirne, in ultima tappa, che a questa conclusione, che l’uso non l’ha ancor ricevuto; ed allora gli farò risponder da Viennet:
«L’usage est un vieux sot qui gouverne le monde.»
Il secondo titolo d’esclusione sono le cure domestiche.4 È decisamente una disgrazia del virile criterio di non saper togliersi dal vago, dall’incerto, dal nebuloso, dall’astratto, per cercare le norme del proceder civile nel vero, nel determinato, nel pratico e nel concreto. Si direbbe che il filosofo debba al par del poeta schifare certe realtà, nelle quali si affogherebbero gli slanci fantastici.
Che cosa sono le cure domestiche?
Sono i materiali e quotidiani provvedimenti di materiali e quotidiani bisogni.
E i materiali e quotidiani bisogni dell’uomo che cosa sono? Le vesti e gli alimenti. Ora analizziamo il valore.
Tutti gli uomini riparano il corpo e lo alimentano, ma non tutti allo stesso modo. Il povero dà al soddisfacimento di questi bisogni pochi minuti e poche cose. I mezzi di procurarsi questo soddisfacimento assorbono tutte le sue giornate. L’uomo e la donna in quella classe sono strettamente parificati. Le cure domestiche non trattengono la donna dall’essere tutto il giorno ben lungi dalla casa in un opificio qualunque. La donna che si reputa abbastanza preoccupata dalle cure famigliari, è già discretamente agiata.
Piú ascendiamo verso le alte sfere sociali, piú si complicano le esigenze della vita civile, ma crescono colle esigenze i mezzi di soddisfarle, finché giungiamo a vedere la donna aristocratica sciupare la vita nell’inanità e nella noia, non trovando alla naturale attività impiego possibile.
In quanto poi alla donna del medio ceto, che risente in pari tempo e delle esigenze dell’alta classe e delle strettezze dell’infima (ed è quella per conseguenza che serve d’archetipo a quanti filosofi e giuristi videro incompatibilità fra le cure famigliari ed un’altra funzione qualunque) è quella altresì il cui marito, non che avere agio di attendere a quegli affari d’ordine civile che come a capo della società domestica gl’incombono, è vincolato all’assiduo esercizio d’un’arte, d’una professione, o d’una gestione, all’urgente disimpegno delle quali non può in nessun modo anteporre i suoi privati interessi.
Sintetizzando, in tutta la scala sociale, in regola generale, la donna è occupata al par dell’uomo, e dove no, lo è meno; e questo è lo stato vero e concreto delle cose per chiunque degni porvi mente, sicché l’esclusione della donna da una professione qualunque, per riguardo alle cure domestiche, è più speciosa iperbole che non esatta apprezziazione delle cose. E ben fu capito ciò in America ed in Inghilterra, dove è libero alla donna, che sente avere tempo, opportunità ed attitudini, di darsi ad equivalente funzione, senza che l’ordine sociale ne venga per nulla affatto capovolto, né rotto fra i due sessi quell’equilibrio, del quale fu tanto sollecito il signor Gabba, e che è un vero squilibrio per chiunque ha fior di giustizia e capisce come i fatti strozzino dovunque, appena nati, gli egoisti teoremi.
Abbandonandomi un momento ad una digressione, a cui c’invita il concetto dell’onorevole ministro, non convenire alla donna pubblico ufficio, non posso a meno d’insistere, invece, sulla necessità di aprirle le pubbliche funzioni, negli interessi appunto di questa creatura, della quale egli sembra tanto rispettare la preziosa natura, e di quella famiglia per la quale tanto sollecito si mostra...
... Pretendere, come da taluni, poco avvezzi a riflettere, si pretende, che tutta questa massa si versi sopra le poche ed infime industrie accessibili alla donna e viva di quelle, è pretendere l’impossibile nell’ordine materiale, l’atroce nell’ordine morale.
L’impossibile, perché dandoci le statistiche un’egual cifra complessiva degli individui dell’uno e dell’altro sesso, ne risulta che, se ad alimentare la massa virile sono necessarii tutti gli impieghi, tutte le professioni, tutte le arti, tutte le industrie, come sarà poi possibile che un’altra massa eguale possa tutta vivere di pochissime ed infime industrie? Obbligare poi a queste infime industrie la donna di rango, questo è ciò che chiamiamo atroce. Eppure è questa la condizione, che si stima molto conveniente alla donna da Proudhon, da Comte, da Michelet, dal Gabba, dall’eccelso Senato e dal ministro, i quali al coperto da siffatti crucci, dicono alla donna ciò che quell’ingenua principessa, ignara che vi fosse una vera povertà al mondo, diceva al mendicante che l’implorava: se non sai di che mangiare, mangia pane e cacio.
Sí, i legislatori prenderanno poi finalmente sul serio questo problema, che racchiude il segreto di tante miserie e di tanti dolori! Lo scetticismo può riderne, il pregiudizio può allarmarsene, l’egoismo può trascurarlo, ma un corpo legislativo, nella savia provvidenza del quale riposano fiduciosi gl’interessi di tutte le classi, non può declinarne lo studio e lo scioglimento senza tradire il proprio mandato.
Affinché però non ci si accagioni di porre sul tappeto teoremi di non possibile attuazione e di agitare tesi insolubili, non intendendo di recare in massima nessuna limitazione al diritto ingenito di ciascun individuo al libero impiego della sua attività, e senza in nulla pregiudicare all’avvenire, ci sia permesso di portare la questione sul terreno pratico.
Quante gestioni non v’hanno nei diversi ministeri, alle quali può la donna sobbarcarsi senza urtare di troppo le consuetudini del paese, senza discostarsi d’assai dai principii ai quali s’informa il progetto?
Perché non potrà l’Italia aprire alla donna gli uffici postali e telegrafici come già fa l’Inghilterra?
Perché non potrà l’Italia chiamare la donna all’esercizio delle professioni indipendenti, e, specialmente della medicina, che risponde cosí bene alla sua pietosa ed intuitiva natura e la salva dall’inquisizione virile, perpetuo oltraggio alla sua verecondia; e perché non potrà farlo, se già si fa negli Stati Uniti?
Perché non potrà il ministero dell’istruzione accogliere largamente la donna ne’ suoi mille uffici d’insegnamento e d’ispezione, e non lo potrà proprio in Italia, che vide in non remota età, e sotto la retriva monarchia papale, le cattedre universitarie coperte una dopo l’altra da donne?
Perché non potrà il ministero dei lavori pubblici, nelle mille sedentarie occupazioni che ne dipendono, impiegare le donne, alle quali lo Stato abbia prima provvisto il tecnico insegnamento, come nella Inghilterra?
Perché non potrà il ministero dell’interno aprire molti rami delle sue amministrazioni alla donna, e piú specialmente le direzioni e le ispezioni degli spedali e degli istituti di beneficenza, gestioni nelle quali i suoi pietosi istinti risponderebbero al mondo della sua sollecitudine?
Perché non potrà negli uffici ferroviari sostituirsi la donna, senza il menomo inconveniente, a certi Atlanti dalle colossali ed atletiche forme, che con ameno contrasto distribuiscono microscopici pezzetti di carta?
Mentre l’America, l’Inghilterra, la Svizzera, e fin la Prussia e l’Austria, con rapido cammino si discostano piú sempre dalle vecchie istituzioni, non potrà l’Italia, se non precederle, almen seguirle? Sarà ella questa sempre la terra che, tutta legata al passato, si lascia tutta quanta seppellire sotto la polvere dei secoli? Non si ispirerà essa mai al futuro? Non assumerà essa mai l’iniziativa d’un progresso?...
... A dare certo compimento a questo breve e compendioso lavoro, ci rimarebbe ad esaminare la donna in faccia al contro-progetto del Senato. Ma lo spirito retrivo e conservatore che l’informa è tale, che il Codice Sardo attualmente vigente vi è poco men che esattamente ripetuto. Io non farò dunque che rimandare i miei lettori, che volessero occuparsi di ciò, agli ultimi capitoli della recente pubblicazione La Donna e i suoi rapporti sociali.
Saremmo ingiusti però se non accennassimo alla sanzione del matrimonio civile dal Senato, apposta alla proposta ministeriale. Se, come in questo, in altro ordine di cose avesse questa rispettabile magistratura tenuto conto dei tempi che corrono, del grado attuale di civiltà, del grande e precoce sviluppo dell’attuale generazione, dell’indirizzo politico che il paese ha assunto, dei liberi e giovani principii in nome dei quali è risorto e che reclamano piú libere norme di vita civile, certo non si sarebbe mostrata cosí soprafatta dal progetto del ministro.
Fra l’Italia del secolo decimonono e l’Italia di Giustiniano v’è l’abolizione del feudalismo, vi sono secoli e secoli. Come va dunque che a sí enorme distanza, la voce di Cicerone e di Triboniano suona piú alto all’orecchio dell’italico Senato che non l’opinione pubblica, il grido della filosofia, i voti unanimi di tutto un secolo e di tutta una nazione che gli romoreggiano intorno?
Come va che questo venerabile consesso, già tanto benemerito al paese per senno politico e legislativo, si volga indietro ad ogni passo a consultare l’adorato Digesto, e cento volte ed in cento maniere ripeta affannoso all’ardito ministro, badate, che non s’è mai fatto cosí?
Come va che la famiglia democratica, costituita dal ministro, e che in fatto altro non è che la legale sanzione degli odierni costumi di tutti i popoli civili, non sia per nulla di gusto dei venerabili seniori, ai quali sorride ancor fresca e rosea, benché vecchia aggrinzita e sdentata, la domestica monarchia romana?
Vi sono delle analogie che ci trascinano malgrado noi, e delle quali non mancheremo di mostrarne al Senato il pericolo. Piú d’uno esaminando la relazione senatoriale potrebbe ragionarla cosí.
Nel suo contro-progetto il Senato si presenta all’Italia in un atteggiamento poco dissimile da quello del papato nella sua famosa enciclica.
Questo col suo immobilismo peripatetico-tridentino, e quello con la sua vecchia cariatide del Diritto Romano, che ormai i secoli dovrebbero aver rosicata, ambedue si presentano incompatibili colle nuove condizioni d’Italia e collo spirito della sua giovane generazione.
Il papato guarda con occhio cupido ed increscioso al medioevo; il Senato rimpiange le despote istituzioni del vecchio popolo-re, e sospira dolente di vederne impossibile la ricostituzione.
L’unica differenza, che riscontrasi fra questi due enti morali, che sono come due punti fissi nel moto universale italiano, si è che il Senato ci dà ad intendere di riformare, invocando le tradizioni del passato, il papato invece, piú logico assai e piú franco, dichiara di non volersi muovere a nessun patto, non illude sé stesso e non inganna nessuno. Che cosa rispondere a chi la ragionasse cosí?
Non possiamo però conchiudere questo sunto senza porgere un giusto tributo di lode e d’ammirazione all’onorevole ministro, che nella sua bellissima relazione si mostra cosí bene all’altezza dei tempi, ed ha saputo nel suo progetto incarnare i principii dell’epoca e le aspirazioni della parte colta e pensante della nazione. Ma tanto piú gli porgiamo lode in quanto non ci sono ignoti i vieti e tenaci pregiudizii della giurisprudenza colla quale dovea intendersi, e le conservatrici e retrive tendenze del Senato al cui tribunale dovea il suo lavoro comparire.
Egli ha capito che parlar di riforma ed ispirarsi al passato è illogico, è assurdo, è incompatibile, epperò, con vera sapienza, consultò il presente e l’avvenire, armonizzando le leggi colla filosofia, coi costumi e coi bisogni.
Mentre caldamente desideriamo che la nazionale rappresentanza applauda e sancisca il lavoro del ministro, in vista dell’urgente bisogno in cui versa il paese di piú libere istituzioni, non possiamo a meno di insistere a che si prendano in considerazione le tesi da noi poste.
Ancora un passo, e l’Italia sarà a fianco alle piú colte e piú avanzate nazioni.
Note
- ↑ La donna in faccia al progetto del nuovo Codice Civile Italiano, Milano, Tipografia Sociale, 1865.
- ↑ Relazione del ministro. Matrimonio civile.
- ↑ Relazione del ministro. «Il principio d’eguaglianza, a cui s’informa il progetto, non sembrò doversi estendere sino ad ammettere per regola la donna all’esercizio d’un pubblico uffizio.»
- ↑ Relazione del ministro. «D’altronde le domestiche cure che appartengono piú specialmente alla donna, la riservatezza naturale che ne concentra tutta l’operosità a beneficio della famiglia, debbono essere dal legislatore grandemente rispettate.»