La fuga di Papa Pio IX a Gaeta/Capitolo VII
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VII.
Tutto era pronto per la partenza, che doveva aver luogo il 24 Novembre alle sei del mattino, allorchè i miei fratelli vennero per vederci a montare in carrozza.
Quale fu però la loro sorpresa quando seppero che io mi sarei messa prima in viaggio e sola; e che il Conte partiva più tardi dovendo terminare alcuni affari d’ufficio indispensabili e che mi avrebbe raggiunto ad Albano, ove io doveva aspettarlo! Quante cose dissero e ripeterono, per indurre il conte ad accompagnarmi e almeno a permettere che uno di loro andasse con me; tutto fu invano: e levammo, tanto contro l’offerta del loro accompagnamento come anche contro l’insistenza che mio marito dovesse partire insieme, molle eccezioni apparenti, cui si arresero infine, sebbene non ne fossero persuasi. Presi congedo da’ miei fratelli, li abbracciai, e montai nel legno con mio figlio, il suo aio, e due domestici.
Erano le sei e tre quarti quando partimmo da Roma. Così arrivammo ad Albano.
Il segreto del travestimento e della partenza del papa era stato frattanto comunicato, oltre a mio marito e a me, a diverse altre persone sicure, che si erano preparate del pari ad eseguire la parte che loro era stata affidata. Giunta l’ora fissata, l’ambasciadore francese, Duca di Harcourt, si recò al palazzo Quirinale e domandò una udienza dal Papa. Erano le cinque della sera quando entrò nella sua stanza. In presenza dell’ambasciatore il Papa depose il suo solito abbigliamento, la lunga sottana bianca, il camauro di egual colore, le pantoffole di marrocchino rosso colle croci ricamate sulle tomaie. Indi si vestì da semplice prete, e pose gli occhiali e abbandonò la stanza per un uscio che conduceva in appartamenti deserti, in comunicazione col corridoio della guardia svizzera e non più aperti da chi sa quanti anni. Il duca di Harcourt rimase così solo indietro nella stanza del Papa, ansiosamente attendendo se si udiva il rumore delle ruote di quella carrozza che erasi fatta venire e andare più volte come per il solito servizio del palazzo, e che doveva condurre via il Papa. Già egli era in pena, perchè non sentiva nella corte alcun rumore, quando rientrava improvvisamente il santo Padre con una candela di cera in mano, dicendo di non essere stato in grado nonostante tutti gli sforzi di aprire il vecchio uscio del corridoio. Poco mancò che l’ambasciatore fosse svenuto dallo spavento. Per fortuna accorse uno dei più intimi impiegati della Corte del Santo Padre, il cameriere Benedetto Filippani, colla notizia che l’uscio era stato finalmente dischiuso. Retrocessero quindi ancora una volta da quella parte, raggiunsero il corridoio e lasciarono l’uscio socchiuso, per non perdere ancora tanto tempo nel chiuderlo come nell’aprirlo. Questa circostanza avrebbe quasi mandato a vuoto tutta l’impresa. Imperocchè un ficcanaso affaccendato, di quelli che altre volle erano frequenti in Roma, passando per caso nel corridoio e vedendo aperto l’uscio, volle come cameriere di servigio sapere assolutamente il motivo di queste novità, e incominciava già a tempestare il buon conte Gabriele Mastai, fratello maggiore del Papa, di clamorose domande riguardanti quest’uscio. Fortunatamente l’affare rimase lì, e il Papa accompagnato dal suo fedele cameriere abbandonò senza ostacolo e con tutta sicurezza il palazzo, passando per la parte principale in mezzo alle numerose sentinelle e guardie civiche ivi collocate, le quali non lo guardarono nemmeno, e non vi fecero alcuna attenzione.