La fabbrica/VII
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La Virginia Terragni, che si sentiva le ossa indolenzite sul lettuccio duro del Bitossi, andava lamentandosi continuamente. Oh! perchè le avevano vendute le materasse del suo bel letto matrimoniale, perchè l’avevano ridotta a quel punto?... potevano venderle anche il letto e il saccone, posto che ci si erano messi... Che se ne faceva lei del letto senza le materasse, e senza una camera dove farlo entrare? Tutta quella bella lana comperata apposta per lei dalla sua povera mamma, che se ne intendeva! Il fusto e l’elastico li aveva forniti il primo falegname di mobili che ci fosse a Lodi, il coltrone con le fodere di filugello tessuto a spiga, imbottito col cotone di prima qualità, l’avevano fatto in casa e trapunto in seta. Tutto insieme quel letto costava cinquecento lire e ci poteva dormire una contessa. Oh! se i suoi poveri vecchi avessero saputo che doveva finire a quel modo!
La voce rotta, cavernosa della povera tisica, risuonava tristamente nella stanzuccia quasi vuota, fredda, dai muri appena imbiancati - Bitossi aveva voluto che almeno fossero puliti - esalanti un forte odore di calce.
Luisina ascoltava rassegnata, ma col cuore straziato, la rievocazione di quei particolari tante volte uditi.
- Mamma, mamma, sta queta non affannarti così, ti tornerà la febbre! Che serve tormentarsi con questi ricordi, oramai; che serve?
Inutile. La Virginia non le dava retta; non la sentiva neppure. Riafferrata dalle visioni del passato ella parlava e parlava nella sovraeccitazione della debolezza, con la lucidità di memoria e l’abbondanza di particolari, così caratteristica nei vecchi e nelle persone, pure non vecchie, che hanno concentrato tutta l’energia del loro pensiero su un dato periodo della loro esistenza. A poco a poco quella rievocazione assorbiva la Virginia al punto di farle dimenticare le circostanze presenti. Le immagini disseppellite le si affollavano intorno; e sulle labbra smunte passavano aneddoti tristi e bizzarri, pitture animate di persone care o ridicole; narrazioni patetiche di giorni tetri, o ricordi lieti di ore gioconde.
Luisina non tentava più di farla tacere; quel vaniloquio, tormentoso per lei, le pareva benefico per la sua povera inferma, e temeva anzi che cessasse, che l’incanto fosse rotto dai rumori della corte, dalle voci rozze degli strozzini che avevano comprata la roba e se la portavano via.
In quel momento fu picchiato all’uscio. Era la Colombo, che recava la quietanza del padron di casa.
La Virginia, richiamata al sentimento delle cose presenti così repentinamente, ebbe uno scoppio di collera e di disperazione.
- Non gridare, mamma, non ti disperare. Dio ci aiuterà, io lavorerò - andava dicendo la giovane soffocando i singhiozzi.
- Dio non abbandona mai chi confida in lui - sentenziò una voce agra, in un tono falso, sulla soglia della camera.
- La sora Rosa!...
- In persona. Non arrivo in buon punto?... Le disturbo?
- Oh, no!... ma il momento è brutto. Non sa? Non vede come siamo ridotte?... Non ci è rimasto che il fondo del letto, e non sappiamo come giovarcene... Qui siamo in prestito!...
- Poverine! Un brutto momento davvero. Ma, torno dire, Dio non abbandona chi confida in lui.
Ella si fece innanzi quasi solenne, depose sul tavolino un pacchetto di carte, e, appoggiandovi sopra il dito, disse:
- Qui c’è un poco di consolazione.
Le Terragni ammutolirono.
Indovinarono troppo bene da qual parte venisse quella così detta consolazione, e ciò impediva che se ne rallegrassero.
Gli occhi della madre dicevano:
- Ho capito; è Angiolo Zibardi; ci vuol altro! Ripari i suoi torti... ripari.
Gli occhi della figlia fissavano torvi il suolo.
Questa scena solleticava naturalmente la curiosità della Colombo, che rimaneva ritta in sull’uscio.
La "poveretta della chiesa" a cui non garbava che colei rimanesse a fare da testimonio, le diede un’occhiata assai significativa.
- Una persona caritatevole e molto religiosa, avendo saputo le loro disgrazie, mi ha incaricata di portare questo soccorso. Ecco: sono duecento lire. La persona benefica sa...
Si arrestò e guardò l’uscio.
La Colombo era scomparsa. Aveva inteso abbastanza, e le premeva di raccontare a tutto il vicinato che le Terragni avevano ricevuto duecento lire da un signore, il quale signore non poteva essere altri che Angiolo Zibardi.
Gli occhi d’avvoltoio della "poveretta" sorrisero malignamente al rumore degli zoccoli sbatacchiati giù per le scale.
- Rompiti il collo - mormorò tra i denti lunghi dondolanti. Poi, rivolgendosi alla Luisina, riprese con altra voce e altro sguardo: - La persona caritatevole è il signor Angiolo Zibardi... loro mi avevano già capita. Egli avrebbe fatto di più volontieri, se non si trovasse pieno d’impegni... È però sempre una bella carità, un’azione generosa, da uomo di cuore.
- Se fosse un uomo di cuore... un galantuomo, - scattò l’inferma - si sarebbe comportato diversamente... avrebbe ridato l’onore a questa povera ragazza...
La Luisina pensava:
- Duecento lire... è assai meno di quello che mi aveva offerto l’ultima volta... Che non voglia più domandarmi la carta di Santa Caterina, né il segno di riconoscimento?...
E questo pensiero quasi la riconciliava con quell’uomo.
Ma alle parole della Virginia la sora Rosa saltò su lasciando il tono di falsa dolcezza e ripigliando quello ruvido e reciso che le era proprio:
- Io non c’entro nei loro interessi; non voglio sapere. Credo però che il signor Zibardi non abbia alcun impegno serio, alcun obbligo oramai...
E calcò malignamente su queste ultime parole. Poi, accorgendosi che le due donne sgranavano gli occhi e Luisina voleva scattare, soggiunse abbassando la voce:
-... tanto più credo che non ne abbia dacchè quel tal bambino... è morto l’altra settimana.
- Morto!... - gridò la stiratrice balzando in piedi tutta d’un pezzo, le mani protese, rigide, gli occhi sbarrati. - Morto!... - ripete con la voce strozzata.
- Sì, poverino. Ecco qui la fede... Scusi tanto credevo che lo sapesse! Non andava sempre dalla comare per le notizie?...
- Vipera!... - mormorava l’inferma dal suo letto. - Vipera!...
Luisina piangeva annientata. Le parole ironiche della Bellincioni non la toccavano; potevano sbeffeggiarla, avvilirla, che le importava? Il bimbo era morto, morto in quel marciume di Brefotrofio; morto senza un bacio, senza una carezza!...
E piangeva tutte le sue lagrime, piegata in due incapace di reagire.
Questa disperazione della sua figliuola fendeva il cuore alla madre. Un parossismo di collera che le ridonava in un istante le forze la fece drizzare sul letto, e fissando gli occhi fiammeggianti in volto alla vecchia gridò con quanto fiato aveva.
- Fuori di qui!... fuori, birbona!... Canaglia... Fuori!...
- La compatisco perchè è pazza! - balbettò la Bellincioni tutta rossa in viso, roteando gli occhiacci di avvoltoio. Un passo che si sentiva sulla ringhiera la fece ammutolire; restò un momento interdetta, poi infilò l’uscio e si ritirò.
Bitossi trovò la Virginia svenuta nelle braccia della figliuola.