La fabbrica/VI
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Anche quando ci stimiamo disperati, o rassegnati a tutto - ciò che torna lo stesso - la speranza è ancora tanto forte in noi da acciecare più o meno la nostra ragione. Per questo il giorno della catastrofe, siamo colpiti da quello strano stupore, da quell’invincibile sbalordimento, anche se i mali che ci cadono addosso, sono di quelli che abbiamo lungamente aspettati, giudicandoli inevitabili.
Così la povera gente che non aveva pagata la pigione, né trovato casa, né provveduto in altro modo ai casi suoi, vide arrivare il giorno delle sgomberature con senso di stupida meraviglia, come se non avesse mai più sopposto che quel giorno sarebbe arrivato preciso, come sempre.
Nella tetra camera, la Luisina si era buttata a sedere su uno sgabello e non parlava più. L’angoscia la istupidiva. Erano le nove, e per mezzogiorno doveva consegnare la chiave al nuovo inquilino, e la mobilia doveva essere ammucchiata nella corte, dove si sarebbe fatta l’asta. Il Piloni si chiamava nella impossibilità di attendere, pur dimostrando un vivissimo dispiacere di trovarsi a quei passi. Era il suo stile: strozzare con gentilezza.
La Virginia era a letto, ripresa dalla febbre dopo lo strapazzo di quel suo pellegrinaggio alla Congregazione. Eppure bisognava che si alzasse, che andassero!...
- Dove?...
Una parola era corsa sulle labbra di alcune vicine: "all’ospedale."
Consigliavano la Luisina a darsi attorno perchè la sua mamma potesse essere ricoverata prima di sera. Lei inorridiva al solo pensiero.
Francesco Bitossi, il muratore, che voleva veramente bene alla giovane, aveva lasciato la chiave della sua camera alla portinaia con l’ordine di consegnarla alle Terragni. Egli andava a dormire da un cugino fuori di città.
Luisina sapeva che il Bitossi non aveva nessuno al mondo e che avrebbe passata la notte a girare, o in qualche locanda. Vagamente ella pensava allo Zibardi. Possibile che la lasciasse mettere in istrada con la madre malata, senza mobilia?... Lei però non voleva farsi avanti; non poteva neppure, dopo quella proposta così alteramente respinta. Aveva anche paura di fare uno sproposito nel caso che lo Zibardi rifiutasse.
Si sentiva certi impeti... aveva certe visioni... Ma poi?... La sua mamma sarebbe morta di crepacuore e il povero piccino d’inedia.
Ad ogni passo che si avvicinava, a ogni rumore nuovo ella aveva un sobbalzo angoscioso; poi ricadeva nella sua prostrazione.
La casa era tutta all’aria. Si contava più di una dozzina di inquilini che sgomberavano. La corte era piena di mobilia. I piccoli mobili si portavano per le scale, i grandi si calavano o si tiravano su dalle ringhiere. E tutta quella gente affannata, nervosa, malcontenta era pronta a gridare; a sospingersi, ad attaccar lite. Già tre grosse dispute erano avvenute tra quelli che si attardavano e quelli che avevano fretta. I disinteressati stavano a guardare con quell’aria d’indifferenza che sembra dileggio a chi s’arrabatta in mezzo ai fastidi.
Fra quelli che se ne andavano c’era la famiglia del muratore Tamburini, che, perso il sussidio della Congregazione, non poteva più pagare quella pigione. L’uomo era andato a lavorare per togliersi d’impiccio e la moglie faceva lo sgombero da sè, aiutata dai figli, due ragazzotti tra i dodici e i quattordici anni, sotto agli occhi della donna gialla, che empiva la ringhiera della sua ciccia e non s’allontanava che per distribuire le solite lavate di capo alle sue dozzinanti. La Tamburini era tanto avvilita - il marito le aveva trovato un alloggio così miserabile - che non le restava fiato neppure per litigare, e tirava via nel suo lavoro con una furia disperata.
Nel viavai fece un certo senso l’arrivo di un uomo sui quarant’anni, vestito civilmente, che portava diversi oggetti disparati: una rivoltella, una gabbia con un canarino, una statuetta di gesso bronzato, uno specchio con la cornice dorata e un fiasco di Chianti. La portinaia gli camminava davanti con la chiave di un locale rimasto vuoto da parecchio tempo. Era una specie di casupola indipendente che sporgeva in mezzo alla corte, adossata a un vecchio muro, composta di un solo piano un po’ sopra il livello della corte e diviso in tre vani: uno stanzone, una cameretta, una cucina. Cinque scalini di pietra, ben logori, mettevano all’uscio di entrata di questo singolare appartamento, e subito si entrava nello stanzone, il quale aveva due finestre grandi e due usci, oltre quello d’entrata: uno in fondo che metteva in cucina e uno a destra che metteva in camera. La cucina riceveva luce da uno sgabuzzino che guardava sopra un’altra parte della corte, in un angolo quasi buio; la camera invece era abbastanza ariosa e comunicava per un piccolo uscio a muro, anche con la cucina.
Appena aperto l’uscio si sprigionò un’ondata di quell’esalazione opprimente propria dei luoghi chiusi, umidi, mal tenuti. Il nuovo venuto però non se ne fece caso; posò in un cantone, sull’ammattonato nero e sparso di buche, la roba che teneva in mano, e spalancò la finestra. Prese la gabbietta, e attaccatala a un chiodo - che di chiodi non era penuria in quelle pareti - pregò la Colombo di procurargli un pochino d’acqua e ne mise quanta occorreva nel beveruolo dell’uccelletto che subito cominciò a svolazzare pieno di confidenza.
- Adesso la chiave la tengo io, eh?
- Sissignore... sor pittore... Martelli, vero?
- No! scultore. Diego Martinelli.
- Ah! avevo capito male.
E lo scultore, chiuso il suo nuovo alloggio, scappò via incontro ai carri della sua roba.
Erano arrivati gli inquilini che entravano nella camera delle Terragni: un macchinista con la moglie; due bei giovani. Ma siccome non era ancora l’ora di rigore, non avevano diritto altro che di mettere la roba in corte, se volevano.
- Avrebbero però fatto meglio ad arrivare più tardi! - gridava la Colombo. - C’è una povera donna malata, bisogna avere un po’ di carità.
Il macchinista si scusava: aveva poche ore di libertà e desiderava approfittarne. La sposina, più caparbia, aveva delle piccole mosse dispettose.
Pallida come una morta, Luisina scendeva appunto, le braccia cariche di masserizie, seguita dal ferraio Mariani - un pezzo d’uomo taciturno, buono come un bambino - che portava la tavola da stirare.
- Sora Luisina, - fece la Colombo andandole incontro, - c’è qui il signor... quel macchinista... il sor...
- Bianchi Luigi, macchinista - suggerì il nuovo inquilino, serio.
- Ho capito, ho capito - rispose Luisina con un cenno di saluto. - Abbia pazienza soltanto un momento.
- Ha diritto ancora un’oretta - osservò la Colombo.
- Ormai non mi serve; non ho più speranze.
E così dicendo ebbe un riscossone e serrò forte i denti per non scoppiare in singhiozzi davanti agli altri.
- Senta... - fece poi, volgendosi alla portinaia - ho deciso: mi dia la chiave del Bitossi!... Ci metterò la mamma per questa notte; domani si vedrà... Se mi toccherà proprio di mandarla all’ospedale!
- Povera figliuola!... Speriamo di no... ma se non c’è rimedio... meglio all’ospedale che in strada.
Il ferraio domandò:
- E poi, devo portar giù anche il letto?...
- Il letto non glielo venderà il padrone, che diamine! - esclamò il vecchio Colombo. - Non è tanto cattivo.
- E allora su cosa vuole che si rifaccia? Non c’è quasi altro nella mia casa e gli dobbiamo dugento lire. Ci lascerà un materasso.
E rise, battendo le palpebre.
- Ecco la chiave...
Al contatto di quel pezzo di ferro che per lei avea un significato così grave, poichè poco o troppo la legava al Bitossi, Luisina fu presa da un tremito convulso, e una fiamma di vergogna le salì alle guancie, mentre i singhiozzi lungamente repressi, le facevano nodo alla gola.
- Ora bisogna che vada a preparare la mamma. Non sarà facile!... Ci bada lei alle mie robe, Mariani?
- Sì, sì... Vada. Io sto qui a fumare una pipa...
La stiratora s’allontanò; salì le scale adagio adagio, camminando a fatica, la schiena piegata, le mani penzoloni.
Nella corte si preparava intanto un altro diavoleto.
Voci impazienti chiamavano la Colombo, che rispondeva sgarbatamente, seccata di tutto quel da fare.
Arrivava un altro carro carico di mobilie; bisognava far posto, sbarazzar l’entratura. Il padrone di casa mandava a dire che la roba da vendere all’asta fosse pronta in corte per mezzogiorno, immancabilmente.
Il carretto zoppo, sconquassato su cui i Tamburini avevano collocate le loro masserizie si avviava all’uscita, tirato dai due ragazzi.
- Non passa!... Non passa!... ferma!... - gridavano alcune voci.
- Altro che passare! la stia zitta, lei! Badino ai fatti loro!...
E i ragazzi, incaponiti, tiravano più forte.
- No!... No!... Basta!... Casca ogni cosa!...
- La vita! Ehi! La vita!...
In mezzo a queste grida la mobilia male ammucchiata cominciò a traballare; due sedie andarono a ruzzoloni; un cassettone cadde di piombo e si sfasciò.
Alte strida echeggiarono.
Lo scompiglio della corte invase la strada.
Il carro che stava per imboccare l’entratura dovette retrocedere. Diego Martinelli, che ritornava con la moglie e la roba, le mani cariche come la prima volta, restò egli pure in mezzo alla strada, molto imbarazzato per le cose fragili che portava e i due carri che lo seguivano. La circolazione fu totalmente impedita ai veicoli di ogni specie.
I fiaccherai bestemmiavano. Dai trams, fermi in distanza, la gente scendeva per vedere, ingrossando la folla dei curiosi. Martinelli era sulle spine.
- La mia statua! Ahi!... ora me la sfracellano!... Badino signori... scusino...
E girava affannosamente intorno al carretto per proteggere, dai pericoli che la minacciavano, una statua di gesso, una Eva colossale, avvolta in una coperta di lana greggia, bersaglio improvvisato ai frizzi dei cocchieri e dei monelli.
La Tamburini invece di occuparsi della sua roba, picchiava i figliuoli con un bastone come impazzita; e gli urli dei due ragazzacci esasperati empivano la corte e la strada.
Mariani il ferraio, che aveva finito di fumare la sua pipa, si alzò sorridendo, tirò da parte i mobili rotti e il carretto sconquassato e liberò il passaggio.
Lo scultore Martinelli fece il suo ingresso nella corte piena di gente e di roba, con la sua Eva che si svelava qua e là traverso i buchi della coperta.
Nella strada ricominciò il solito movimento. Soltanto i curiosi più accaniti rimasero fermi ad aspettare l’uscita del carro dei Tamburini, che il ferraio riallestì in un batter d’occhio. Grottescamente tragica, la Tamburini lo stava a guardare. Pareva una furia, così spettinata, secca, allampanata, gli occhi ardenti di una fiamma devastatrice. Qualcuno le aveva strappato di mano il bastone, o lei stessa l’aveva gettato. Ma non la sua lingua si stancava d’imprecare al marito che la lasciava sola in mezzo ai fastidi, ai figliuoli che venivano su come lui, birboni, egoisti.
Quando tutta la povera mobilia si trovò ricaricata, anche lei si avviò al suo destino camminando dietro al carro traballante che i due monelli tiravano allegramente, ridendo e scherzando, dimentichi delle busse, eccitati da tutto lo scompiglio che avevano cagionato.
- Sbrighiamoci! - diceva la signora del Martinelli, una piccolina dal viso dolce che quasi spariva nella irradiazione di due occhioni azzurri, chiarissimi, eternamente meravigliati. - Chi ci aiuta ora?
- I modelli, per bacco!... Come ci hanno aiutato a caricare...
- Gli è che non li vedo, e poi c’è tanta roba ancora nel tuo studio!... Dovranno andare a prenderla...
- Non t’inquietare. Li ho lasciati un momento all’osteria perchè l’Etrusco aveva una sete da spugna e Pollo allesso non canzonava, sai bene. C’ingegneremo, del resto. Deponiamo intanto queste piccole cose. Vedo lì un giovinotto che ci darà una mano..
- Lo conosci?
- Sì; lavora alla fabbrica del Piloni; ci siamo incontrati qualche volta; è un buonissimo diavolo. Ehi! Bitossi!...
Il muratore, che, insieme al ferraio, aveva appena finito di portar giù il letto delle Terragni, accorse subito alla chiamata del Martinelli. Si salutarono, e la signora Sofia trattò il nuovo compagno del suo caro Diego come un vecchio conoscente.
- Vorrei prima di tutto mettere a posto questa mia povera Eva, che se non è andata all’inferno è proprio un miracolo.
- Com’è bella!
- Eh!... Ai suoi tempi! Ha vinto anche un premio. Sicuro! All’Accademia di Brera; vent’anni fa. E adesso le statue sono come le donne: invecchiano. Valle a cercare quelle che hanno vinto un premio di bellezza vent’anni fa; me ne racconterai di carine!
- Ma l’arte è eterna... il capolavoro...
- Ih! Ih!... Meglio non parlarne di codeste cose. Ci si fa cattivo sangue. Senti soltanto questa: all’ultima Esposizione - non qui, qui non espongo neppure - a Torino, ho mandato una riproduzione di questa povera Eva, più in piccolo... nella speranza di prendere... Me l’hanno scartata!
- E il marmo a chi l’hai venduto?
- Il marmo?!... Ah! Bitossi mio tu non sai. Questa povera Eva ebbe il premio dell’Accademia, ma un committente che me la facesse fare in marmo non l’ho mai trovato. Per qualche cosa faccio lo stuccatore e il decoratore di case alla Piloni... Lasciamo stare, per l’amor di Dio!... Etrusco!... Hai finito?
I due modelli, che uscivano appunto dall’osteria con gli occhi lustri, le guancie illuminate, accorsero. La statua fu tirata giù e portata nello stanzone con molta delicatezza.
- Ora noi andiamo a prendere il resto con questo carretto.
- Sì... ma senza fermarvi per la strada!
- Qui bisogna scopare, levare i ragnateli... È una vera sporchizia.
- Non ti tormentare, Sofia, faremo noi... Qui c’è la granata... qui c’è la pertica col suo bravo scopino di piuma...
- E io vado a prendere dell’acqua per lavare i pavimenti.
In un quarto d’ora, grazie all’attività dei due uomini, quelle stanzaccie acquistarono un aspetto meno lurido.
Sofia stava in corte a far la guardia al carro grande; e il canarino cantava allegramente, come in una reggia. Un nuovo affluir di persone mise sossopra la corte. Erano i rivenditori di mobilia a stracciamercato, gli strozzini, i soliti frequentatori di tutte le aste di simil genere: veri animali di rapina che si abbattono sui cadaveri: avvoltoi della miseria...
Oltre ai mobili delle Terragni andavano venduti anche quelli di un calzolaio, ubbriacone famoso, padre di tre figliuole, ed anche quelli di una cucitrice, povera creatura malaticcia abituata ai digiuni.
Bitossi venne a vedere con la scopa in mano.
- Un’asta! - esclamò la signora Sofia...
- Purtroppo!
- Povera gente!
- E chi sono? - domandò lo scultore.
Bitossi raccontò delle Terragni, con la voce soffocata e il viso pallido.
Diego e Sofia compresero subito che quello non era un interessamento comune, una pietà di semplice prossimo; e la loro simpatia per il giovane operaio divenne più viva.
- E dove sono andate queste povere donne?
- Per intanto le ho pregate di rifugiarsi nella mia camera; la Luisina non voleva, ma piuttosto che mandar la mamma all’ospedale, capirà...
- Sicuro... poverette...
- E tu dove vai a dormire.
- Oh, troverò bene!...
- Dormi qui da noi... in questo stanzone. Abbiamo una vecchia ottomana.. Spero che i topi non ti mangeranno.
- Non facciamo complimenti. È cosa intesa - aggiunse Sofia, i cui sguardi erano attratti dai preparativi dell’asta. - E il vostro Piloni, quell’uomo così bonario, che pare abbia il cuore in mano, fa di queste porcherie?
I due uomini si scambiarono un’occhiata piena di sottintesi ironici, e tutti e due uscirono in un’amara risata.
- Sono curioso di vederlo sotto questo punto di vista - osservò Bitossi all’amico. - Ora arriverà.
Sofia guardava con un senso di angoscia, un misterioso fascino, tatti i particolari di quella scena. Il calzolaio, ubbriaco fin dal mattino, se ne stava in un canto, nella sua impassibilità selvaggia, circondato dalle tre monelle, tre faccie scialbe, istupidite dalla fame e dalle botte, che si guardavano intorno con gli occhi torvi e stupiti. La cucitrice, accovacciata sugli scalini che mettevano alle cantine, piangeva sommessamente con certi riscossioni di tutto il suo piccolo corpo esile, rifinito.
- Quella donnetta mi strazia il cuore - diceva Sofia chinando i grandi occhi terrorizzati.
- Siam pronti?...
Queste parole, che il Piloni rivolse al Colombo appena varcata la soglia, furono udite in tutta la corte.
- È qui! - esclamò Martinelli, e poi subito rivolgendosi alla moglie: mettiamoci a tirar giù la nostra roba, che non ci creda troppo curiosi dei fatti suoi.
E tutti e tre si misero all’opera.
La testa alta, il cappello da bandito calcato un po’ all’indietro, un largo sorriso sulle labbra carnose sotto ai grandi baffi biondastri, i piccoli occhi ammiccanti in cima al grosso naso, e con la sua solita andatura baldanzosa di uomo corto e grosso, che ha bisogno di buttarsi un po’ all’indietro per ragione di equilibrio, il Piloni traversò la corte andando direttamente verso il mucchio delle mobilie destinate all’asta...
- E le Terragni? - domandò, abbassando il vocione e rivolgendosi al portinaio, lungo, scarmigliato e male in sesto, che gli stava a làtere in atteggiamento di grande rispetto.
Intervenne la moglie - donnetta sui quarantacinque coi denti rotti, ma assai bene in carne e tuttavia appettibile per certi stomaci di struzzo, come diceva il capomastro cinicamente.
- Il Bitossi le ha raccolte nella sua camera, finchè si trovano...
- Benone! E lui?...
- Credo che s’accomoderà per intanto presso al pittore Martelli...
- Come?... Chi è costui?
- Si sbaglia sempre! - gridò il marito. - Presso Martinelli...
- Ah! il mio stuccatore. Bravi! Tutti socialisti... Benissimo!
E con una risata clamorosa inviò un saluto cordiale a Bitossi e a Martinelli, che stavano sollevando un enorme cassettone antico. I suoi occhietti fulminei incontrarono i grandi occhi meravigliati della Sofia, e per mostrarsi gentile con le signore, toccò un momento il cappello.
- Belloccia la tortorella! - mormorò mandando giù la saliva. - Ehi là!... con questi stracci cosa facciamo? Io ho poco tempo.
- Ecco l’usciere.
- Ma le Terragni hanno portato giù tutto?
- Sì, signore, anche il letto.
- Uhm! C’è poco da stare allegri. Bisognerà lasciargli almeno un materasso.
- Se fossi in lei, lascerei piuttosto il fondo del letto col saccone elastico - fece uno dei rivenditori accostandosi. - È buono, ma più difficile a rivendere... mentre le materasse sono piene di lana lunga, finissima... che si può dare per nuova.
- Non hai perso tempo!... Ah, ah, ah!... Va bene, va bene. Faremo come tu dici; ma io incanto il mio credito...
- Si... ma se nessuno offre di più, che se ne vuol fare lei di questa roba? non può mica metter su bottega da rigattiere!...
- Birbone!...
Quando tutto fu liquidato, il calzolaio, che sperava di riscuotere qualche cosa, fu dichiarato in debito di dieci lire; ma il capomastro gli disse che gliele regalava insieme ai due sacconi... che non poteva portargli via.
- E adesso dove vado? - gridò il beone uscendo improvvisamente dalla sua indifferenza..
- Va in Questura; il Municipio ti troverà un asilo; quanto alle tue ragazze, ho parlato con una signora che ha promesso di farle ritirare e qui hai venti soldi per mangiare un boccone... Non dirai male di me, eh?...
Già il calzolaio allungava la mano; ma il Piloni ebbe un pentimento, e invece di dare il franco al padre, lo diede alla maggiore delle ragazze.
-... Tu saresti capace di bevertelo!
E giù un’altra risata.
La roba della cucitrice bastò per l’appunto a saldare il suo debito. Sentito questo, ella si alzò, si asciugò le lagrime e s’allontanò barcollando, senza proferir parola, senza neppur guardar il Piloni, che parve offeso da quel contegno; soltanto nell’uscire essa avvertì la Colombo che il giorno dopo avrebbe portato via il suo saccone; e disparve misteriosa e chiusa in sè, come sempre era stata.
Le Terragni restarono con trenta lire di debito e la lettiera in legno di noce col suo saccone elastico che riparò per il momento nello stanzone dello scultore, dacchè non era possibile di farla entrare nella piccola camera di Bitossi.
Quanto alle trenta lire il capomastro disse ad alta voce che ci faceva sopra il crocione; e che se potevano accomodarsi in qualche modo in una delle camere rimaste vuote, purchè pagassero, lui non ci aveva nulla in contrario.
Così, sbrigate queste faccende, contento come una pasqua di essersi mostrato, secondo la sua idea, rigido e bonario (strozzino e falsamente generoso) egli si affrettò ad andarsene, mentre i rigattieri portavano via la roba comperata, e i due modelli ricomparivano nella corte col carretto carico delle vecchie carabattole di studio a cui il Martinelli era affezionato.
- Sicchè, cosa ne dici dell’uomo bonario? - chiedeva lo scultore alla moglie.
- Un birbante!
- Come?... Se è tanto generoso!
- Una canaglia!
- Capace di tutto! - sentenziò Bitossi.
Ma non era tempo da perdersi in chiacchiere. I mobili erano tutti in casa: i più pesanti già a posto, e Bitossi e Martinelli dovevano ritornare alla fabbrica per le due.
- Accomodiamo la mia Eva, - disse Martinelli, - per il resto avremo tempo stasera e domani. La mettiamo qui, in un cantone, che ne dici?
Sofia approvò.
- Ci metterai per fondo il tuo arazzo, e sarà una bellezza.
- Il mio arazzo?... Impossibile...
E la guardava tutto sconvolto...
Ahimè! l’arazzo era stato venduto per far fronte alle spese dello sgombero e pagare il trimestre anticipato al Piloni, e lei se n’era scordata! Sentì il rossore montarle alla fronte; pure non si perdette d’animo e rispose allegramente:
- Starà meglio la peluche dai riflessi rossi.
Bitossi fermava solidamente la base della statua e, tutto intento al lavoro, taceva discretamente. Martinelli sorrise alla gentile Sofia e i loro sguardi si scambiarono una carezza.
- La base è pronta! - esclamò Bitossi rizzandosi.
La statua fu messa a posto. Poi, già che restava un po’ di tempo, aiutarono i modelli a scaricare il carretto. Busti, statuette, sgabellotti, mensole, cavalietti, vecchie stoffe sdruscite, una gran tela, sorta di velario, ornata di pitture bizzarre e umoristiche, che doveva servire a dividere lo studio in due parti; specchietti e conchiglie, due vecchi mannequins snodati anche più del bisogno, uno colossale, l’altro piccolo; panconi greggi, qualche pezzo di terraglia dipinta; tutta questa roba più o meno deteriorata, tanto che quasi ogni singolo oggetto pareva un documento della miseria dell’artista, fu deposta alla rinfusa nello stanzone intorno alla povera Eva, che sovrastava tristamente a quello scompiglio con la sua bella testa classica senza vita.
Soltanto le armi, per le quali il Martinelli - garibaldino del sessantasei e del settanta - aveva una vera passione, furono subito appese al muro in un certo ordine.
La piccola collezione si componeva di pochi pezzi tra i quali primeggiavano: due bei fioretti da sala di scherma, un pugnaletto giapponese; una rivoltella di piccola misura ed un fucile; questi ultimi sempre carichi.
- Il tocco e mezzo! - esclamò Bitossi scuotendosi di dosso la polvere. Vado un momento a salutare le Terragni, poi scappo alla fabbrica.
- Io pago i facchini e sono con te.
Appena fu solo, Martinelli corse in camera, dove Sofia era intenta a mettere ordine. I grandi occhi pallidi sfavillarono.
- Sei solo?
- Sì. Devo andare anch’io...
Ella depose lo strofinaccio col quale stava ripulendo lo specchio del cassettone, saltò giù dallo sgabello su cui era montata e andò a gettarsi con passione nelle braccia dell’artista.
- O Sofia! Come sei buona! Come sei buona! E che rimorso è il mio di averti trascinata in questa vita miserabile!...
Due lagrime cocenti caddero sul collo della giovane.
- Tu piangi?!... O perchè? - esclamò lei alzando la testina e fissandolo con gli occhi stupiti.
- Perchè mi si stringe il cuore a pensare che tu sei tanto buona, tanto cara, e che io ti compenso così...
Con un gesto vago egli accennò al luogo ove si trovavano, alle pareti annerite, piene di buchi, al pavimento sgretolato, agli usci mangiati dalla vecchia carie della muffa e della sporcizia, e un singhiozzo, lungamente represso, eruppe dal suo petto.
- O Sofia!... o Sofia!... Che rimorso!.., che dolore!...
- Ma se io ti amo!... Ma se non potrei essere più felice!...
E lo baciava con effusione sulle labbra, sugli occhi, sulle tempia solcate.
Era una storia commovente questa del loro amore. Martinelli, sposato intorno ai trent’anni con la figlia di un negoziante, non aveva trovata alcuna felicità nel matrimonio; la giovane signora Martinelli non s’era potuta adattare alla vita randagia e zingaresca dello scultore. Dopo pochi anni una separazione giudiziaria rendeva a ciascuno un simulacro di libertà; e Martinelli, dichiarato prodigo, doveva spogliarsi di tutto per restituire la dote alla sposa e sollevarsi dalle ossessioni dello suocero.
In tali contingenze dolorose egli aveva incontrato Sofia Carani, molto più giovane di lui, figlia di un organista della provincia, venuta a Milano per imparare il canto sotto la protezione di una zia. Col racconto delle proprie sventure egli era riuscito a impietosirla profondamente, poi a farsi amare e finalmente a ridurla con sè.
Addio lezioni di canto; addio speranze di carriera e protezione della zia! Contenti forse di essersene liberati, i parenti le gittarono in faccia il disonore della famiglia, e le voltarono le spalle.
Ma ella amava, e non domandava appunto che di essere lasciata in pace col suo Diego adorato.