La giovinezza e studi hegeliani/La giovinezza/XIV. Casi fortunati
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XIV
CASI FORTUNATI
Il secondo palazzo di lá dal quartiere dove erano allora accasermati gli Svizzeri, era quello in cui Enrico e io prendemmo casa. Al secondo piano era un gran terrazzo, con frequenti spaccature impeciate. Su di una parte di questo terrazzo era stata improvvisata una casetta di quattro stanze e una cucina, piena d’aria e di luce, che a noi parve una reggia. Zio Carlo aveva dato i mobili di casa tutti a Giovannino, e a stento avevo potuto impetrare un letto. Con quello m’impossessai d’una stanza. In un’altra s’installò Enrico col suo letto e con alcuni vecchi mobili. Un vecchio divano con quattro sedie sdrucite decoravano il nostro salotto. A dritta veniva uno stanzone immenso, con una gran finestra in fondo, uscito pur allora dalle mani del fabbricatore, con le mura bianche di calce, e col tetto non incartato e col pavimento non mattonato. Là, entrando, alla dritta era un piccolo tavolino pieno di carte e di libri, ch’io chiamavo una scrivania, e dinanzi era una sedia di paglia, sulla quale, quando mi sedevo con la penna in mano e con gli occhi al tetto irradiato di sole, parevo un re, il re di quel camerone. Spesso vi andavo passeggiando in lungo e in largo, tutto a caccia delle idee e di frasi, e talora acchiappando mosche e allargandomi sul terrazzo, quasi l’aria mancasse ai voli della mia immaginazione. Quel camerone oggi non v’è più: se ne sarà cavato un par di stanze eleganti; ma io non posso pensarci senza tenerezza, e mi par che con esso se ne sia andata una parte della mia esistenza. Là per la prima volta io mi sentii chez moi, dando libero corso alle mie meditazioni e alle mie immaginazioni. Enrico ed io eravamo come due studenti, entrati pur allora nel pieno possesso di noi.
Un giorno mi capitò il babbo. Veniva per «vedere il tutto», come disse. Non era senza ansietà sul mio indirizzo, così solo, senza guida né freno. Ma s’accorse subito che eravamo buoni figliuoli, guidati e frenati da retti principii, ai quali si credeva come al Vangelo. Virtù, gloria, patria, giustizia, scienza, dignità, castità erano per noi cose reali, non nomi vani. Papà credeva di trovare due disperati; rimase ammirato alla nostr’aria spensierata e contenta. Egli si mise per terzo, e scendendo dal suo piedistallo paterno, ci si fece un allegro compagnone, e condiva la mensa con di bei motti e con arguti brindisi. Egli era dottore in utroque jure, e aveva interrotta la sua carriera per un matrimonio impostogli da ragioni di famiglia. Era un buontempone, di allegro umore e di buon cuore, senza dimani. Nei casi più tristi si consolava dicendo: — Dio non peggio — . Usava dimesticamente con tutti, coi contadini, coi giovani; anzi, aveva una certa inclinazione a fare lo scapolo, il giovinotto. La sua immaginazione ridente lo tirava a ingrandire e indorare gli oggetti, ed era un ottimo istrumento della sua vanità non piccola. Idolo dei fanciulli, che gli correvano appresso e lo chiamavano zio Alessandro, egli faceva con loro molti giuochi, come la testa del morto, le candele funebri, le ombre, e li divertiva e si divertiva. Non è dunque meraviglia che, con questa uguaglianza di umore, si sia lasciato ire sino a ottantasei anni, allegro e rubicondo. Dopo pochi dí prendemmo confidenza, e ce lo menavamo a braccetto per Napoli. Raccontava con molto sale le più strane storielle della sua gioventù, e faceva rider» la gente, non me, poco disposto al riso e sdegnoso di quel genere di discorsi. Un giorno ebbe un invito a pranzo dal marchese Puoti. Egli ne andò in sollucchero, e scrisse a zio Peppe: «Non vi dico nulla dell’invito marchesiano. Ah! Peppe, fidiamo nella stella di Ciccillo e preghiamo Iddio che niente arresti i suoi passi».
A Morra s’era in una certa apprensione intorno al mio stato. A forza di vivere fra quella gente, papà s’era fatto un cervello morrese, voglio dire che vedeva il mondo attraverso di Morra. Spesso diceva: — Bisogna mostrare a Morra— ; ovvero: — Cosa dirà Morra? — Appena giunto, empi tutto il paese di mia grandezza, e raccontò che m’ero già messo in sofà e poltrona, e facevo sonare il borsellino delle mie piastre di argento, a gran consolazione della famiglia, e massime di zio Peppe, che mi voleva bene e credeva a quelle fole. Mi mandarono subito mio fratello Vito, come s’era convenuto. Ma se a Morra ero un ricco, a Napoli ero poco meno che un pitocco. L’affare si faceva serio. I danari che mi parevano inesauribili, talora non bastavano al vitto. Un dí venne Enrico, mentre io stavo a capo chino sopra un Cinonio, ché fin d’allora ero miope. — E come si fa? — interruppe lui, — quattrini non ce n’è, e stamane non si mangia. — Il peggio è, — -diss’io, — la nostra vergogna. Che dirà Annarella? ci piglierà per due straccioni. — A questo c’è rimedio, — rifletté lui. — Diremo che siamo stati invitati a pranzo. Intanto come si fa? — Faremo danari, — diss’io. E mi posi in giro. Che brutta giornata fu quella! Salivo le scale; ma non osavo avvicinare la mano al campanello, e morivo di vergogna, e tornavo giù. Cosi andando con la faccia dimessa, mi sentii dire: — Oh De Sanctis! — Era Leopoldo Rodinò, lungo, pallido, asciutto, con una bella sottoveste bianca. E — onde vieni? cosa fai? — Cominciarono i soliti parlari. — A proposito, — diss’egli, — io ti debbo ancora pagare le copie che mi desti dei Santi Padri — , e mise le mani nel taschino. — Fai il tuo comodo — , dicevo io, guardandogli le mani. — Prendi; altrimenti mi dimentico — . E io, tra prendere e non prendere, intascai le due piastre, che mi venivano da alcune copie, dategli per uso del suo studio, delle Vite dei Santi Padri di Domenico Cavalca, libro messo nuovamente a stampa per cura mia e di mio cugino, con una dedica al marchese Puoti. Feci la strada d’un fiato, e non capivo in me dalla gioia, figurandomi la faccia di Enrico. E così per ischerzo feci prima la faccia brutta, raccontando con una mestizia affettata quell’inutile scendere e salir per l’altrui scale. Ma quando venni al Rodinò, e mostrai le piastre, mi abbracciò. — Oggi doppia razione — , gridai io. E chiamai Annarella e diedi gli ordini trionfalmente.
Ma non perciò le nostre condizioni erano migliori. Io me ne apersi con don Luigi Isernia, presso il quale facevo la pratica, e il poveruomo, che capì il latino, mi disse subito che da lui non avrei cavato mai neppure un tre calli, e mi promise di presentarmi a un avvocato famoso e danaroso. Era un tal don Domenico, non mi ricordo più il cognome; abitava in via Costantinopoli. Io ci fui, e feci un’anticamera di circa due ore, tra le più vive impazienze. — Che modo è questo? — dicevo tra me, pestando dei piedi. — Come foss’io un servitore! Questo signor Domenico non conosce il prezzo del tempo — . Finalmente eccolo lì quel signore, bocca ridente, che mi sbuca da una stanza, con splendore di orologio e catenella, col panciotto ben teso, e gitta l’occhio verso di me, come per caso, e dice: — Ah! voi siete qui? Andate a studio; il mio giovane vi dirà quello che avete a fare — . E mi voltò le spalle, il grand’uomo. Entrai. Un giovinotto sbarbato m’indicò certe carte che dovevo copiare. — Ma io non sono un copista — , dissi, mutando colore. Egli alzò le spalle con un piglio insolente, e io abbassai il capo e copiai. Uscii invelenito. Mi tenevo qualcosa di grosso, poco meno che un Cicerone in erba. — -E questo vuol dire fare l’avvocato? non ne voglio più sapere — . E feci il giuramento di Annibale, e non vidi più in vita mia né processi, né tribunali. Toltami così questa fisima dell’avvocheria, i miei studi di lettere presero un nuovo sapore, e mi ci strinsi di più, come a naturali compagni per tutta la mia vita.
Raccontai il fatto al marchese Puoti, che ne rise assai, e mi volle dimostrare ch’io era nato professore. Il maestro di scuola si diruggini ai miei occhi, e prese un aspetto simpatico. Pensavo che di tutte le professioni quella di maestro aveva meno di servile, anzi era addirittura una professione di comando. Io non era affatto superbo, e non volevo comandare a nessuno; anzi stavo contento, per naturale modestia, all’ultimo posto; ma quell’ultimo posto lo volevo prendere io, e non volevo che mi fosse assegnato da altri; mi piaceva essere uguale tra uguali, e a chi pretendeva starmi al disopra mi ribellavo.
Il Marchese era allora passato ad abitare in un secondo piano, nella via Costantinopoli. La gioventù affluiva sempre, ed egli affidava a me i più ignoranti, a fine di scozzonarli, perché la scuola non aveva più con essi quell’aria di nuovo e di curioso, quello splendore, e il Marchese ci si seccava visibilmente. Amava meglio starsene tra pochi valorosi già sperimentati. Quel fare atto di pazienza coi novizi ritrosi e riottosi poco gli andava. Cessato il colera, se n’era venuto di Arienzo, con certi grossi quaderni scritti di suo pugno. Era una specie di nuova rettorica immaginata da lui, e che egli battezzò Arte dello scrivere. C’era una divisione dei diversi generi dello scrivere, accompagnata da regole e da precetti. Aristotile, Cicerone, Quintiliano, Seneca erano la decorazione. — O mi metteranno alla berlina, o questo è assolutamente un capolavoro — , così diceva, narrando per quali vie era giunto alla grande scoperta. A quel tempo erano in gran voga gli studi filosofici, e il Marchese, seguendo la moda, volle filosofare anche lui, e dava alle sue ricerche un aspetto e un rigore di logica, ch’era veste e non sostanza. E non gli sarebbe mancata la berlina; ma lo salvò un certo suo natural buon senso. Facendo olocausto delle sue pretensioni metafisiche, si limitò a quella parte letteraria, nella quale aveva esperienza e autorità. Intanto, alzando l’animo agli studi rettorici, se ne rimetteva a me per gli studi di lingua e di grammatica, e in poco di tempo il numero dei giovani miei crebbe tanto che facevano ingombro nelle sale del Marchese. Egli, serbati per sé i migliori e i più anziani, ai quali dava lezione tutte le domeniche, mi trovò una sala al vico Bisi, nella quale veniva la moltitudine. Così cominciò la mia scuola sotto il suo patronato.
Un lunedì andavamo, il Marchese e io, per via Maddaloni, ed eccoci di contro un tal S... da Lecce, fresco fidanzato d’una giovane e bella nipote del Marchese. Costui, con la familiarità insolente dei giovani patrizi ineducati, presa la mano del Marchese, mi sbirciò dicendo: — Ah! il professorino — . Questo nome, che il Marchese mi soleva dare così per vezzo, diveniva in quella bocca e su quella faccia un dispregiativo. — Un professorino! — disse il Marchese, piantatosi fieramente, come se l’offeso fosse lui, e guardandolo con occhio severo. Quella guardata l’amico non se la sarà dimenticata più. Un «ho!» lungo e sgraziato fu la sua risposta. E volle accompagnarci. Arrivammo in tre nella sala. Il Marchese parlò una mezz’ora così a braccia, come gli veniva, e gli veniva sempre bene, perché parlava con abbondanza di cuore, senza frasi e senza affettazione. Fu applauditissimo. Poi venni io, e con voce tremula lessi non so quanti periodi sulla grammatica e sulla lingua. Il Marchese mi faceva animo coi suoi «bene!», e anche i giovani mi battevano le mani per incoraggiarmi, e più di tutti il mio leccese, che mi confuse poi di complimenti. Cosi cominciò la scuola preparatoria, che doveva condurre a quella del marchese Puoti.
Si dice che le sventure non vengono mai sole. Simile può dirsi delle fortune. Vi sono certi tempi nei quali i casi fortunati si succedono come le ciliege, e sembra che domini una buona stella. Appunto in quel momento critico della vita mi rise la mia stella. Il Marchese mi presentò al duca di Sangro come suo collaboratore. Era un bravo gentiluomo del vecchio stampo, di modi cortesissimi, e leale sotto apparenze diplomatiche. Presi a dar lezione ai due suoi figliuoli, Nicolino e Placido, cari giovanetti. Placido mostrava maggiore ingegno e studiava più, e io me ne promettevo molto bene. Il Marchese si trovava allora nel più alto della sua fortuna; aveva stretta amicizia col principe Filangieri, potentissimo in Corte. Re Ferdinando mostrava di volersi riconciliare coi permanili. Le nomine di Mazzetti, di Galluppi, di Nicolini fecero buon effetto sulla pubblica opinione, e più ancora la nomina del marchese Puoti a ispettore degli studi nel Real Collegio Militare. Il partito dell’oscurantismo accennava a voler cadere, quantunque, mandato via monsignor Colangelo, gli rimanessero, valido appoggio presso al Re, Cocle e Delcarretto. Il Marchese, lieto della nomina, rendette al Filangieri quelle grazie che poté maggiori, e, accompagnato da lui, fece la prima visita ufficiale. Subito pensò a me, e mi mandò al Principe con una sua lettera. Feci le scale trepido, pensando a Gaetano Filangieri, e gittavo di qua, di là. sguardi furtivi, per vedere, chi sa? la Giovannina o la Teresa, figlie del Principe, amabili bellezze, delle quali il Marchese aveva piena la bocca. Fui fatto entrare in una camera addobbata con molta semplicità, dov’era il Principe. Rimasi piantato e teso innanzi a lui, mentre egli leggeva. Il Principe era una bella persona, di modi squisiti. Parecchi segretari gli erano attorno, ai quali dettava; aveva l’aria della fretta.— Va bene, — disse a me, sorridendo, con un gesto della mano, che significava: «Ora potete andare». Ma io non capii, e rimaneva li piantato e teso. — Va bene, — replicò egli, calcando sulla parola, — dite al Marchese che mi farò un intrigante per voi — . Io, ignaro degli usi e timido e goffo, non mi movevo, credendo non mi fosse lecito andar via senza sua licenza. Egli, visto il mio imbarazzo, disse: — Addio, signor De Sanctis, mi saluti il Marchese — . Chinai appena il capo, e teso teso me ne uscii. Per le scale mi andavo correggendo, e dicevo che avrei dovuto far questo o quello. «Il Principe si sarà fatta una gran risata a spese mie», conchiusi. In effetti, il Marchese mi riferì che il Principe mi aveva battezzato un tedesco. Entrando io tra gli altri giovani, egli, ridendo, esclamò: — Ecco il professor tutt’un pezzo — . Talora mi chiamava per celia uno svizzero. Io mi faceva rosso rosso e non rispondeva. Intanto quel bravo Marchese s’era fatto di fuoco per me.
Un giorno stavamo a pranzo, core a core, Enrico ed io. Fumavano quei bei maccheroni di zita, ed io li divorava con gli occhi, quando si udì sonare il campanello. — Chi è? chi non è? — Annarella corre e toma subito. — Gli è un signore tutto ricamato d’oro, che vuol sapere se abita qui De Sanctis. — Ma è uno sbaglio, — diss’io. — Ricamati d’oro non vengono a casa nostra, — rifletté Enrico, — vanno a casa di principi. — E costui dev’essere qualche principe, — notai io. — Annarella, digli che ha sbagliato — . Annarella torna, e dice che quel galantuomo non ha sbagliato, e che la casa è questa e che cerca Francesco De Sanctis, e ha una carta per lui. — Alla buon’ora! Fatti dare dunque questa carta — . Tornò e vidi un plico con un gran bel suggello, che mi fece l’effetto dell’uomo ricamato d’oro, e quasi non volea romperlo. — Fai presto, — gridava Enrico battendo i piedi. E io aprii e vidi il nome del re con tanto di lettere. — Sarà un passaporto, — dissi. Ma quando vidi ch’era il decreto di mia nomina a professore del Collegio Militare, ci levammo in piè e ci abbracciammo, e se non era per vergogna di Annarella, ci saremmo messi a ballare, così pazza allegrezza c’invase. Annarella ci guardava trasognata, con la bocca mezz’aperta, come volesse dire e non dire. — Ah! quel signore — dicemmo a due, e fummo là dove quel brav’uomo ci attendeva. — Grazie, grazie, — diss’io con effusione.— Signori, ’o rialo, — diss’egli, cavandosi il berretto. Io guardai Enrico, Enrico guardò me: in due potemmo appena fare un carlino. Egli parti borbottando, e forse dicea: — Che sfelienzi! — E noi ci guardammo, e ridemmo tutti e due, vedendo quel principe ricamato d’oro divenire un usciere gallonato, che faceva il pezzente. Annarella voleva sapere cosa era seguito. — È seguito, — diss’io — che domani avrò tanti danari, che non saprò cosa farne. — Eh! ne farete un abito a Rosa, la mia cara figliuola — . Glielo promisi; e mangiammo i maccheroni freddi con buonissimo appetito.
Era già qualche mese ch’io dava lezione ai figli del marchese Imperiale, Augusto e Orecchino. Giunsi lá gioioso, e narrai la mia buona ventura al padre.— Chi è stato il tuo Santo?— mi domandò. Io non capiva. — Il tuo merito è grande, senza dubbio, ma senza Santi non si va avanti — . Io capii e dissi: — Il mio Santo è stato Basilio Puoti.