Terra, acqua, energia in un rapporto sullo stato del Globo

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Terra, acqua, energia in un rapporto sullo stato del Globo
La fame del Globo Cap. 2


da Genio rurale, XLIX, n.4, aprile 1986 online (Rivista I tempi della terra)

Per millenni l'uomo si è appropriato delle risorse della natura senza alcuna preoccupazione per le ripercussioni delle proprie azioni sugli equilibri idrologici, climatici, biologici: per le sue limitate capacità di prelievo il mondo non aveva confini. Le trasformazioni antropiche si realizzavano, peraltro, con lentezza secolare, così che le associazioni floristiche e zoologiche si riplasmavano lentamente, parallelamente agli interventi delle società umane, che, seppure senza percepirlo, erano indotte ad adeguare la propria opera alle reazioni della natura. Gli strumenti di alterazione della natura assicurati alle società umane dalla scienza e dalla tecnica consentono di sovvertire in pochi anni, o mesi, l'assetto millenario di intere regioni, determinando effetti di ordine successivo destinati a manifestarsi nell'arco di decenni, quando non sarà più possibile correggere gli interventi che li hanno prodotti. L'uomo dispone degli strumenti per distruggere il mondo in cui vive, e forze prepotenti, dalla crescita demografica a quella industriale, lo inducono al consumo incontrollato delle risorse indispensabili alla vita futura delle società civili.

Maturate in occasione delle recenti crisi energetiche e alimentari, delle avvisaglie di future crisi idrologiche, le prime riflessioni sulle conseguenze del ritmo assunto dalla modificazione della natura, un istituto di ricerca americano propone il confronto sistematico dei risultati delle nuove indagini mediante la pubblicazione di un rapporto annuale sullo stato delle relazioni tra l'uomo e il Pianeta. Coordinato da uno dei protagonisti delle polemiche sugli equilibri ambientali degli anni recenti, costruito attraverso l'esame comparato dei dati elaborati da centinaia di organismi diversi, il rapporto rappresenta fonte doviziosa per aggiornare le conoscenze di quanti, ricercatori, responsabili politici e amministrativi, operano sul terreno dei rapporti tra la società umana e le risorse naturali.

Dall’etica del pioniere alla coscienza dei limiti

Tra le percezioni nuove che stanno imponendosi alla coscienza degli uomini che vivono nei decenni di cui siamo testimoni, un rilievo preminente viene assumendo la consapevolezza che ogni manifestazione della civiltà umana che coinvolge la natura è destinata a produrre conseguenze che, seppure immediatamente non percettibili, sommandosi ed interagendo produrranno effetti che si ripercuoteranno, necessariamente, sull'economia umana. Ogni operazione o attività esercitata per ritrarne un’utilità oggi potrà, ove non ne siano misurate le implicazioni, provocare, domani, danni maggiori dei benefici che avrà assicurato. L’enunciazione è la traduzione nel sfera dei rapporti tra l'uomo e la natura del principio di causa ed effetto, il principio di cui la fisica ha proposto una delle applicazioni fondamentali nelle leggi della termodinamica, la cui estrapolazione alle relazioni tra l'uomo e la Terra, forse abusata, presenta elementi di indubbia suggestione. Se, infatti, non è possibile eseguire alcun lavoro meccanico senza dissipare, in forma di calore, una parte dell'energia impiegata, non è difficile desumerne, seppure in termini posti al confine della metafora, che l'inevitabile produzione di reflui, calore, sottoprodotti, emissioni gassose, delle attività umane, praticamente insignificanti per gli equilibri dell'ambiente fino a quando costituiscano fenomeno sporadico, può assumere, al loro intensificarsi, dimensioni tali da modificare le costanti ambientali entro le quali le attività umane si realizzano. L'intensificarsi della manipolazione, da parte dell'uomo, delle risorse della terra, la potenza crescente di macchine e strumenti che impiega, potrebbero provocare l'alterazione delle condizioni necessarie per la sua sopravvivenza. Rigorosamente determinato per la fisica, altrettanto rigorosamente tradotto in formule chimiche, il principio per cui non può esservi operazione meccanica senza dissipazione di energia non si era mai imposto alla riflessione scientifica come criterio per la comprensione delle relazioni tra l'uomo e la natura. Nel proprio cammino millenario le civiltà umane si sono confrontate, infatti, con spazi vergini da conquistare, risorse naturali da sfruttare: il loro impiego dei minerali e delle risorse della terra ha sempre prodotto i propri effetti, eventualmente negativi, in tempi tanto ampi da impedire la percezione che le conseguenze, l’intensificazione delle alluvioni o la salinizzazione di una pianura, fossero conseguenza di azioni umane che si protraevano, senza danni apparenti, da secoli.

La storia registra la parabola di società che si sono perpetuate nei secoli e nello spazio segnato da rigidi confini geografici, entro i quali i limiti delle tecnologie praticate rendevano invalicabili le soglie di appagamento dei bisogni umani, impedendo di superare il numero dei componenti delle stesse società fissato da equilibri immutabili. La civiltà che consideriamo tale per eccellenza, quella europea, è stata forse la sola a non percepire, o riconoscere, limiti invalicabili all’intensificazione delle attività umane sulla Terra: sospinta anche da una lettura dei testi biblici che erigeva la conquista del mondo a mandato divino, dall'area d'origine sui bordi del Mediterraneo si è dilatata a tutti i continenti soppiantando, in alcuni, società dotate di capacità di appropriazione meno prepotenti, diffondendo, in altri, dove popolazioni dotate di maggiore resistenza demografica hanno difeso la propria sopravvivenza, la propria impronta inconfondibile nei rapporti con la natura.

Costituisce ispirazione peculiare della civiltà occidentale, la sicurezza della disponibilità illimitata della Terra e delle sue risorse, la certezza di poterle impiegare, senza limiti, ad appagare bisogni umani. Portatrice della tradizione secolare di incondizionata appropriazione, sorretta dall'autorità di tutte le chiese cristiane, pronte a benedire ogni conquista coloniale, l’anima dell'uomo occidentale è ancora, dopo che la scienza e la tecnica hanno fatto del consorzio degli uomini l'arbitro, quindi il responsabile, degli equilibri del Pianeta, l'anima del pioniere alla conquista di continenti dalle risorse inesauste da sottrarre a selvaggi, bisonti e serpenti. La consapevolezza che la Terra è contesto di spazi e risorse finite, che lo sfruttamento di ciascuna porta verso il suo esaurimento, che qualsiasi impiego di risorse si realizza con la dissipazione di residui, chimici o fisici, che si riversano nell'ambiente determinandovi effetti ineluttabili, è stata imposta, all'alba degli anni '70, dalla constatazione degli effetti dell'impiego dei primi insetticidi, lo strumento con cui intere società si sono emancipate, nell'arco di un decennio, da piaghe secolari, prime fra tutte la fame e la malaria, le cui molecole, biologicamente indegradabili, risultavano distribuite, al termine del decennio successivo, ubiquitariamente sulla superficie del Globo, con concentrazioni particolari, provocate da fenomeni imprevedibili, in regioni distanti migliaia di chilometri da quelle sulle quali erano state effettuate le irrorazioni.

La metafora del lago e della ninfea

Il primo grande impegno per imporre alla coscienza dell'umanità la necessità di ridisegnare i propri rapporti con la natura secondo un’etica diversa da quella tradizionale della civiltà occidentale fu esperito, nel 1971, dal Club di Roma, un sodalizio di esponenti dell’economia e della scienza che incaricò il Machusetts Institute ofTechnology, culla, attraverso l'elaborazione della teoria dei sistemi, dell'informatica moderna, di elaborare un sistema di equazioni che definisse le relazioni tra le risorse naturali della biosfera e i consumi umani da cui potesse ottenersi, attraverso l’elaborazione elettronica, la risposta alle domande che si potessero formulare, variando le ipotesi di sfruttamento delle risorse e di emissioni inquinanti, sugli equilibri futuri del Pianeta.

Assumendo a fondamento l'assioma per cui la terra disponga di riserve di materie prime e di fonti energetiche legate da correlazioni multiple, tali per cui l'alterazione di una produca alterazioni, di ordine diverso, su tutte le altre, all'istituto americano era affidato il mandato di ricercare la definizione numerica delle correlazioni tra le grandezze parte del sistema, così da misurare le conseguenza sull’insieme dell'intervento che si supponesse su una qualsiasi. Predisposto l'ordito di dati e relazioni, dalla conoscenza dei consumi correnti delle fondamentali materie prime, delle disponibilità di acqua e di energia, il progetto mirava a rendere possibile la stima dell'arco di anni entro il quale è prevedibile l'esaurimento di ciascuna risorsa, o una dispersione nell'ambiente di ciascuna classe di scorie inquinanti tale da pregiudicare esigenze essenziali per la continuità dell'economia, della stessa vita. Utilizzando con efficacia le capacità della grande comunicazione, nel testo con cui presentava, nel 1972, i risultati del lavoro, e ne illustrava il significato, Dennis Meadows, responsabile del progetto, proponeva una domanda inquietante. Una pianta acquatica prolifera in un lago, spiegava, la sua capacità di riproduzione ne consente il raddoppio ad ogni generazione: supponendo che le generazioni i succedano al ritmo di una al giorno, di quanti giorni si disporrà per arrestare l'invasione quando avrà coperto metà del lago?

La risposta è, evidentemente, un solo giorno, una risposta che sottintendeva il significato complessivo del lavoro dei ricercatori di Boston, che con il proprio rapporto esprimevano il convincimento che l’umanità avrebbe proceduto accrescendo lentamente, nei millenni, l'intensità del proprio sfruttamento della terra, senza menomarne, tuttavia, le capacità di reazione e di rigenerazione, ma che negli ultimi cinque decenni della propria storia, dilatando ad un ritmo senza precedenti il proprio dominio della natura, avrebbe apprestato gli strumenti con cui distruggere se medesima. Ove alla nuova potenza essa non sappia associare una nuova capacità di previsione e di controllo, il suo potere può trasformarsi, quindi, nell'arma per erodere le fondamenta della propria sopravvivenza: essa sarebbe giunta, cioè, al punto in cui, senza la radicale revisione dei propri rapporti con le risorse, scatenerebbe, in tempi tragicamente brevi, il meccanismo della propria distruzione.

L'allarme dell'istituto americano non mancava di suscitare le repliche più accese dei paladini delle sicurezze antiche, che opponevano al teorema di Meadows e dei suoi collaboratori un lungo elenco di constatazioni rassicuranti, riaffermando il dogma del riequilibrio automatico degli interventi dell'uomo e delle reazioni della natura. La crisi energetica che erompeva nell’autunno del 1973 pareva costituire la dimostrazione, due anni dopo la pubblicazione del rapporto, della fondatezza della previsione. I consistenti risparmi di energia di cui si rivelavano capaci le nazioni industriali dopo il rincaro del greggio dimostravano, peraltro, la capacità dell'economia umana di reagire agli stimoli della penuria modificando le pratiche di consumo consolidate quando il petrolio costituiva risorsa illimitata, provando, da un lato l'esattezza delle previsioni di penuria, dall'altro la reattività dei modelli di consumo: un’acquisizione a favore dei sostenitori di entrambe le tesi a confronto.

Argomenti a favore delle parti opposte forniva anche l'esito della contemporanea crisi cerealicola, che dopo tensioni dimenticate, da un quarto di secolo, per l'accaparramento delle riserve disponibili, sfociava in una serie di annate eccedentarie, che avrebbero aggravato, tuttavia, denunciavano gli esperti, i fenomeni di erosione del suolo in tutte le grandi aree di produzione. I vistosi incrementi produttivi non interessavano che marginalmente, peraltro, i continenti dove maggiore è la quota della popolazione che soffre di malnutrizione, una piaga che coinvolge, sul planisfero, quasi un miliardo di esseri umani.

Il rapporto annuale di un istituto americano Promosso da un gruppo di personalità preminenti dell’economia internazionale e della ricerca scientifica, realizzato da uno degli organismi di ricerca di maggiore prestigio al Mondo, il rapporto sui limiti dello sviluppo del Massachusetts Institute of Technology vanta il merito di avere imposto, più direttamente al mondo della cultura, indirettamente a quello della politica, il problema, non più eludibile, dei vincoli che obbligano la società umana a considerare la finitezza della sfera naturale entro la quale realizza le proprie attività. Qualsiasi sia il giudizio che possa proposi, a quattordici anni di distanza, delle sue formule matematiche e delle sue conclusioni, esso vanta un posto tra le pietre miliari della storia dei criteri con cui l'uomo ha operato lo sfruttamento delle risorse del Pianeta.

Costituisce creatura di sfere culturali prossime al primo organismo il centro di indagine e divulgazione sui problemi degli equilibri ambientali fondato, a Washington, nel 1975, col nome di Worldwatch Institute. Nato dall'accordo di istituzioni internazionali e statunitensi, si propone di raccogliere, ordinare ed elaborare i dati rilevanti per comprendere l'evoluzione dello sfruttamento delle risorse terrestri, misurarne le conseguenze, verificare le trasformazioni che si verificano nelle relazioni tecnologiche ed economiche tra le società umane e il Pianeta. Dotato di un organico oltremodo contenuto, la sua guida è affidata a Lester Brown, già direttore del Servizio economico del Ministero dell'agricoltura di Washington, l'economista il cui gusto per la demolizione dei convincimenti più radicati ha acceso, negli anni recenti, alcune delle polemiche di maggiore risonanza sulle relazioni tra l'agricoltura degli Stati Uniti ed i mercati del Mondo.

Abbandonata la forma matematica del rapporto del Massachusetts Institute of Technology, l'organismo di Washington si propone gli obiettivi complementari della raccolta più tempestiva, e della diffusione più rapida, dei dati sulle risorse e sull'ambiente che un numero crescente di istituzioni nazionali e internazionali propone a conclusione delle indagini dei propri apparati di ricerca. Al perseguimento dei due obiettivi procede attraverso sintetici studi settoriali, dalla fondazione l'espressione caratteristica del proprio lavoro, e con i volumi di dimensioni maggiori in cui compone in quadri più ampi i risultati di indagini sintetiche. Ha aggiunto alle proprie pubblicazioni un rapporto annuale dal titolo State of the World, l'ambiziosa sintesi che, creato un flusso sistematico di dati, ha realizzato, per la prima volta, nel 1984, di cui il 1985 ha registrato la seconda edizione.

Al di là della suggestiva metafora di Meadows lo stato del Globo non muta, palesemente, da un anno a quello successivo: la constatazione suggerisce la domanda sulla coerenza scientifica di un rapporto annuale sulle relazioni tra l'uomo e le risorse. Se è vero, peraltro, che nonostante la rapidità assunta dalle trasformazioni dell'ambiente, il quadro del Pianeta non si trasforma nell’arco di dodici mesi, muta rapidamente, da un anno all'altro, la conoscenza dei fenomeni in corso, dei quali centri di ricerca dalle competenze più varie propongono studi sempre più numerosi e circostanziati. Raccolti e classificati, essi consentono, a distanza di pochi mesi, nuovi, significativi rilievi: ne fornisce la prova il confronto tra il rapporto del 1985 e quello che lo ha preceduto: pure riproponendo più di un dato dell’edizione precedente, la seconda pubblicazione dispiega, infatti, una messe considerevole di dati e comparazioni originali. Proponendosi di fornire un quadro organico, gli estensori non rifuggono, infatti, ove lo suggerisca la natura dei dati di più recente acquisizione, dall'affrontare un tema nuovo, enucleando sinteticamente, su un problema sul quale non dispongano di notizie originali, considerazioni proposte nell’edizione precedente.

Più uomini da sfamare, meno terra per alimentarli

Seguendo un disegno di considerevole rigore, dopo le riflessioni introduttive del primo capitolo, nel secondo il rapporto propone l'inventario delle disponibilità della prima delle risorse necessarie per l’alimentazione dell'umanità, la terra. Nella storia dell'umanità, scrive Brown che ha curato personalmente il capitolo, l'aumento della produzione di alimenti è stata realizzata, tradizionalmente, estendendo la coltivazione a nuove terre piuttosto che aumentando le rese delle terre coltivate, la soluzione generalmente praticata, negli ultimi due secoli, anche dalle nazioni d’Europa, che hanno affrontato le esigenze alimentari determinate dalla Rivoluzione industriale realizzando grandi opere di bonifica o inviando coloni a dissodare terre vergini in altri continenti. Seguendo una legge antica quanto la civiltà all'aumenta della popolazione ha corrisposto, anche nell’Ottocento, l'estensione dei dissodamenti sui suoli vergini.

Il processo millenario si è interrotto, repentinamente, a metà del Novecento, quando, per l’esaurimento delle riserve di suoli coltivabili, l’entità dei dissodamenti ha iniziato a contrarsi rispetto all’aumento della popolazione: seppure, fatti, in alcune regioni del Mondo la coltivazione stia tuttora conquistando terre nuove, nella maggior parte dei paesi le superfici coltivate hanno toccata limiti invalicabili, in un numero cospicuo le terre più povere vengono, anzi, abbandonate, ed i processi di urbanizzazione sottraggono alla superficie coltivata le aree necessarie alla costruzione di case, strade, infrastrutture. L'inversione della tendenza millenaria si è verificata, secondo il livello dello sviluppo e le caratteristiche geografiche, in tempi diversi nei diversi paesi: nel 1955 nella Germania Federale ed in Ungheria, che dall'anno dell'estensione massima della superficie agraria al 1980 hanno perduto, rispettivamente, il 13,9 ed il 6,6 per cento delle terre coltivate; nel 1960 in Giappone ed in Francia, che hanno perduto, rispettivamente, il 19,6 ed il 13,3; nel 1963 in Cina, che da allora ha perduto il 5,1. Sommando acquisizioni e perdite, la superficie coltivata del Globo è cresciuta, durante gli anni '70, del 3 per mille all'anno, se ne prevede la crescita, durante gli anni '80, ad un tasso del 2 per mille, che si ridurrà all'1,5 nell’ultimo decennio del secolo: alla boa del 2000 essa sarà cresciuta, rispetto al 1980, del 4 per cento, mentre la popolazione sarà aumentata del 40. Il computo può essere tradotto in termini di superficie pro capite, di cui dal 1950 si registra la drastica contrazione: gli 0,24 ettari di suoli arativi idonei alle colture cerealicole a disposizione, mediamente, di ogni abitante della Terra alla prima data si sono contratti agli 0,15 di oggi.

La necessità di una produzione maggiore su una superficie immutata ha determinato un'autentica esplosione dell’impiego dei mezzi tecnici: contro i 5,4 chilogrammi di fertilizzanti industriali impiegati, per la produzione di cereali, per ogni abitante della Terra, all’inizio del periodo, se ne registrano 25,4 alla sua fine. Siccome la disponibilità di alimenti non è, per la media degli abitanti del Globo, migliorata, la coppia di dati attesta l’entità di un impegno produttivo che nessun mutamento ha determinato nella situazione dei milioni di essere umani che languono nella fame e nelle malattie che ne derivano.

Se l’estensione delle terre disponibili costituisce il metro essenziale per definire le capacità della Terra di alimentare i propri abitanti, la valutazione della qualità dei suoli costituisce il criterio complementare per misurare la produttività. A determinare la produttività di un terreno agricolo concorrono fondamentalmente due fattori: la ricchezza del suo strato superiore, quello entro il quale svolgono la propria attività biologica gli organi radicali, la sua disponibilità naturale o artificiale di acqua.

Lo spessore e la composizione dello strato superiore del terreno dipende, ricorda l’agronomo statunitense, dal rapporto tra la quantità formata, in un arco di tempo predefinito, dagli agenti della pedogenesi, e quella asportata, nel medesimo arco temporale, dagli agenti dell'erosione: se le pianure più fertili di tutti i continenti hanno avuto origine dal prevalere dei primi, tutte le aree attualmente sterili ubicate in regioni naturalmente ospitali alla vegetazione sono il prodotto del prevalere dei secondi. Il secondo ordine di fenomeni è stato quasi sempre indotto e favorito dall'uomo attraverso pratiche di sfruttamento, pascolo e coltivazioni, di intensità superiore alla capacità del suolo, in ciascun ambiente, di rigenerare, dopo ogni asportazione, il manto vegetale che alimenta e che, reciprocamente, lo protegge.

Il bilancio del processo compilato, per le grandi regioni agrarie del Globo, mediante i dati raccolti dalle fonti disponibili, dal Worldwatch Institute, dimostra che la pressione dell'agricoltura sui suoli è superiore, su interi continenti, alle loro capacità di rigenerazione: a causa di quella pressione l'erosione predomina sulla formazione dei suoli, destinando superfici immense, in tempi di diversa ampiezza, alla sterilità.

I fiumi indiani disperdono ogni anno nell’Oceano 4,4 miliardi di tonnellate di suolo, che i processi pedogenetici non sono in grado di riformare; il Nilo ed i venti ne asportano un miliardo dall'acrocoro etiopico: l'esperto americano che stimò il dato, nel 1978, proclamò che gravava sul paese la condanna di una biblica carestia, una previsione che non avrebbe tardato, tragicamente, ad avverarsi. Complessivamente, Brown stima che le terre coltivate perdono ogni anno 25,4 miliardi di tonnellate di suolo fertile al di sopra delle capacità di rigenerazione naturale: una perdita destinata a tradursi in una proporzionale, seppure dilazionata nel tempo, perdita di produttività.

Una minaccia altrettanto grave dell’erosione per la capacità produttiva delle terre coltivate è costituita dalla salinizzazione, un fenomeno che si verifica nelle aree irrigue in cui acque a contenuto salino anche esiguo siano impiegate secondo pratiche che determinino il deposito dei sali in soluzione nello strato superiore del suolo: il risultato è una progressiva sterilizzazione. Esempi di salinizzazione si constatano in alcune delle pianure irrigate dai più ambiziosi progetti idraulici effettuati, nel Terzo Mondo, da paesi che nella loro realizzazione hanno investito quote ingenti delle proprie risorse finanziarie contando di ritrarne un incremento significativo tanto delle produzioni destinate al consumo interno quanto di quelle destinate all'esportazione. La superficie perduta ha superato 12 milioni di ettari in due paesi dalla caratteristica economia irrigua, l'India e il Pakistan. Su scala mondiale si può stimare che il fenomeno determini la perdita di 1,5 milioni di ettari all'anno.

Acqua, bene conteso tra bisogni in competizione

Insieme all’entità e alla fertilità dello strato superiore, il fattore essenziale della produttività di un suolo è la sua dotazione idrica durante la stagione dello sviluppo vegetale. Al di fuori delle fasce temperate, dove l'approvvigionamento idrico del terreno è operato regolarmente dalle piogge, nelle regioni tropicali, nelle quali è concentrata una parte ingente della popolazione mondiale, e in vaste regioni dominate da meccanismi climatici peculiari, la sicurezza dell'approvvigionamento idrico delle colture può essere è assicurata solo dall'esistenza e dalla funzionalità di reti di irrigazione.

Sul planisfero dell'agricoltura l’espansione delle superfici irrigate ha seguito una curva in leggero ritardo rispetto a quella del dissodamento di terre vergini: all'inizio del secolo si misuravano, nel Globo, 40 milioni di ettari irrigui, quasi tutti ubicati attorno all'area d'origine dell'agricoltura, nell'area di sutura tra Asia e Africa, nel 1950 erano saliti a 94, nel 1982 hanno raggiunto i 261, 120 dei quali nel Continente asiatico, il centro attuale dell'agricoltura irrigua del Pianeta.

Lo storico sforzo per l'estensione dell'irrigazione si è verificato, cioè, dopo il 1955, l'anno di svolta dell'acquisizione di nuove superfici: come la conquista di nuovi arativi, anche l’ampliamento delle aree irrigue è destinato ad affievolirsi e ad esaurirsi, secondo le previsioni di Brown, negli anni venturi, siccome le riserve d'acqua disponibili per nuove reti irrigue sono sempre meno abbondanti, ed il loro impiego di realizzazione sempre più costosa. In futuro la terra che chiede acqua per produrre grano o riso dovrà competere sempre più crudamente con attività umane diverse egualmente assetate: gli sforzi maggiori dell'agricoltura dovranno rivolgersi, così, alla razionalizzazione degli impieghi, un ambito nel quale cospicui progressi sono tuttora possibili, piuttosto che all'estensione delle superfici.

Del giudizio di Brown del futuro esaurirsi delle possibilità di estendimento delle superfici irrigue fornisce la dimostrazione, compilando un dettagliato bilancio dell'approvvigionamento idrico delle terre emerse, Sandra Postel nel capitolo successivo del rapporto. Dei 500.000 chilometri cubici di acqua che l'energia solare solleva dalla superficie del Globo, l’86 per cento dagli Oceani, il14 per cento dalle terre emerse, ne ricadono sulle seconde 110.300, una frazione significativamente maggiore, quindi, del loro contributo all'approvvigionamento dell'atmosfera. Detratta la quota che torna all'atmosfera per evaporazione, si riversano nei fiumi, nei laghi e negli acquiferi sotterranei 38.800 chilometri cubici d'acqua, una quantità imponente, nota la ricercatrice americana, la cui distribuzione registra, tuttavia, irregolarità di tale entità da rendere il quadro idrologico del Pianeta un autentico abito di Arlecchino. Due continenti si spartiscono, infatti, oltre metà delle disponibilità idriche complessive, l’America meridionale, dove cade il 27 per cento delle precipitazioni utili del pianeta, e l'Asia, che ne riceve il 25 per cento. Privilegiate in termini assoluti, Sudamerica e Asia offrono, peraltro, il quadro di una distribuzione geografica e temporale tale da creare la commistione più complessa di sovrabbondanza e penuria. Nella prima il 60 per cento delle piogge cade, infatti, nel Bacino del Rio delle Amazzoni, che le riversa nell'Oceano mentre attorno al suo perimetro aree immense sono caratterizzate dalla più severa aridità. Nella seconda, in India il 90 per cento delle piogge si concentra nei quattro mesi tra giugno e settembre, i mesi del monsone, la cui piovosità conosce, peraltro, le fluttuazioni più ampie da un anno all'altro.

Il monsone scarica, per di più, la maggior parte dell'umidità che trasporta sulle pendici dell'Himalaia, nei bacini del Gange e del Bramaputra, dove la combinazione di concentrazione spaziale e temporale provoca le bibliche alluvioni di cui i mezzi di informazione diffondono periodicamente le immagini, mentre parti diverse del Paese soffrono siccità altrettanto disastrose. Ripartendo la somma delle precipitazioni per il numero degli abitanti delle diverse aree geografiche, Sandra Postel dimostra che le disponibilità variano dai 110.000 metri cubi a disposizione di ogni cittadino del Canada ai 42.300 di ogni venezuelano, per scendere ai 10.000 dell'abitante degli Stati Uniti, ai 4.400 di quello del Messico, ai 2.800 di ogni cinese, ai 2.000 dell'abitante del Kenia, ai 90 di ciascun egiziano.

Siccome la media delle precipitazioni costituisce entità costante nel tempo, l'aumento della popolazione determina una contrazione proporzionale delle disponibilità pro capite: dall'estrapolazione delle previsioni demografiche è possibile prevedere, tra il 1983 ed il 2000, una contrazione del 42 per cento per l’abitante della Nigeria, del 30 per cento per quello del Brasile, del 24 per cento per quello dell’India, del 22 per cento per quello dell’Indonesia, un novero di paesi dall'elevato tasso di crescita demografica; del 12 per cento per il cittadino degli Stati Uniti, del 6 per cento per quello del Giappone, del 5 per cento per quello della Francia, una serie di paesi dove la crescita della popolazione segue tendenze meno impetuose.

I contrasti del quadro divengono ancora più prepotenti comparando alla disponibilità i consumi, le cui divaricazioni tra continenti e paesi diversi sono ingenti: contro i 7.200 litri utilizzati, quale media pro capite per tutti gli impieghi, dall'economia degli Stati Uniti, si constata un consumo di 2.600 litri in Giappone, di 1.500 in India, di 1.400 in Inghilterra, di 700 in Indonesia. Del consumo complessivo differenze sostanziali si registrano, peraltro, nella ripartizione tra gli impieghi diversi: se negli Stati Uniti, infatti, è destinato alle utilizzazioni industriali il 57 per cento delle disponibilità, quelle domestiche assorbono il 9 per cento, quelle irrigue il 34 per cento, in Giappone la quota dell'industria sale al 61 per cento, quella degli impieghi domestici al 10, si riduce al 29 per cento la quota destinata all'agricoltura, in Indonesia l'agricoltura impiega l’86 per cento dell'acqua disponibile, che in India sale al 92. Caratteristico paese dalla distribuzione regolare delle piogge, che esonerano dalle necessità dell'irrigazione, la Gran Bretagna destina all'agricoltura soltanto l’1 per cento dell’acqua disponibile. L'imponente quota delle disponibilità complessive destinata all’agricoltura nel paesi del Terzo Mondo, l'esiguità dei rispettivi consumi industriali e domestici, inducono a prevedere che tanto l'industrializzazione quanto il miglioramento delle condizioni di vita eserciteranno, nei prossimi decenni, nei paesi meno sviluppati, un’acuta competizione con l'agricoltura per le disponibilità di acqua.

Fondata sull'analisi dei consumi, la previsione della contrazione delle disponibilità che potranno essere destinate all'agricoltura costituisce la prima conferma dell'asserzione di Brown della conclusione del grande sforzo di estendimento delle superfici irrigue che si è registrato nella seconda metà del Novecento. Sandra Postel ricava la seconda dall'esame della geografia mondiale delle riserve idriche e delle modalità del loro sfruttamento.

Si contraggono le disponibilità: le difficoltà di nuove captazioni

Se il numero dei nuovi sistemi di captazione è destinato a contrarsi progressivamente negli anni venturi si sta ampliando, invece, l'elenco delle regioni dove l'entità degli attingimenti è sottoposto alla contrazione determinata dall'esaurimento delle disponibilità: l'esempio più significativo è quello del vasto giacimento di acqua fossile, quindi privo di capacità di rinnovamento, che i geologi hanno denominato bacino di Ogallala, che si estende nei Plains americani dalla fascia meridionale del Sud Dakota a quella settentrionale del Texas. All'alba degli anni Quaranta alcuni grandi ranches ne iniziavano lo sfruttamento, in Texas, per convertire il proprio ordinamento dal pascolo estensivo all'allevamento intensivo basato sul mais. Nel 1944 nell'area di Ogallala venivano irrigati 2,1 milioni di ettari, che nel 1978 erano saliti ad 8, per ridursi drasticamente, nei quattro anni successivi, di percentuali variabili tra il 20 per cento del Texas, il 18 dell'Oklahoma, il 6 del New Mexico. In quarant'anni dal grande giacimento sono stati estratti oltre 500 chilometri cubici d'acqua, il cui prelievo ha determinato un abbassamento del livello piezometrico tale da rendere insostenibili, in rapporto al prezzo di vendita dei prodotti, i costi di pompaggio. Su 8 milioni di ettari in cui l'acqua aveva mutato il paesaggio l'agricoltura è destinata a regredire al pascolo estensivo che rappresentò la forma di sfruttamento dei Plains dopo la conquista dei pionieri. A ragione della natura geologica dell'acqua di Ogallala i quarant'anni di rigoglio agricolo resteranno, nella storia millenaria dei Plains, episodio irripetibile.

Fissando ancora l'obiettivo sugli Stati Uniti, Sandra Postel descrive processo di salinizzazione del fiume Colorado, lo sbarramento e la captazione dei cui affluenti ne ha ridotto portata e innalzato il tenore salino destinandolo a trasformarsi in fiume morto. Spostando l’attenzione all'Unione Sovietica la ricercatrice americana riferisce i sintomi di alterazioni delle costanti idrologiche del Caspio, sede tradizionale una ricca industria della pesca, che lo sbarramento del Volga minaccia di trasformare in copia in formato maggiore del Mar Morto. Riferisce, ancora, dell'intromissione di acqua marina nelle falde acquifere sovrasfruttate in una pluralità di paesi, ad esempio Israele, dove la gestione dell’acqua è sottoposta a programmi dalle solide fondamenta conoscitive.

All'esaurimento delle disponibilità si aggiunge, a peggiorare il quadro idrologico mondiale, il deterioramento della qualità di quelle tuttora sussistenti. L'inquinamento delle acque è tragedia di dimensioni planetarie: nessuno dei grandi agglomerati urbani dell’America meridionale provvede, ad esempio, ad un trattamento qualsiasi delle acque di scarico, l'Unione Sovietica non purifica che un quarto degli effluenti industriali immessi nel Volga, il cu contenuto inquinante viene accumulato, attraverso l'irrigazione, nei terreni agrari.

Nonostante la generale contrazione delle risorse inutilizzate, la geografia idraulica del Pianeta mostra alcune grandi riserve tuttora disponibili, di cui colossali progetti prevedono la captazione e l'impiego nei prossimi anni. Dall'inventario che ne compila la ricercatrice americana constatiamo che i due maggiori sono stati elaborati dall’Unione Sovietica per la diversione da nord a sud di alcuni grandi fiumi della regione degli Urali e della Siberia, con la captazione annuale, rispettivamente, di 20 e di 25 miliardi di metri cubi, ed un costo equivalente a 3,1 e a 41 miliardi di dollari. Entrambi i progetti hanno sollevato, peraltro, obiezioni sulle conseguenze ecologiche che produrrebbero, che non hanno ricevuto, rileva Sandra Postel, risposte convincenti.

Negli Stati Uniti due grandi progetti assicurerebbero, contemporaneamente, all'Arizona e alla California la disponibilità annua di 6,7 miliardi di metri cubi, con la spesa di 8,3 miliardi di dollari. Un progetto ambizioso, concepito per trasferire agli assetati Plains centrali una parte delle disponibilità di acqua che dal Midwest fluisce nel Mississippi, sarebbe stato, attualmente, accantonato reputandosi eccessivi costi. Oltre alle obiezioni ecologiche, l'entità dei fondi necessari rappresenta, a tutte le latitudini, una remora sempre più grave all’attuazione dei grandi progetti ancora teoricamente realizzabili.

Gli imperativi: risparmio e reimpiego

Non potendosi supporre aumenti delle disponibilità idriche, dovendosi prevedere, anzi, l'acuirsi della competizione per l’acqua disponibile, ed una significativa espansione dei consumi civili, soprattutto nelle società agricole, alle necessità di acqua le società umane dovranno apprendere a fare fronte, in futuro, contando sempre più sul risparmio e sul reimpiego.

Tanto sulla prima quanto sulla seconda strada sarà l'agricoltura ad essere chiamata agli sforzi maggiori: la generale irrazionalità degli impieghi agricoli apre, peraltro, ampi spazi al contenimento dei consumi. Su scala planetaria Sandra Postel calcola che una riduzione dei consumi del 10 per cento, secondo gli esperti di irrigazione generalmente realizzabile, sarebbe sufficiente a consentire il soddisfacimento di tutte le necessità di impiego attualmente inappagate. Il trasferimento di una quota dell'acqua oggi destinata all'irrigazione agli impieghi diversi, in particolare quelli civili, è destinato, tuttavia, a determinare l'insorgere di problemi diversi ed oltremodo difficili ove non venga realizzato con la consapevolezza delle conseguenze e la simultanea disposizione delle misure necessarie al loro contenimento.

All’atto in cui assolve alle necessità della convivenza, l'acqua destinata agli usi civili si converte, infatti, in reflui urbani, l'aumento dei cui volumi ne accresce proporzionalmente le capacità inquinanti sulle reti idriche nelle quali vengano riversati. Sarà solo adottando organiche strategie di riciclaggio e reimpiego negli usi che le possano accettare, ad esempio l'irrigazione, che le società assetate di acqua civile potranno soddisfare i propri bisogni senza moltiplicare le forze distruttive che minacciano l’ambiente nel quale vivono.

Se, concettualmente, il reimpiego costituisce prospettiva semplice, di cui le prime esperienze hanno dimostrato la funzionalità, la ricercatrice americana non nasconde che un impedimento oltremodo grave alla sua diffusione è rappresentato dall'entità degli investimenti necessari, soprattutto nei paesi del Terzo Mondo, le cui carenze finanziarie non sono inferiori alla sete che li angustia. La necessità di acqua si compone alle ristrettezze di bilancio nella sommatoria degli elementi che rendono il circolo perverso del sottosviluppo tanto difficile da spezzare quanto dimostrerà, nei capitoli successivi, il rapporto del Worldwatch Institute.

Verso l'esaurimento le risorse ittiche degli oceani

Insieme alla terra, la seconda fonte dell'approvvigionamento di alimenti dell’umanità è costituito dalle acque, al primo posto i mari egli oceani, nella cui estensione l’interazione del clima con le correnti crea in aree particolari le condizioni per lo sviluppo di immense popolazioni ittiche: sono le grandi aree di pesca, per la quantità delle proteine che sono in grado di produrre una delle fonti essenziali per l’alimentazione delle società umane. Alla pesca, in primo luogo quella oceanica e marittima, è dedicato il quarto capitolo del rapporto, che analizza la composizione qualitativa, la provenienza geografica e la destinazione del pesce sbarcato annualmente dai pescherecci che solcano gli oceani battendo tutte le bandiere. Rispetto ai 21,1 milioni di tonnellate pescate nel 1950 il volume attuale delle catture, nel 1983 74 milioni di tonnellate, dimostra l'intensità degli sforzi compiuti, da una molteplicità di paesi, per potenziare le proprie flotte e accrescerne la produttività. L’incremento è stato superiore al 250 per cento, esso non è stato privo, tuttavia, di conseguenze sulla produttività dei sistemi marini: sulla base di stime realizzate dalla Fao e da organismi diversi, il rapporto sostiene, infatti, che sarebbero già sei le aree oceaniche nelle quali l'eccesso delle catture sulle capacità di riproduzione avrebbe alterato gli equilibri ittiologici provocando, per conseguenza, una contrazione dei quantitativi pescati di 11 specie fondamentali stimabile, complessivamente, in 11 milioni di tonnellate.

Se per alcune aree è probabile, peraltro, che gli accordi internazionali che hanno convenuto una diminuzione della pressione, possano consentire il ripristino delle popolazioni ittiche, in altre i biologi dubitano che l'equilibrio possa ristabilirsi, e le specie una volta oggetto di pesca recuperare la densità precedente al collasso: propone un caso emblematico quello delle acciughe peruviane, la sospensione della cui cattura, realizzata quando la contrazione dei banchi aveva superato i limiti delle capacità rigenerative, non ha prodotto, dopo quindici anni, i risultati attesi. Numerosi oceanografi dubitano, ormai, che sia possibile ristabilire un'attività economica che ha costituito per decenni una delle prime fonti di valuta di un paese afflitto da drammatiche necessità finanziarie.

Compromessa la pescosità delle aree di pesca tradizionali dell' Atlantico settentrionale, le flotte pescherecce internazionali hanno spostato l'epicentro dell’attività in acque diverse, il Pacifico sudorientale, il golfo di Thailandia, le acque della Nuova Zelanda: l'intensità con cui è stato intrapreso lo sfruttamento dei nuovi banchi è stata tale, tuttavia, che in soli dieci anni si è raggiunto il punto al di sopra del quale anche delle nuove aree di cattura si provocherebbe l'impoverimento irreversibile.

Come lo sfruttamento dei suoli agricoli, anche quello dei mari, rileva il rapporto, pone l’umanità di fronte al bivio tra la razionalizzazione delle modalità di appropriazione delle risorse e la compromissione delle fondamenta della propria sopravvivenza futura, un'alternativa che per lo sfruttamento degli oceani potrà essere risolta solo sottomettendo, attraverso accordi internazionali, la pesca a rigorosi programmi di cattura, sviluppando, ed integrando, le risorse marittime con prodotti ittici ottenuti attraverso l'allevamento. Se, infatti, le risorse marine debbono reputarsi inestensibili, la produzione di pesci, molluschi e crostacei con le procedure dell'acquacoltura propone possibilità di espansione oltremodo significative. Nello scenario delle produzioni ittiche ottenute in acque controllate i sette paesi asiatici dalle tradizioni più solide nel settore realizzano, con 7 milioni di tonnellate, oltre l'80 per cento della produzione itticola del Globo: la prova delle possibilità di espansione di una forma di produzione di alimenti i cui limiti su scala mondiale non sono, attualmente, neppure approssimativamente misurabili, che offre all'umanità alla ricerca di armi con cui combattere la sfida della nutrizione possibilità che essa dovrà usare con accortezza e lungimiranza.

La condanna che minaccia le foreste dei paesi industriali

Il quinto capitolo del rapporto affronta il problema della decadenza che ha colpito, nell'emisfero settentrionale, le foreste degli Stati Uniti e dell'Europa, dove il fenomeno ha suscitato, soprattutto in Germania, eco vastissime nella coscienza di un popolo legato alle proprie foreste da ancestrali legami morali.

La ricerca delle cause del fenomeno ha alimentato le polemiche più vivaci tra pedologi, biologi e botanici, divisi tra uno schieramento convinto che l'origine del fenomeno debba attribuirsi alle emissioni industriali ed uno più perplesso, propenso quantomeno a ritenere determinante l'intervento di una serie di concause.

Componendo i risultati delle indagini più recenti, Sandra Postel, autrice del capitolo, ordina una messe di dati tale da elidere i dubbi più tenaci: l'acidificazione del suolo delle foreste delle fasce temperate è processo che si protrae, naturalmente, da millenni, sottolinea, tanto per le condizioni climatiche nelle quali esse si sono sviluppate quanto per le pratiche irrazionali secondo le quali sono state sfruttate dall'uomo. Anche la ricostituzione e lo viluppo del manto forestale reso possibile, su superfici vastissime, dalla minore domanda di legname da ardere seguita alla diffusione dei combustibili fossili, in particolare del petrolio, che ha consentito uno sfruttamento più razionale delle foreste, ha accentuato, per l'assorbimento dei cationi alcalini, l'acidificazione dei suoli sui quali si sviluppano. Ai processi di lisciviazione e asportazione cationica contribuisce, nota la ricercatrice statunitense, la circolazione naturale di composti solforati che si svolge tra la terra e l'atmosfera, alimentata dai vulcani e dall'evaporazione, che asporta frazioni dello zolfo dei sali disciolti nell'acqua marina: l'entità degli scambi di zolfo tra le terre ed i mari può essere stimata tra 75 e 100 milioni di tonnellate all'anno.

Ha raggiunto, dopo una crescita imponente e repentina, dimensioni equivalenti a quelle del ciclo naturale l'entità dello zolfo contenuto nelle emissioni prodotte dal consumo dei combustibili fossili, che sprigionano oggi una quantità dell'elemento doppia di quella emessa nel 1950, quando venivano impiegati tipi di greggio dal contenuto sulfureo oltremodo contenuto, progressivamente sostituiti, negli anni recenti, da tipi a contenuto più elevato.

L'equivalenza tra le emissioni industriali e quelle naturali parrebbe giustificare, in termini astratti, le perplessità sul ruolo delle emissioni industriali nella degradazione delle foreste, un ruolo di cui impone il riconoscimento la concentrazione geografica delle emissioni. Rispecchiando l'ubicazione dei maggiori poli industriali del Globo, il tenore dei composti solforati immessi nell'atmosfera raggiunge, in Europa e in America settentrionale, tenori fra 5 e 20 volte superiori a quelli naturali.

Dell'entità dei depositi sulfurei che accompagnano le piogge è disponibile una pluralità di misurazioni rigorose: i risultati delle analisi dimostrano la sedimentazione annua di quantità dell'elemento comprese fra 20 e 40 chilogrammi per ettaro nelle regioni nelle quali vegetano le foreste da cui dipende l’approvvigionamento di legname degli Stati Uniti, i depositi toccano i 10,2 chilogrammi mensili in Cecoslovacchia, i 5,3 in Belgio, i 4,7 in Germania, i 3,8 in Italia, i 3,4 in Svizzera. Sono quantità il cui accumulo su suoli leggeri, quali sono, generalmente, quelli delle foreste europee, a limitato potere di scambio, non può non provocare gravi alterazioni degli equilibri pedologici.

Altrettanto imponente di quello dei composti solforati è stato, negli ultimi due decenni, l'aumento delle emissioni di composti azotati e di ozono, due specie chimiche corresponsabili dell'alterazione delle acque piovane nelle regioni industriali. Negli Stati Uniti ha origine da emissioni antropiche il 75-90 per cento degli ossidi di azoto presenti nell'atmosfera. Conferma il ruolo delle emissioni industriali rilevato dalla coincidenza tra regioni colpite dalla degradazione delle foreste e poli industriali la distribuzione topografica del fenomeno, che in Europa presenta la gravità maggiore ad oriente delle concentrazioni industriali, sviluppandosi, quindi, secondo la direzione delle perturbazioni atlantiche, e colpisce in forma più acuta le foreste poste sui versanti rivolti ad occidente, investiti più direttamente, quindi, dalle piogge e dalle nebbie.

Costituiscono una prova ulteriore dell'origine del fenomeno le alterazioni che, in occasione di eventi piovosi dal più elevato carico inquinante, si manifestano direttamente sugli aghi delle conifere, sui quali la concentrazione di ioni acidi provoca lesioni dell'epidermide con l'asportazione dei cationi necessari ai processi vitali della pianta, privata di elementi essenziali già assorbiti prima ancora che l'acidificazione del suolo ne possa impedire l'assimilazione attraverso le radici: un fenomeno che, in evidente correlazione con l'imponente incremento dell'inquinamento atmosferico dopo gli anni '50, suggerisce una spiegazione della rapidità con cui la mortalità ha investito le foreste dell'Europa e degli Stati Uniti nell'ultimo decennio.

Alla ricerca degli elementi per prevedere l'evoluzione del fenomeno, Sandra Postel nota che se le tendenze evolutive dell'industria europea ed americana consentono di escludere l'aumento delle emissioni sulfuree, inducendo persino a supporne la contrazione, il procedere dell'industrializzazione in regioni geografiche diverse rende probabile l'aggravarsi, negli anni prossimi, del fenomeno su scala planetaria.

Ricercatori degli Stati Uniti hanno stimato che una riduzione del 5 per cento della crescita delle foreste di essenze da segheria del sud del Paese provocherebbe la perdita di una quantità di legname equivalente al 10 per cento di quello impiegato nella costruzione di tutte le case nuove realizzate nella Nazione, e che qualsiasi contrazione in quelle del nord potrebbe compromettere gli equilibri dell'industria della carta, fondati su piani finanziari a lunghissimo termine. In Canada, dove un posto di lavoro su dieci è legato all'industria del legno, che assicura all'economia nazionale una produzione di 20 miliardi di dollari, un decremento della produttività forestale persino inferiore all'1 per cento determinerebbe, è stato calcolato, conseguenze economiche gravissime. La moria forestale ha già compromesso, peraltro, la prosperità dell'industria forestale tedesca, una delle maggiori d'Europa.

Sono i primi indizi delle conseguenze economiche del fenomeno, la cui ulteriore diffusione produrrebbe, sottolinea Sandra Postel, danni irreparabili per l'intera economia umana: il legname, materia prima essenziale, è disponibile in misura sempre più inadeguata alla domanda di un'umanità in inarrestabile espansione numerica. Se la sua riproduzione naturale si alterasse, verrebbe a mancare all’uomo un elemento essenziale per la vita economica e civile, per la stessa sopravvivenza.

La contrazione delle risorse genetiche, un evento inquietante

La contrazione del patrimonio genetico della Terra provocato dalla progressiva distruzione degli ecosistemi naturali e dalla diffusione, su tutte le terre coltivate, di varietà vegetali ed animali derivate dalla selezione degli stessi progenitori, costituisce tema sul quale un numero crescente di biologi richiama l'attenzione dell'opinione pubblica internazionale. Proponendo, anche sul complesso argomento, l'ampia serie di rilievi e notizie raccolte da una molteplicità di fonti, il rapporto sullo "stato del Mondo" offre al lettore l'opportunità di maturare le proprie riflessioni su un tema destinato ad acquisire rilievo crescente nel dibattito scientifico.

Durante i tre miliardi e mezzo di anni nei quali la vita si è sviluppata sulla terra, milioni di forme viventi, sottolinea Edward Wolf, estensore del capitolo, hanno cercato di estendere lo spazio occupato sulla terra attraverso la generazione, da parte di ciascuno dei loro membri, di un numero di discendenti maggiore di quello che avrebbe potuto sopravvivere alla competizione per la vita. Una frazione di quei discendenti veniva dotata, secondo un meccanismo di straordinaria efficacia, di peculiarità diverse da quelle dei genitori, risultando destinata a soccombere, nella lotta per l'esistenza, ove esse la ponessero in condizioni di inferiorità rispetto ai concorrenti, ad imporsi e moltiplicarsi qualora i caratteri nuovi assicurassero vantaggi nel confronto con l'ambiente. E' dal diuturno ripetersi di questo processo che ha preso forma la straordinaria ricchezza delle forme di vita che abitano la superficie terrestre, una gamma di specie di cui l'uomo è ancora lontano dal conoscere le caratteristiche fisiologiche, biologiche, etologiche.

Drasticamente ridotta nelle terre sottoposte da tempi remoti alla più intensa colonizzazione antropica, la prodigiosa dovizia della natura permane pressoché intatta nelle regioni dove l'uomo non ha ancora alterato gli equilibri primigeni, in particolare nelle foreste equatoriali, l'ambiente naturale le cui condizioni climatiche favoriscono una proliferazione vitale ineguagliata in qualsiasi ambiente diverso: seppure non coprano che il 7 per cento delle terre emerse, è stato stimato che abbia il proprio habitat nelle foreste equatoriali il 40 per cento delle specie vegetali e animali viventi.

Riserva del più prezioso patrimonio genetico della Terra, la foresta pluviale si è trasformata, nei decenni più recenti, nell'ultima risorsa passibile di sfruttamento per una molteplicità di paesi del Terzo Mondo sede della più impetuosa crescita demografica, dall'agricoltura inadeguata ai bisogni della popolazione, privi di sorse valutarie, che nel suo abbattimento vedono la fonte di legname per i consumi essenziali e per l’esportazione, la condizione per conquistare superfici ancora fertili da assoggettare alla coltivazione. A causa del procedere disordinato dello sfruttamento, per di più, con disboscamenti ed insediamenti effettuati in assenza di qualunque disegno, la superficie di cui vengono alterati gli equilibri risulta, in tutte le regioni equatoriali, oltremodo più ampia di quella dalla cui occupazione vengono ricavativi obiettivi benefici.

A dimostrazione dell'irrazionalità della conquista, da parte dell’uomo, delle residue aree vergini, Wolf richiama l'attenzione del lettore su un evento ignorato dalle cronache internazionali, che vanta i titoli per essere iscritto, invece, tra le maggiori catastrofi ecologiche degli ultimi secoli: l'incendio che ha distrutto, nel 1983, a Borneo, 3,5 milioni di ettari di foresta vergine e di colture forestali. Al di là della vastità, l'eccezionalità dell'evento consiste nella dissoluzione, che esso ha determinato, di un postulato fondamentale della scienza forestale classica: l'impossibilità di dilatazione illimitata degli incendi nella foresta pluviale, la cui natura, plasmata da un clima ad altissima piovosità, quella di Borneo è cinque volte maggiore di quella di Londra, faceva della propagazione illimitata del fuoco evento impensabile. Il rogo di Borneo è stato l'ultima conseguenza, e la dimostrazione incontrovertibile, nota Wolf, degli effetti della pressione demografica dell'arcipelago della Sonda, che sospinge centinaia di migliaia di coloni a cercare i mezzi di sussistenza nella foresta, della quale è stato progressivamente minato l’equilibrio naturale.

Sede, nei secoli scorsi, di un’agricoltura consistente in un ciclo di incendio, coltivazione e abbandono alle sue forze spontanee, che, data l’entità degli intervalli temporale, ne rigenerava il manto, la foresta pluviale era in grado di sopportare i periodi di sfruttamento rinnovandosi ciclicamente. Sottoposta ad una penetrazione umana più pervasiva ha perduto la primitiva immunità al fuoco, il sintomo più appariscente dell'alterazione irreversibile degli equilibri millenari che ne regolavano la vita. Borneo non costituisce, peraltro, che il simbolo di quanto si sta verificando su tutte le terre che compongono la cintura equatoriale del Pianeta: con la foresta che le ospita è minacciato di estinzione, secondo le valutazioni di biologi americani, un numero di specie stimato tra il 15 e il 20 per cento di tutte quelle viventi sulla Terra.

Meno energia per soddisfare bisogni maggiori

Due capitoli del rapporto sono dedicati al bilancio tra disponibilità e consumi di energia: il settimo alla ripartizione dei consumi tra paesi e settori economici, l'ottavo all'analisi dei progressi realizzati, dalla crisi petrolifera del 1973, dalle tecnologie per lo sfruttamento delle fonti energetiche rinnovabili. L'autore del primo, William Chandler, propone il dato chiave per il bilancio energetico dell'economia umana avanzando una stima della somma dei consumi di energia derivata da tutte le fonti, esclusa la legna e lo sterco secco: 300 esajoule (un esajoule corrisponde a un miliardo di miliardi di joule, equivalente all’energia di 163 milioni di barili di petrolio). Menzionando valutazioni per le quali sussiste il consenso degli specialisti, riferisce che della somma dei consumi attuali può prevedersi l’aumento, entro l'anno 2000, fino a 485 esajoule.

L’incremento ha dimensioni palesemente astronomiche. Della sua entità il ricercatore americano fornisce la spiegazione ordinando, in una tabella, i consumi dei diversi paesi espressi in termini di impiego pro-capite: la comparazione dimostra con evidenza l’entità del fabbisogno che una molteplicità di paesi dovrebbero soddisfare per assicurare le condizioni per il decollo alla propria industria, standard di vita comparabili a quelli delle nazioni civili ai propri cittadini. Di fronte al consumo di 324 gigajole (un gigajoule corrisponde a un miliardo di joule) di ciascun cittadino americano si constata quello di 187 di ogni abitante della Germania Federale, di 152 di quello della Gran Bretagna, di 61 di quello dell’Argentina, di 32 di quello del Brasile, di 17 di quello della Cina, di 7 di quello dell'India. Pure riconoscendo l'impossibilità che i 717 milioni di abitanti dell'India possano mai giungere a fruire di disponibilità comparabili a quelle dei cittadini americani, un obiettivo probabilmente irrealizzabile anche destinando all’India tutte le fonti di energia del Pianeta, il perseguimento dei livelli di approvvigionamento necessari a soddisfare le esigenze fondamentali della vita civile impone aumenti delle disponibilità che, seppure modesti in termini pro-capite, commisurati alle dimensioni della popolazione dei paesi dai consumi inferiori sommerebbero entità comunque imponenti.

Oltre alla quantità di energia impiegata ogni anno dall'umanità per il soddisfacimento dei propri bisogni, un rilievo fondamentale, per le conseguenze che ne derivano sull'ambiente, riveste la natura della fonte, o la composizione delle fonti, da cui ciascun paese deriva l'energia che consuma. Compilando un catalogo delle fonti energetiche in ordine di nocività decrescente sui sistemi naturali, il primo posto spetta di diritto al carbone, causa, insieme, di emissione di anidride carbonica e di composti sulfurei, seguono i greggi a diverso contenuto solforico, il gas naturale, fino all'energia elettrica, il cui impiego non produce emissioni gassose, che può esercitare sull'ambiente effetti negativi indiretti, quando per la sua produzione siano realizzati sbarramenti che provochino alterazioni idrologiche o climatiche, o si impieghino combustibili dalle emissioni dannose. E’ assolutamente esente da effetti negativi lo sfruttamento delle caratteristiche fonti rinnovabili: il sole e il vento.

Come il rapporto ha dimostrato nel capitolo dedicato alle piogge acide, le fonti di energia il cui impiego produce i danni ambientali più gravi sono, quindi, i combustibili fossili, tra i combustibili fossili, a causa dell'elevato tenore di zolfo, il carbone. La sussistenza di piani governativi dell'Unione Sovietica che prevedono, nei prossimi decenni, un potenziamento dell'industria pesante, ferriere e acciaierie alimentate dal carbone, tale da accrescere il fabbisogno di antracite in misura superiore al consumo attuale dell'intero Brasile, non rappresenta, sottolinea Chandler, prospettiva rassicurante per un continente, quale l'Europa, nel quale il fenomeno elle piogge acide ha superato ogni soglia di allarme.

Derivano dalla distillazione del greggio i combustibili che muovono la parte prevalente di tutti i veicoli stradali del Mondo. Costituisce un'alternativa ai carburanti di origine petrolifera l’etanolo, che può ricavarsi dai prodotti vegetali, una fonte energetica che in alcuni paesi alimenta già una frazione considerevole dei consumi, che in futuro potrebbe rappresentare una fonte di combustibile di importanza rilevante in un novero crescente di nazioni. Sui vantaggi della nuova destinazione delle derrate vegetali è in corso, peraltro, il dibattito più acceso, al quale assicurano elementi di giudizio sempre meno aleatori l'analisi del bilancio energetico dei paesi che sulla nuova frontiera hanno espresso

Tra tutte le forme di energia detentrice del primato dell'innocuità per l'ambiente, l'elettricità soddisfa la quota preminente del fabbisogno di una schiera di paesi nei quali le condizioni topografiche ed idrologiche hanno consentito la realizzazione di imponenti invasi che azionano generatori di grande potenza. Alla moltiplicazione di bacini di rilievo regionale si oppongono, peraltro, le costrizioni che stanno arrestando le realizzazioni di nuove reti irrigue. Lo spazio più ampio sussiste, peraltro, per la diffusione di piccoli generatori che sfruttino corsi d'acqua minori.

Una posizione peculiare rivestono i combustibili naturali, legno e sterco secco, di cui si consuma sulla Terra l'equivalente di 50 esajoule, dai quali non deriva che l'emissione di anidride carbonica, il cui uso può determinare, peraltro, conseguenze devastanti tanto sul manto vegetale quanto sull'equilibrio pedologico delle regioni in cui essi costituiscano le fonti esclusive di energia, dove ai terreni non viene destinato neppure il letame, l’unico fertilizzante a disposizione di contadini che non possono acquistare fertilizzanti industriali. Alle due fonti energetiche, di importanza capitale in due continenti ed in un subcontinente, l’America meridionale, l'Africa e l'India, il rapporto non dedica uno spazio particolarmente ampio.

L'argomento rappresenta, peraltro, tema di attenzione costante del Worldwatch Institute, che ne ha fatto oggetto di una molteplicità di indagini specifiche, rilevando come la combustione di legno e sterco costituisca spesso l'ultimo stadio della frattura degli equilibri tra uomo e ambiente. Dove l'impossibilità di acquistare combustibili diversi costringe intere popolazioni, per cuocere il cibo quotidiano, ad una deforestazione incontrollata e alla raccolta di tutti gli escrementi animali, la terra resta priva delle proprie difese contro l'erosione delle piogge e del vento: è l'inizio del cammino verso la conversione di una regione anticamente agricola e forestale in deserto. L'esame della catena di eventi che sospingono l'avanzata del Sahara verso mezzogiorno, un fenomeno che conoscerebbe una progressiva accelerazione, del circolo di degenerazione antropologico-ambientale dell'Altopiano etiopico e di numerose regioni semiaride dell'India, mostrano sistematicamente il contributo dei combustibili emblematici della povertà al meccanismo di alterazione ecologica, alla predisposizione delle condizioni della catastrofe ambientale e sociale.

Consumi energetici: il ruolo della tecnologia

Insieme alla previsione dello sviluppo economico delle singole aree del Globo, qualsiasi stima dell'aumento dei consumi energetici dell'umanità non può prescindere dalla valutazione delle tecnologie di utilizzazione dell'energia. L’entità di tutti i consumi energetici, di quelli industriali e di quelli agricoli, di quelli domestici e di quelli connessi ai trasporti, è influenzata, in misura determinante, dalle tecniche applicate. Sulla divaricazione sussistente, per impieghi analoghi, secondo i procedimenti adottati, in tutti i settori di consumo, l'autore americano propone dati di estrema eloquenza.

La quantità di energia necessaria per l'ottenimento di una tonnellata di acciaio varia, ad esempio, dai 17,6 gigajoule impiegati mediamente da un impianto italiano, il paese che guida la classifica dell'efficienza, ai 23 di un impianto polacco, ai 23,9 di un impianto degli Stati Uniti, ai 31 di uno dell'Unione Sovietica, fino ai 41 di un impianto dell'India. La produzione della stessa quantità di acciaio comporta, peraltro, consumi inferiori se il materiale di base siano rottami piuttosto che un minerale ferroso: è una delle ragioni del primato dell'Italia, un paese in cui la quota maggiore della produzione di acciaio viene realizzata impiegando rottami, uno dei motivi che militano a favore del recupero, un tema sul quale il rapporto insiste particolarmente nelle pagine conclusive.

Una graduatoria analoga a quella che ha formulato per l'acciaio Chandler propone per l'alluminio, uno dei prodotti dell'industria metallurgica che impongono il dispendio più elevato di energia: è, ancora, l'Italia a detenere la palma dell'efficienza, con 13.300 chilowattore per tonnellata, un risultato di rilievo di fronte ai 14.500 della Germania federale, ai 15.400 degli Stati Uniti, ai 20.000 del Canada, un paese la cui ricchezza di energia elettrica non ha stimolato, nota il ricercatore americano, l’evoluzione dei procedimenti metallurgici verso tecnologie meno esigenti di energia. L'entità delle differenze dimostra in modo evidente che se i maggiori produttori mondiali di acciaio e di alluminio rinnovassero progressivamente gli impianti adottando le tecnologie più evolute, la trasformazione dei metalli potrebbe aumentare in misura anche significativa senza alcun incremento dei fabbisogni energetici.

Risparmi altrettanto ingenti di quelli possibili per la metallurgia possono essere realizzati nel settore dei trasporti e negli impieghi domestici. Nel primo la crisi energetica ha innescato, rileva Chandler, l'impegno più vivace nella progettazione di motori più efficienti, un impegno che ha prodotto risultati significativi, come dimostra il confronto della percorrenza per unità di carburante della media degli autoveicoli circolanti, in qualunque paese, nel 1982, con quella dei modelli di costruzione più recente. La percorrenza medi corrisponde a 22 miglia per gallone, quella dei veicoli nuovi a 28 in Germania occidentale, a 27 e 32 in Francia, a 24 e 31 in Italia, a 16 e 22 negli Stati Uniti.

Sulle possibilità e i vantaggi del risparmio negli impieghi domestici, Chandler riferisce i risultati di uno studio eseguito in Canada, un paese dal clima oltremodo rigido, dove i costi di costruzione di una casa nuova possono ritenersi mediamente equivalenti a 80.000 dollari. Il costo annuo di riscaldamento dello stesso edificio è di 800 dollari. Con la spesa addizionale di 3.000 dollari per l'applicazione di materiali coibenti il costo del combustibile può ridursi a soli 100 dollari. Considerando la quota annuale di ammortamento delle applicazioni isolanti in 450 dollari, il risparmio netto risulta di 250.

Oltre alle possibilità di contenimento dei costi di riscaldamento, sussiste lo spazio più ampio per migliorare l'efficienza energetica degli elettrodomestici: il consumo di elettricità di un freezer giapponese, è, a parità di prestazioni, esattamente la metà di quello di un modello americano equivalente, una circostanza, nota Chandler, che, oltre a dimostrare la possibilità di ampi risparmi nei consumi energetici della famiglia statunitense, dimostra che l'industria americana degli elettrodomestici soggiace al rischio di vedere una quota del proprio mercato rivolgersi rapidamente ai prodotti nipponici, il rischio che per i costruttori di automobili si è tradotto, ormai, in irreparabile realtà.

Le ampie possibilità di risparmio sussistenti in tutte le sfere del consumo energetico consentono, secondo lo studioso americano, di riformulare le previsione dei consumi nell'anno 2000: postulando la progressiva sostituzione dei procedimenti di impiego tradizionali con le tecnologie già disponibili, è possibile prevedere un risparmio annuo, per maggiore efficienza dei consumi, dell'1,5 per cento nell'edilizia, del 2 per cento nell'industria e nei trasporti. Il soddisfacimento degli stessi bisogni industriali, agricoli e civili per i quali nell'anno 2000 sarebbe necessaria la disponibilità di 460 esajoule potrebbe essere assicurato, così, dalla disponibilità di 360. Postulando una ripartizione delle fonti energetiche analoga a quella attuale, mentre dalla prima stima si dovrebbe desumere l'emissione annua nell'atmosfera di 7,2 miliardi di tonnellate di anidride carbonica, la seconda consente di ridurre la previsione a 5,8, cioè 0,8 per cento al di sopra del livello attuale. L'emissione di zolfo salirebbe, parallelamente, da 100 a 120 milioni di tonnellate secondo l'ipotesi di consumi minore, invece di raggiungere le 170 della stima maggiore.

Se maggiori emissioni di zolfo sono destinate a provocare l'aggravamento del fenomeno delle piogge acide, interrogativi ancora più inquietanti suscita l'aumento del tenore di anidride carbonica nell'atmosfera. La maggioranza degli specialisti concorda, nota Chandler, che al raggiungimento di una concentrazione atmosferica di biossido di carbonio di 600 parti per milione, pressapoco doppia di quella sussistente all'inizio dell'era industriale, seguirebbero cambiamenti climatici irreversibili. Anche accogliendo la previsione più ottimistica, la concentrazione del composto raggiungerebbe, nel 2025, il valore di 410-420 parti per milione, un tenore che costituirebbe una tappa probabilmente senza ritorno verso la soglia fatidica. Oltre a razionalizzare i consumi di energia, l'umanità deve apprendere, quindi, a ricavare energia da fonti che non determinino emissioni gassose.

Più energia da fonti rinnovabili

La trasformazione della composizione della gamma delle fonti con l'attribuzione di un ruolo maggiore a quelle rinnovabili è il tema che affrontano, nel capitolo successivo del rapporto, Christopher Flavin e Cynthia Pollok, che propongono un dettagliato inventario delle realizzazioni effettuate, dagli anni della crisi energetica, nei paesi in cui l'oculatezza delle scelte politiche o il dinamismo della ricerca e dell'industria hanno espresso lo sforzo più impegnativo nell'esplorazione di nuovi orizzonti energetici. Captatori di calore solare, generatori fotovoltaici, trasformatori dell'energia eolica, hanno conosciuto, negli anni recenti, una significativa diffusione in una pluralità di paesi ubicati soprattutto nella fascia peritropicale, ad esempio Israele e l'Australia. Detiene un primato incontrastato nella produzione e nell'installazione di apparecchiature per lo sfruttamento delle energie rinnovabili la California, uno stato che unisce le condizioni climatiche e quelle economiche ideali per la diffusione delle nuove forme di produzione di energia: un clima con temperature medie elevate, limpidità dell'aria, frequenza e forza dei venti, e il dinamismo tecnologico e finanziario più elevato del Mondo. Grazie anche ad un'accorta politica di incentivazione, la combinazione dei due ordini di fattori ha suscitato, nello stato americano, un'autentica esplosione della creazione e dell'impiego di apparecchiature per lo sfruttamento dell'energia solare e di quella eolica, determinando il sorgere di una prospera industria, le cui ambizioni, creata una gamma di attrezzature efficienti, possono rivolgersi al di là dei confini statali e di quelli federali. A definire l'entità dei progressi nello sfruttamento di fonti energetiche rinnovabili che si registra in California è sufficiente riferire la stima secondo la quale nel 1990 si fonderà sulle energie rinnovabili il 10 per cento dei consumi energetici complessivi dello stato, una delle regioni a più intenso consumo energetico del Globo.

Si profila altrettanto promettente, tra le forme di sfruttamento di fonti energetiche perenni, l'installazione di piccoli generatori capaci di sfruttare i dislivelli di torrenti e fiumi minori: vanta il primo posto, nella classifica dei paesi dove l’impiego si è già diffuso, la Cina, dove più di 90.000 impianti, installati dal 1952, assicurano il soddisfacimento di un terzo del fabbisogno energetico nazionale.

Una serie di dati e notizie di estremo interesse i due ricercatori del Worldwatch Institute propongono anche sull'impiego dell'etanolo ricavato da produzioni vegetali come integrativo o sostitutivo dei carburanti ricavati dalla distillazione del petrolio. La pratica sta conoscendo una diffusione crescente in tutti i paesi della fascia tropicale dove è coltivata, tradizionalmente, la canna da zucchero, il cui prodotto tradizionale conosce una crisi di prezzi che pare irreversibile, che per di più sono tributari, nella maggior parte, di una quota ingente del proprio fabbisogno energetico ai produttori di petrolio.

L'insieme dei due fattori, che si combinano all’elevato rendimento energetico della conversione, ha fatto dell’etanolo la bandiera della politica energetica del Brasile, dove una serie di facilitazioni ha promosso l'impiego di automobili funzionanti ad alcol puro, che alimenta, ormai, il 12 per cento del parco automobilistico nazionale, mentre tutte le auto brasiliane consumano carburanti in cui l'etanolo entra per quote comunque cospicue. Tra il 1976 e il 1984 la produzione brasiliana di etanolo ha registrato la prodigiosa crescita da 2 a 57 milioni di barili, giungendo a coprire il 43 per cento del fabbisogno nazionale di carburante Calcoli accurati non confermano, peraltro, i vantaggi economici della politica energetica del grande paese sudamericano, che la caduta dei prezzi del greggio potrebbe rendere ancor più gravemente onerosa. Sono impegnati, con programmi di ambizione diversa, a seguire le orme del Brasile sulla strada dell'emancipazione dal petrolio una serie di paesi dell'America centrale, ad esempio il Messico, che pure è grande produttore di petrolio, e dell'Africa, primo gli altri lo Zimbabwe.

Pure non appartenendo, salvo lembi della California e della Florida, all’area dei produttori di canna da zucchero, anche negli Stati Uniti la miscelazione di alcol etilico alla benzina ha costituito uno dei vessilli del programma di indipendenza energetica varato all'indomani della crisi petrolifera del 1973. Seppure l'attenuazione delle costrizioni energetiche abbia rallentato l'attuazione del programma governativo, che aveva previsto la produzione di 48 milioni di barili entro il 1985, nel 1984 le distillerie del Paese ne hanno prodotto 10 milioni. L'impiego dell’alcol come carburante ha registrato, parallelamente, sistematici progressi, passando, tra il 1981 ed il 1984, da 5,5 a 12 milioni di barili, una quantità superiore alla produzione interna, tale da imporre di coprire la differenza attraverso importazioni, che sono state realizzate, appunto, dal Brasile. L’entità delle importazioni è l'argomento impiegato dalle grandi corporations interessate alla distillazione dei cereali per sollecitare il varo di misure che favoriscano l’aumento delle proprie capacità di trasformazione.

Sulla convenienza energetica dell’impiego di etanolo di origine agricola come carburante si è acceso, peraltro, negli Stati Uniti, il dibattito più vivace. Dati gli elevatissimi consumi energetici che caratterizzano la produzione agricola di un paese in cui gli imperativi al risparmio della manodopera e la tradizionale economicità del carburante hanno radicato una tecnologia agricola fondata su altissimi input energetici, dato, inoltre, il costo energetico della distillazione, più di un esperto ha sostenuto che la conversione delle derrate agricole in alcol da destinare all'autotrazione si realizzerebbe con un bilancio energetico negativo. Computi più recenti, che assumono, quali termini di calcolo, tecnologie più aggiornate in tutte le fasi del lungo ciclo dai campi alla pompa del distributore, dimostrerebbero la possibilità di ottenere 1,5 calorie per ogni caloria consumata, un bilancio non esaltante eppure positivo. La marea delle eccedenze che sommerge l’agricoltura americana ha indotto i responsabili del settore a promuovere indagini dalle quali sarebbe risultata la possibilità di una radicale riforma degli ordinamenti tradizionali dell'agricoltura del Midwest per fare dell'alcol uno dei suoi prodotti chiave, con l'introduzione di nuove colture, ad esempio della barbabietola, da destinare alla produzione di etanolo. I risultati dimostrerebbero che la grande fascia del Corn belt sarebbe in grado di fornire 700 milioni di barili d'alcol, un quarto del fabbisogno complessivo di benzina del paese in cui l’automobile è simbolo dello stile di vita nazionale. La produzione di alcol non comprometterebbe, per l’impiego dei sottoprodotti, l’entità delle produzioni animali.

Quanti uomini sulla terra

Il nono capitolo del rapporto, curato da Brown, analizza le correlazioni tra i problemi esaminati in quelli precedenti, disponibilità di terra, produzione di alimenti e di energia, vitalità delle foreste, con il numero degli uomini che abitano il Pianeta e il tasso di crescita secondo il quale si moltiplicano nelle regioni diverse del planisfero. E’ il tema che dallo storico saggio di Robert Malthus ha acceso autentiche guerre ideali, un problema la comprensione dei cui elementi costituisce, secondo lo studioso statunitense, la chiave per spiegare il contesto economico del Pianeta, il cui quadro assai più dei segni di una guerra ideale propone quelli di una cruda guerra per la sopravvivenza.

Il Mondo si sta dividendo sempre più nettamente, secondo Brown, tra continenti e paesi dove il tasso di moltiplicazione degli abitanti si sta progressivamente annullando, dove quindi nei prossimi anni si può prevedere il raggiungimento di un equilibrio stabile, continenti e paesi nei quali la popolazione sta moltiplicandosi ad un ritmo che ne determina, nei casi più clamorosi, il raddoppio ogni vent'anni: un incremento più rapido di un quarto di quello proposto dallo stesso Malthus come limite teorico della crescita demografica. Sono due schiere di nazioni che si ripartiscono tra gli schieramenti politici del Globo, nei rapporti tra i quali è dato constatare alcune costanti significative: i paesi dal tasso di crescita prossimo alla stabilità producono, infatti, generalmente, alimenti e risparmio in misura superiore ai bisogni, i secondi producono, invece, generalmente, cibo e risparmio in misura insufficiente per le proprie necessità, sono quindi costretti a colmare le carenze attraverso gli aiuti alimentari ed i prestiti del primo gruppo, secondo una spirale incoercibile che ne aumenta la dipendenza alimentare e ne moltiplica l'indebitamento, due processi per il cui contenimento non è dato intravvedere alcuna soluzione razionale. Quale rilievo politico, psicologico ed etico riveste il problema della popolazione nelle relazioni tra le due schiere di paesi? Alla domanda Brown propone la risposta più articolata confrontando la temperie ideale, i temi del dibattito e gli slogan che hanno caratterizzato la recente conferenza sulla popolazione di Città del Messico, con la temperie ideale, i temi e gli slogan che caratterizzarono quella che si svolse a Bucarest nel 1974. Le differenze che rileva sono ingenti, espressione, sottolinea, dell'aggravarsi di tutti i problemi indotti dall'aumento della popolazione, tale da imporre schemi di giudizio nuovi ad una pluralità di governanti dei paesi in cui la grande marea demografica preme incontrollata.

Se, a Bucarest, alla minoranza dei paladini di una politica planetaria di freno delle nascite, al primo posto gli Stati Uniti, i paesi emergenti si opposero compatti proclamando il diritto a ricevere dall'emisfero industriale i mezzi necessari al proprio sviluppo, asserendo che lo sviluppo avrebbe indotto, automaticamente, l'arresto della crescita demografica, a Città del Messico, dopo un decennio di crisi petrolifere, cerealicole e finanziarie che ne hanno stremato le economie, dopo che le ondate successive di nuovi cittadini da alloggiare, sfamare, educare ed avviare ad una attività produttiva ne hanno disgregato i sistemi urbani, rese insufficienti le risorse agricole, compromesso quelle naturali, i leader della maggioranza dei paesi del Terzo Mondo dimostrano di avere compreso che nessun programma di assistenza internazionale sarà mai in grado di assicurare l'alimentazione, l'educazione ed il lavoro a masse umane che si moltiplicano geometricamente, che è quindi indispensabile arrestarne la crescita per concentrare le risorse disponibili su un numero di cittadini che non si dilati continuamente e inarrestabilmente. La composizione attuale della popolazione della maggior parte dei paesi del Terzo Mondo è tale, comunque, nota Brown, che anche riuscendo ad imporre, oggi, il modello della famiglia con due figli, lo schema teorico della stabilità, la popolazione continuerebbe ad aumentare, per effetto della molteplicità dei matrimoni attesi nei prossimi anni, verso un equilibrio che non verrebbe raggiunto che nel prossimo secolo: è la ragione per la quale la Cina, il primo dei grandi paesi dell'emisfero emergente ad avere assunto le scelte necessarie per non rimandare al secolo venturo il proprio sviluppo economico, ha pianificato lo sviluppo della popolazione secondo il modello della famiglia con un solo figlio.

Nonostante la maggiore consapevolezza dei governanti dei paesi che registrano tassi di incremento demografico più elevati, le contraddizioni, tuttora sussistenti, le opposizioni religiose, le difficoltà intrinseche di programmi efficaci di controllo della popolazione, dalla necessità di personale specializzato ai costi dei prodotti sanitari, fino alla diffusione delle motivazioni psicologiche necessarie al successo, impediscono che la percezione dell'urgenza si traduca in scelte efficaci. Secondo le stime più attendibili, la popolazione del Pianeta è destinata ad aumentare, prima di raggiungere la stabilità, fino a raggiungere 10 miliardi di persone, con l'insediamento di una frazione pressoché equivalente all'intero aumento in tre sole aree: l'Asia centromeridionale, dalle repubbliche sovietiche di popolazione musulmana all'India, l'Africa e l'America centromeridionale.

Secondo le proiezioni della Banca Mondiale, la popolazione della Cina raggiungerà il proprio equilibrio, ad esempio, dopo aver varcato la soglia dei 1.460 milioni, con un aumento di 400, quella dell'India dopo aver toccato i 1.700, con un aumento di 1.000 milioni, quella del Bangladesh dopo avere raggiunto 454 milioni, con un aumento di 367, quella del Brasile raggiungerà i 304, con un aumento di 174. Realizzerà, secondo la medesima fonte, l'incremento più elevato fra tutti i paesi del globo l'Etiopia, la cui popolazione dovrebbe salire dai 33 milioni attuali a 231: un aumento del 600 per cento. Come possa alloggiare ed alimentare un miliardo di uomini, oltre agli abitanti attuali, la penisola indiana, dove lo sfruttamento del suolo ha già varcato la soglia dell'alterazione irreparabile degli equilibri pedologici, o l'Etiopia, dove gli equilibri tra l’uomo e l’ambiente sono stati, probabilmente in modo irreparabile, travolti da un decennio, sono domande, sottolinea Brown, che non è eccessivo definire angosciose.

Un progetto per l'uomo e il Pianeta

Composto, nella successione dei capitoli del rapporto, il quadro delle relazioni tra l'umanità e le risorse terrestri dalle quali dipendono la sua sopravvivenza e la qualità della vita delle generazioni future, nell'ultimo capitolo, che ha compilato con la collaborazione di Edward Wolf, Brown propone un commento complessivo della molteplicità dei dati raccolti nello State of the World, enucleando i postulati di una filosofia che rappresenta il messaggio del Worldwatch Institute ai politici e ai leader d'opinione dai quali dipendono gli orientamenti che ispireranno le scelte decisive per il futuro della società umana. Dopo tre decenni di sviluppo vigoroso, durante i quali ha celebrato i propri fasti un'ideologia che postulava la perennità della crescita economica, incrinata dalla crisi energetica e da quella cerealicola degli anni ’70, nel penultimo decennio del millennio si registra il moltiplicarsi di attriti sempre più drammatici tra l'uomo e le risorse del Pianeta: nella morsa di una crisi economica generalizzata e perdurante appare sempre maggiore il numero dei paesi costretti a constatare che i propri suoli subiscono un’erosione al di sopra delle capacità di rigenerazione naturale, a verificare gli effetti drammatici della salinizzazione dei propri sistemi irrigui, del depauperamento delle falde acquifere, della degradazione dei sistemi forestali, dell'inquinamento del suolo, dell’aria e delle acque. La gravità dei fenomeni rende sempre meno attendibili i proclami dei paladini dell'ottimismo che dichiarano che l'intero novero di fenomeni non sarebbe che il modico prezzo che la società umana dovrebbe pagare per realizzare il proprio sviluppo, che l'uomo sarebbe comunque in grado di ricomporre gli equilibri alterati. Seppure senza la distinzione rigorosa tra cause ed effetti, e delle relative connessioni, in un numero crescente di paesi ed in sfere sempre più ampie della popolazione si stanno diffondendo, aggiunge l’economista americano, perplessità e scetticismo sul futuro del tutto sconosciuti nei decenni scorsi. Il propagarsi del malessere costituisce, rileva, condizione necessaria di consapevolezza, quindi premessa di scelte coerenti, ma non è condizione sufficiente: la complessità dei problemi, la molteplicità delle interrelazioni, determina, infatti, l'impossibilità di risultati sicuri affrontandone, anche con determinazione, uno solo, renderebbe vani i piani più impegnativi di un solo paese ove non fossero assecondati dalla cooperazione della comunità internazionale.

I problemi del Globo sono, in quanto tali, problemi comuni della collettività delle nazioni: affrontarli impone l'azione solidale di tutti i paesi obiettivamente coinvolti, anche se nella percezione della popolazione di alcuni quei problemi possano rivestire un'importanza minore, tanto da indurne i governanti ad iscriverli agli ultimi posti dell’agenda delle urgenze politiche. Il problema della conservazione delle foreste equatoriali può essere percepito dall’opinione collettiva di nazioni ad elevato sviluppo tecnologico, la cui cultura scientifica sia in grado di comprenderne il ruolo di riserve di risorse genetiche, costituisce ragione di interesse remoto per i paesi equatoriali nei quali sono ubicate, dove la foresta non rappresenta che una fonte di legna da ardere o di legname da esportare, un suolo da liberare per realizzarne la coltivazione. Il bando degli insetticidi a lunga persistenza nell'ambiente può apparire, ancora, obiettivo impellente per i paesi che garantiscono un'alimentazione sicura e abbondante ai cittadini, che pretendono l'eliminazione dai cibi delle tracce minori di residui venefici, può rappresentare problema insignificante per i paesi della fame, alla ricerca di mezzi di efficacia immediata, e di costo modesto, per la difesa delle derrate vegetali, degli animali allevati, della popolazione umana. Perché l'umanità possa abitare la Terra vivendo delle sue risorse nei secoli futuri, la condizione necessaria è la cessazione delle forme di rapina con cui di quelle risorse si appropria o con cui le deteriora, e l'adozione di modalità di impiego che non ne compromettano le capacità rigenerative. Proporsi questo obiettivo significa, ribadisce Brown, arrestare la compromissione dei suoli e delle acque, fissare il loro sfruttamento ai livelli che consentano la rigenerazione della fertilità ed il rinnovamento delle falde acquifere, diffondere le pratiche di purificazione e il reimpiego delle acque reflue, significa determinare l'entità dell'estrazione di fossili energetici e di minerali in modo da prolungarne la disponibilità, provvedendo al soddisfacimento delle quote esorbitanti dei fabbisogni ricorrendo alle fonti di energia perpetue e al riciclaggio di tutti i materiali ricavati da materie prime fossili. Significa, infine, fissare l'entità della popolazione alla quale il Pianeta è in grado di assicurare una vita degne di esseri umani, impegnando ogni risorsa internazionale per favorire gli sforzi dei paesi più lontani dalla stabilità demografica verso una meta il cui raggiungimento è preliminare a tutti gli obiettivi di sviluppo, condizione essenziale per l'equilibrio tra l'uomo e le risorse.

Sono traguardi che impongono svolte storiche su tutti i terreni che coinvolgono la politica economica, quella ambientale, quella sociale, che non sono realizzabili senza il grado più intenso di cooperazione internazionale. Il loro perseguimento è subordinato, quindi, alla capacità dei leader politici di comprendere, convincere, operare. Se, osserva Brown, governare le nazioni nelle epoche di stabilità economica, tecnologica, demografica, non è compito agevole, guidare i popoli, indirizzare l’umanità nella grande svolta dei suoi rapporti con la Terra è impegno dalle difficoltà evidenti, che impone in chi sia chiamato ad assolverlo il grado supremo delle doti della guida politica: negli anni cruciali in cui deve decidere se potrà protrarre la propria esistenza nei secoli, se le forze che ha scatenato ne interromperanno l’esistenza, la vita dell'umanità dipende dall'emergere, alla guida delle nazioni, di uomini capaci di orientare una trasformazione di entità tale quale non si è imposta a nessuno dei capi dei popoli che sono succeduti, dall’alba delle società organizzate, sul pianeta del sistema solare chiamato Terra.