La donna forte (Goldoni)/Atto I

Atto I

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Personaggi Atto II

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ATTO PRIMO.

SCENA PRIMA.

Camera in casa di don Fernando.

Don Fernando e Prosdocimo.

Fernando. Questa volta, Prosdocimo, convien che adoperiate

Quel valor, quel coraggio, che posseder vantate.
Di fedeltà non parlo: l’arcano ch’io vi svelo,
So che custodirete con gelosia, con zelo;
Altrimenti facendo, l’avrete a far con me;
Ma vi conosco in questo, e da temer non c’è.
Chiedovi adunque aiuto nel caso in cui mi trovo;
Or d’un uom, qual voi siete, l’abilitade io provo.
Prosdocimo. Ridere voi mi fate parlando in tal maniera.
Dubitate di me? guardatemi alla ciera.

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Vi par che questi baffi, vi par che questi musi,

Manchino di coraggio, e a paventar sian usi?
Quanti ammazzar ne deggio? porgetemi la lista.
Se fossero anche dieci, li ammazzo a prima vista.
Fernando. Può darsi che l’affare vi metta in un cimento,
Ed userete allora la forza e l’ardimento.
Per or, caro Prosdocimo, adoperarvi io voglio
Di una femmina sola a superar l’orgoglio.
Prosdocimo. Come! con una donna ho a cimentar l’onore?
Per sì debole impresa un uom del mio valore?
Fernando. Perdonatemi, amico, io già non vi domando,
Che andiate ad attaccare la femmina col brando.
Basta che le parole non adopriate in vano.
Prosdocimo. Ditelo, in confidenza, vi ho da fare il mezzano?1 (placido)
Fernando. Non ardirei di esporvi a un simile esercizio.
Prosdocimo. Se di ciò mi parlaste, vedreste un precipizio.
Fernando. Dite, il conte Rinaldo è da voi conosciuto?
Prosdocimo. Lo conosco, e stamane in piazza io l’ho veduto.
Fernando. Vi ha detto nulla?
Prosdocimo.   Nulla.
Fernando.   Non si sarà arrischiato,
Perchè sa che voi siete un uomo delicato.
So ch’ei volea offerirvi dieci zecchini, e poi
Non ha avuto coraggio di favellar con voi.
Prosdocimo. Voleva offrire il Conte dieci zecchini a me?
E di dirmi tal cosa non ebbe ardir? Perchè?
Sa ch’io son galantuomo, sa quel che fare io so.
Vuol che ammazzi qualcuno? Son qui, l’ammazzerò.
Fernando. Non vuol sangue per ora. Brama, (non vi adirate)
Brama che ad una donna in suo favor parliate.
Prosdocimo. M’offre dieci zecchini, sol che per lui favelli?
Fernando. Sì, non andate in collera, ruspidi, nuovi e belli.

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Prosdocimo. Ditemi in cortesia, s’io prendo un tal impegno,

Vi può essere il caso che alcun si muova a sdegno?
Fernando. Certo che si potrebbe destar qualche sospetto.
Prosdocimo. Quando vi son pericoli, più volentieri accetto.
Io soglio andare in traccia di risse e di rumori,
Lo so quai precipizi soglion produr gli amori.
Accetterò l’impegno con patto e condizione
D’ammazzare a drittura chi al suo voler si oppone.
Fernando. Di lei probabilmente si opponerà il marito.
Prosdocimo. Si opponga anche il demonio, accetterò il partito.
Chi è la donna, signore?
Fernando.   La Marchesa del Sale.
Prosdocimo. Cospetto! suo marito è un cavalier bestiale.
(con qualche timore)
Fernando. Ma il Marchese suo sposo in Napoli non è.
Prosdocimo. No? Son qui, comandatemi, fidatevi di me.
Fernando. Di voi ha fatto scelta il Conte amico mio,
Perchè sa chi voi siete, e vi conosco anch’io.
Oltre il vostro coraggio, si sa pubblicamente,
Che voi solete in casa andar frequentemente,
E si sa che Regina, serva della Marchesa,
Volentieri vi vede, e che di voi s’è accesa.
Dunque con questo mezzo, e col sottile ingegno,
Potete compromettervi di riuscir nell’impegno.
Prosdocimo. Niente è a me difficile; ma almen saper vorrei:
Che cosa vuole il Conte; cosa ho da dire a lei?
Fernando. Vi confido l’arcano: ei la Marchesa ha amata,
Pria che fosse al Marchese dal genitor legata.
Ella gli corrispose, fin che libera fu;
Dopo ch’è maritata, con lui non tratta più.
Ed egli, per non essere di casa discacciato,
Della di lei cognata si è finto innamorato.
Trovandosi in impegno un dì fra quelle porte,
Donn’Angiola al Marchese richiesta ha per consorte,
Ma poi di ciò pentito, pien di mestizia ha il seno,

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Brama che la Marchesa sappia il mistero almeno.

Brama una conferenza con lei segretamente;
Sia di notte, o di giorno, il tempo è indifferente.
Basta che si solleciti; e tosto in sul momento,
Mi dà i dieci zecchini, ed io ve li presento.
Prosdocimo. Non vuol altro che questo?
Fernando.   Altro da voi non vuole.
Prosdocimo. Signor, mi maraviglio, io non vendo parole.
Per parlare a una donna mi vuol pagar? Cospetto!
Sel mel dicesse in faccia, gli perderei il rispetto.
Parlerò alla Marchesa, e colla serva ancora;
Procurerò che accordisi per visitarla un’ora.
Accetterò i zecchini ch’egli offerisce a me,
Non per queste freddure; vi dirò io perchè.
Perch’egli allora quando a conferir sen vada,
Io di far mi esibisco la guardia in sulla strada.
E se alcuno volesse sturbar la conferenza,
Sia chi esser si voglia, l’ammazzo di presenza.
Questo è quel che si paga. Un galantuomo io sono;
Vendo i fatti soltanto, e le parole io dono. (parte)

SCENA II.

Don Fernando solo.

Il poltrone conosco, comprendo i vanti sui,

Ma in un simile incontro, bisogno ho anch’io di lui.
Parli pur per il Conte; quest’invenzion mi giova,
Il cuor della Marchesa per mettere alla prova.
S’ella condiscendente si vuol mostrar col Conte,
Posso sperare anch’io, posso scoprir la fronte;
E arrendersi potrebbe a un uom che un giorno ha amato,
Pria che a me, che il mio foco ancor non le ho svelato.
Ma, cuor mio, che pretendi da lei, che d’altri è sposa?
Ah lo veggo pur troppo, la fiamma è perigliosa.

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Ma troppo fieramente son dall’amore oppresso,

E sentomi pur troppo capace d’ogni eccesso.
Se l’onor della donna contrasta alla mia sorte,
Mi resta una lusinga nel fin di suo consorte.
Egli morir potrebbe... Non ho coraggio a dirlo,
Ma sentomi di dentro, che ho cuor di concepirlo.
Tentisi pria di tutto scoprire il di lei cuore.
Vagliami la finzione, pria di parlar d’amore.
Ceda al Conte, o resista, di lui valermi io voglio;
Vo’ per ultimo mezzo adoperar l’orgoglio.
Amor brama la pace, ma se il destin contrasta,
Usa gl’insulti ancora, quando il pregar non basta.

SCENA III.

Un Servitore e detto; poi il Conte Rinaldo.

Servitore. Signore, un’ambasciata.

Fernando.   Chi viene?
Servitore.   Un cavaliere.
Fernando. E chi è?
Servitore.   Il conte Rinaldo.
Fernando.   Venga; mi fa piacere.
(il servitore parte)
Pare ch’egli lo sappia, che favellargli io bramo.
Ho piacer ch’egli venga, e che fra noi parliamo.
Conte. Amico, perdonate s’io vengo a disturbarvi.
Fernando. Conte, non dite questo. Potete assicurarvi,
Che un piacer mi recate, che volentier vi vedo,
Che vi son buon amico.
Conte.   (Ai labbri suoi non credo), (da sè)
Vengo per domandarvi, se voi sapete il giorno,
Che il marchese Rinaldo a noi farà ritorno.
Donn’Angiola mi dice ch’egli non vien per ora,
E la Marchesa istessa non sa niente ancora.

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Fernando. Veramente l’altr’ieri mi scrisse in confidenza,

Che l’aria di collina gli giova in eccellenza,
Che colà si diverte con ottima partita,
E che la sua venuta sarà ancor differita.
Conte. Spiacemi un tal ritardo.
Fernando.   Perchè? Per sua sorella
L’amor sì fortemente vi cruccia e vi martella?
So pur, Conte carissimo, che sol per un impegno
La chiedeste in isposa; e or vi preme a tal segno?
Conte. So che mi siete amico; con voi vo’ confidarmi.
Anzi da un tal contratto vorrei disimpegnarmi.
Conosco che donn’Angiola a forza vi acconsente,
Io non fui, non ne sono acceso estremamente;
E se ad altri è inclinata, da lei non spero amore.
(Di costui, se è possibile, vo’ penetrar nel core).
Fernando. Per chi mai vi credete donn’Angiola impegnata?
Conte. Lasciate ch’io vi parli nella mia foggia usata.
Veggo dal suo contegno, veggo dagli occhi suoi,
Nè di ciò me ne offendo, che inclinerebbe a voi.
Fernando. A me?
Conte.   Sì, caro amico. Forz’è ch’io me ne avveda.
Fernando. Sarà, quando lo dite. (Ho piacer ch’ei lo creda).
Conte. Non vo’ coll’altrui danno formar la mia rovina.
(Fingo di non sapere che alla Marchesa inclina).
Fernando. Dunque con questa pace a me la rinunziate?
Conte. So quel che mi conviene.
Fernando.   Lo so, perchè lo fate.
Parliamoci fra noi, ma che nessun ci senta.
L’amor per la Marchesa tuttavia vi tormenta.
Voi l’adoraste un giorno, prima che fosse sposa,
Ancor nel vostro seno la piaga è sanguinosa.
Nè basta a medicarla tentare un altro affetto.
Se il primo ha già piantate le sue radici in petto.
Quella vera amicizia che passa in fra di noi,
Fa ch’io risenta al vivo la compassion per voi.

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Se mi cedete un cuore che vostro esser dovria,

Anch’io per amicizia vo’ far la parte mia.
Confidatevi a me, se la Marchesa amate,
E ad onta d’ogni ostacolo nell’opra mia fidate.
Conte. Ma il marito?
Fernando.   Le cose non si pon fare a un tratto,
Si fa il secondo passo, quando il primiero è fatto.
Veggiam prima di tutto, veggiam se la Marchesa
Di voi segretamente si è mantenuta accesa.
Un secreto colloquio seco aver procurate;
Procurerollo io stesso, se a me vi confidate.
So che la donna austera sfuggirà un tal periglio,
Ma io saprò trovare chi le darà il consiglio.
Basta che non si mostri nemica apertamente,
Basta che ad ascoltarvi conoscasi indulgente.
Quando la donna ascolta, quando a trattar si espone,
Sagrifica col tempo all’amor la ragione.
Conte. Di lei formar potete questo pensier sì ardito,
Che tradire ella possa l’onor di suo marito?
Fernando. No, non vo’ che noi siamo di lei mal persuasi.
Ma, Conte mio carissimo, si potrian dar dei casi.
Il Marchese è suggetto a malattia frequente.
Sollecitar potrebbe il fin d’ogni vivente.
E poi ho rilevato da un certo testimonio,
Ch’andata è la Marchesa forzata al matrimonio.
Quand’ella lo accordasse in questo o in altro modo,
Sciogliere si potrebbe delle sue nozze il nodo.
Conte. (Del suo pensiero indegno veggo, conosco il fine).
Fernando. Della fortuna, amico, deesi afferrare il crine.
Giovane è la Marchesa, bella, gentil, vezzosa,
Sola di sua famiglia antica e doviziosa.
So che vi ha amato un giorno, credo che vi ami ancora,
Veggo che il vostro cuore con gelosia l’adora.
Non vi do fatto il colpo; ma il disperar non giova,
E pochissima pena vi ha da costar la prova.

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Date a me la licenza di procurarne il modo?

Conte. Fate quel che vi pare.
Fernando.   Sì, di servirvi io godo.
Un domestico affare sollecitar mi preme.
Trattenetevi, amico; noi partiremo insieme.
E forse innanzi sera, e forse da qui a poco,
Del segreto colloquio vi saprò dire il loco.
Di donn’Angiola poscia ragionerem fra noi;
Potremo, s’ella mi ama, sentir i pensier suoi.
Per sciogliervi con essa noi troverem l’impegno.
(La fortuna finora seconda il mio disegno).
(da sè, e parte)

SCENA IV.

Il Conte solo.

Perfido, ti conosco. So che tu celi in seno

L’amor per la Marchesa; certo ne sono appieno.
Ma se tu sei mendace, accorto anch’io mi rendo,
E l’onor della dama di preservare intendo.
Sì, l’amai, lo confesso; ma dal dover convinto,
Son del suo sposo amico, ed ho l’amore estinto.
Per evitar col tempo di ripigliar l’amore,
Alla di lei cognata sagrificato ho il cuore.
Donn’Angiola è mia sposa, data ho la mia parola,
Sciogliere non mi deggio, e sposerò lei sola.
Veggo di don Fernando l’inganno e la malizia,
Giovami coll’astuto di fingere amicizia.
Vedrò fin dove giunga la sua passione ardita;
Vo’ difender la dama a costo della vita. (parte)

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SCENA V.

Camera della Marchesa.

La Marchesa e Regina.

Regina. Signora, un galantuomo brama parlar con lei.

Marchesa. E chi è costui?
Regina.   Prosdocimo.
Marchesa.   Cosa vuol?
Regina.   Non saprei.
Marchesa. Parlar con certa gente il labbro mio non suole.
Va tu, cara regina, chiedigli cosa vuole.
Regina. E se a me non vuol dirlo?
Marchesa.   Vedi se puoi sottrarmi.
È un uom facinoroso; di lui non vo’ fidarmi.
Regina. No, signora padrona, ella è male informata.
Prosdocimo è fratello di Livia mia cognata,
Nè ho mai sentito dire ch’ei sia facinoroso.
Egli non ha altro male, se non ch’è puntiglioso.
Si scalda, se taluno ad insultar lo viene;
Per altro le assicuro ch’è un giovane dabbene.
Marchesa. Basta, se vuol parlarmi, posso ascoltarlo ancora;
Ma non voglio star sola.
Regina.   Ci sarò io, signora.
(Mi preme che l’ascolti. Non ho coraggio in petto
Di dire alla padrona tutto quel che mi ha detto).
(da sè, e parte)

SCENA VI.

La Marchesa, poi Prosdocimo.

Marchesa. So che costui suol essere soverchiamente ardito;

L’ho veduto più volte con don Fernando unito,
E so che don Fernando mi fa lo spasimato.
Non vorrei che Prosdocimo fosse da lui mandato.

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Ma se ardirà l’audace mandarmi un’imbasciata,

Si pentirà d’avermi con ardir provocata.
Prosdocimo. Servo, signora mia.
Marchesa.   Dov’è andata Regina?
Prosdocimo. Che volete da lei?
Marchesa.   La voglio a me vicina.
Prosdocimo. Di che avete timore? Quand’io vi sono appresso,
Non abbiate paura di Satanasso istesso.
Lo so che siete sola, senza il vostro consorte;
Ma quando ci son io, si ponno aprir le porte.
Se avete dei nemici, se alcun venir si vede,
Io gli spacco la testa, e ve la getto al piede.
Marchesa. Regina. (forte)

SCENA VII.

Regina e detti.

Regina.   Mia signora.

Prosdocimo.   Non abbiate timore.
Marchesa. Non ho timor, vi dico, non ho sì vile il cuore.
Di nemici non temo, in casa mia non vi è
Chi ardisca, chi presuma venir senza di me.
Delle vostre sciocchezze ridere son forzata.
Ma spicciatevi tosto.
Prosdocimo.   V’ho a fare un’imbasciata.
Marchesa. E per chi?
Prosdocimo.   Per un certo padron mio venerando...
Marchesa. Dite; quel che vi manda, è forse don Fernando?
Prosdocimo. Non signora. E quell’altro.
Marchesa.   Quell’altro? e chi sarà?
Prosdocimo. Sarà il conte Rinaldo.
Marchesa.   Che vuol?
Prosdocimo.   Vuol venir qua.
Marchesa. Brama il conte Rinaldo venir in casa mia?
Ora non vi è il mio sposo; dee aspettar ch’ei ci sia.

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Lo sa pur che il Marchese venir gli ha proibito,

Fino che di donn’Angiola non veggasi marito.
Regina. Signora, il vostro sposo, per dir la verità,
Con queste sottigliezze è un torto che vi fa.
Non bastagli che voi vegliate a custodirla?
Ha paura il padrone che vengano a rapirla?
Marchesa. Di simili faccende che sa la gente sciocca?
Tu di ciò perchè parli?
Regina.   Parlo, perchè ho la bocca.
Prosdocimo. Certo, la tua padrona è savia ed è prudente.
Non deve il signor Conte venir pubblicamente.
Con voi di un certo affare vuol ragionare un poco.
Verrà segretamente, dategli il tempo e il loco.
Marchesa. Taci; mi maraviglio del tuo parlare audace.
So chi è il conte Rinaldo; di ciò non è capace.
Egli non ardirebbe proporre ad una dama
Cosa tal che potrebbe offendere la fama.
È noto a tutto il mondo, che fummo amanti un giorno.
D’altri il destin mi fece, e a delirar non torno.
Ma un segreto colloquio potria recar sospetto,
Che la fiamma già spenta mi rinascesse in petto.
S’egli a me ti ha diretto, digli che son pentita
D’avere amato un giorno un’anima sì ardita.
Digli che si rammenti il suo dovere e il mio;
Che se passion l’accieca, debole non son io.
Digli che si vergogni d’aver di me pensato...
Ma no, il conte Rinaldo non ti averà mandato.
Sa il ciel qual reo disegno tu vai nutrendo in cuore.
Perfido, ti conosco, tu sei un impostore.
Vattene da me lungi; qui non tornar mai più.
(Prosdocimo mostra timore)
Va, che mi sei sospetta, indegna, ancora tu. (a Regina)
Pieno di tristi è il mondo, ho di ciascun sospetto;
Ma vacillar non puote la mia costanza in petto. (parte)

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SCENA VIII.

Regina e Prosdocimo.

Regina. Hai sentito?

Prosdocimo.   Ho sentito.
Regina.   E non ti muovi a sdegno?
Prosdocimo. Di altercar colle donne, lo sai ch’io non mi degno.
Se un uom mi avesse detto sol la metà di quello
Che mi disse costei, gli mangerei il cervello.
Regina. Qualche volta mi pare che abbi un po’ del poltrone.
Prosdocimo. Regina, io vo pensando ad un’altra ragione.
Spiacemi aver perduti per i suoi stolti eccessi,
Quei bei dieci zecchini, che mi erano promessi.
Ed io per certe cose son puntiglioso assai,
E quando mi promettono, non mi mancano mai,
E non mi mancheranno; li voglio, o tardi o tosto.
Voglio i dieci zecchini, li voglio ad ogni costo;
E se non me li danno, in testa l’ho fissata,
Al Conte e a don Fernando menerò una stoccata.
Regina. E s’essi ti menassero qualcosa in su la testa?
Se accoppar ti facessero?
Prosdocimo.   Vi mancheria ancor questa.
(con qualche apprensione)
Farò così; ho pensato sfuggire un precipizio.
Voglio usar questa volta l’astuzia ed il giudizio.
Vo’ far credere al Conte, e a don Fernando istesso,
Che in casa la Marchesa accordagli l’accesso.
Farò che il Conte creda, che ad ascoltarlo inclini,
E mi daranno subito i miei dieci zecchini.
Regina. Ma poi se nol riceve?
Prosdocimo.   Riceverlo dovrà.
Quando che tu lo voglia; Regina mia, vien qua:
Due zecchini per te, se l’introduci, e poi
Quando sarà introdotto, ch’ei pensi ai casi suoi.
Che ti par del progetto?

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Regina.   Due zecchini per me?

Prosdocimo. Subito te li porto.
Regina.   Se fossero almen tre.
Prosdocimo. E non conti per nulla aver al tuo comando
Un uom che alle occasioni sa adoperare il brando?
Un uom, che se qualcuno ti dà qualche molestia,
È capace di farlo morir come una bestia.
Regina. Appunto avrei bisogno di far star a dovere,
Con un po’ di paura, di casa il cameriere.
Prosdocimo. Dimmi, cosa ti ha fatto?
Regina.   Sposarmi ei mi ha promesso,
Mi ha data la parola, e poi mi manca adesso.
Prosdocimo. Dov’è costui?
Regina.   Osserva, ch’ei viene a questa volta.
Fagli un po’ di spavento.
Prosdocimo.   Regina, un’altra volta.
Regina. No no, già che la sorte lo manda in questo punto.
Fallo tremare un poco.
Prosdocimo.   Mi vuoi mettere al punto?
Son qui, non mi ritiro. Venga, mi sentirà.
Regina. Favorisca, signore. (verso la scena)

SCENA IX.

Fabrizio e detti.

Fabrizio.   Padrona, eccomi qua.

Che cosa mi comanda? (ironico)
Regina.   Nulla, padrone mio. (ironico)
(Ditegli qualche cosa). (a Prosdocimo)
Prosdocimo.   (Ho da principiar io?) (a Regina)
Regina. (Sì, principiate voi).
Prosdocimo.   Signor mio garbatissimo.
Sapete voi chi sono?
Fabrizio.   Vi conosco benissimo, (con rispetto)

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Prosdocimo. Questa giovine, a cui faceste promissione.

Sapete voi che ha il merito della mia protezione?
Fabrizio. Davver? Non lo sapeva.
Prosdocimo.   Ora che lo sapete,
Fate il vostro dovere; se no, vi pentirete.
Fabrizio. Ma, signor, se il permette, qualche cosa ho in contrario.
Sposarla io non mi sento.
Prosdocimo.   Voi siete un temerario.
Ella è da me protetta, sposatela a drittura;
Se tardate un momento, vi mando in sepoltura.
Regina. Sì, sposarmi dovete. Codesta è un’insolenza.
Prosdocimo. Non vi è tempo da perdere.
Fabrizio.   Signor, con sua licenza.
Vado, e ritorno subito.
Prosdocimo.   Dove?
Fabrizio.   Poco lontano.
Sì, signor protettore, or or le do la mano.
(parte, e torna)
Prosdocimo. Che vi pare? Son uomo?
Regina.   Temo di qualche imbroglio.
Prosdocimo. Che temer? Che temere? Farà quello ch’io voglio.
Fabrizio. Eccomi di ritorno. Anch’io la protezione
Godo, signor Prosdocimo, del protettor bastone.
Se ho da sposar Regina, ho domandato ad esso.
Ed egli mi ha risposto, che vuol sposarsi anch’esso.
Domandai chi è la sposa; l’ho domandato appena,
Rispose: di Prosdocimo voglio sposar la schiena.
Onde, s’ella comanda, senz’altri testimoni,
Possiamo stabilire questi due matrimoni.
Prosdocimo. Bravo, è un uomo di spirito; mi piace in verità.
Non merita un insulto, lo lascio in libertà.
Per or la schiena mia prender non vuol marito.
Regina, a rivederci. Padron mio riverito. (parte)
Fabrizio. Scacciar la mia padrona mi ha imposto quell’indegno.
Se di qua non partiva, adoperavo il legno.

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E voi, garbata giovane, che colui praticate.

Coi bindoli suoi pari a maritarvi andate. (parte)
Regina. Ah poltron, poltronaccio; ostenta la bravura,
E poi lo fa un bastone morir dalla paura?
Ma quanti fan com’esso bravate a tutt’andare,
E poi nell’occasione si veggono a tremare. (parte)

Fine dell’Atto Primo.


Note

  1. Ed. Zatta: c’ho da far io il mezzano?