La cucina futurista/un pranzo che evitò un suicidio

un pranzo che evitò un suicidio

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un pranzo
che evitò
un suicidio



[p. 9 modifica]L’11 Maggio 1930 il poeta Marinetti partiva per il Lago Trasimeno in automobile, obbedendo a questo preoccupante, strambo e misterioso telegramma:

«Carissimo poichè Essa partì definitivamente sono preso da angoscia torturante Stop tristezza immensa vietami sopravivere Stop supplicoti venire subito prima che arrivi quella che le rassomiglia troppo ma non abbastanza GIULIO».

Marinetti, deciso a salvare il suo amico, aveva invocato telefonicamente l’intervento di Enrico Prampolini e Fillìa, la cui grande genialità di aeropittori gli sembrò adatta al caso senza dubbio gravissimo.

Chirurgicamente il volantista dell’automobile cercò e trovò, sulle rive piagate e fra i canneti doloranti del Lago, la villa. In realtà si [p. 10 modifica]nascondeva in fondo al parco, alternato di pini ombrelliferi offerti al Paradiso e di cipressi diabolicamente infusi nell’inchiostro dell’Inferno, una vera Reggia, più che una villa.

Sulla soglia, allo sportello dell’automobile, il viso emaciato e la troppo bianca mano tesa di Giulio Onesti. Questo pseudonimo, che mascherava il suo vero nome, il suo intervento battagliero e creativo nelle serate futuriste di venti anni prima, la sua vita di scienza e di ricchezze accumulate al Capo di Buona Speranza, la sua subitanea fuga dai centri abitati, riempirono la conversazione parolibera che precedette il pranzo nel policromo Quisibeve della villa.

A tavola, nella stanza tappezzata di rosso rimorso vellutato, che beveva per l’ampie finestre una mezza luna nascente ma già immersa nella morte delle acque, Giulio mormorò:

— «Intuisco nei vostri palati la noia di una antichissima abitudine e la convinzione che un simile modo di nutrirsi prepara al suicidio. Via, mi confesso brutalmente a voi e alla vostra provata amicizia: da tre giorni l’idea del suicidio occupa tutta la villa ed anche il parco. D’altra parte non ho ancora avuto la forza di varcarne la soglia. Cosa mi consigliate?» —

Lungo silenzio.

— «volete sapere il perchè? Ve lo dico: Lei, tu la conosci, Marinetti! Lei si è uccisa tre giorni fa a New York. Certamente mi chiama. Ora, per [p. 11 modifica]una coincidenza strana, interviene un fatto nuovo e significativo. Ho ricevuto ieri questo dispaccio... è dell’altra che le rassomiglia... troppo... ma non abbastanza. Vi dirò un’altra volta il suo nome e chi è. Il dispaccio mi annuncia il suo imminente arrivo...» —

Lungo silenzio. Poi Giulio fu preso da un tremito convulso irrefrenabile:

— «non voglio, non debbo tradire la morta. Quindi mi suiciderò questa notte!» —

— «a meno che?» — gridò Prampolini.

— «a meno che?» — ripetè Fillìa.

— «A meno che? — concluse Marinetti — a meno che tu ci conduca immediatamente nelle tue ricche e fornite cucine.» —

Fra i cuochi esterrefatti e dittatorialmente esautorati, i fuochi accesi, Enrico Prampolini urlò:

— «occorrono alle nostre mani geniali cento sacchi dei seguenti ingredienti indispensabili: farina di castagne, farina di grano, farina di mandorle, farina di segala, farina di grano turco, polvere di cacao, pepe rosso, zucchero e uova. Dieci giarre di olio, miele e latte. Un quintale di datteri e di banane.» —

— «sarai servito in questa notte stessa» — ordinò Giulio.

Subito i servi incominciarono a trasportare dei grandi pesanti sacchi che scaricando piramidali mucchi gialli, bianchi, neri, rossi [p. 12 modifica]trasformavano le cucine in fantastici laboratori dove le casseruole enormi rovesciate a terra si mutavano in piedestalli grandiosi predisposti per una statuaria imprevedibile.

— «al lavoro — disse Marinetti — o aeropittori e aeroscultori. Le mie aeropoesie ventileranno i vostri cervelli come eliche frullanti.»

— Fillìa improvvisò un aerocomplesso plastico di farina di castagne, uova, latte, cacao dove piani atmosferi notturni erano intersecati da piani di grigiori d’alba con spirali di vento espressi mediante tubature di pasta frolla.

Enrico Prampolini che aveva gelosamente circondato di paraventi il suo lavoro creativo, alla prima alba filtrante all’orizzonte lucente dalla finestra aperta, gridò:

— «la tengo finalmente fra le braccia ed è bella, affascinante, carnale, tale da guarire qualsiasi desiderio di suicidio. Venite ad ammirarla.» —

Rovesciò i paraventi e apparve il misterioso soave tremendo complesso plastico di lei. Mangiabile. Gustosa era infatti a tal punto la carne della curva che significava la sintesi di tutti i movimenti dell’anca. E luceva di una sua zuccherina peluria eccitando lo smalto dei denti nelle bocche attente dei due compagni. Sopra, le sferiche dolcezze di tutte le ideali mammelle parlavano a distanza geometrica alla cupola del ventre sostenuta dalle linee-forze delle cosce dinamiche.

[p. 13 modifica]— «non avvicinatevi — gridò a Marinetti e a Fillìa — non odoratela. Allontanatevi. Avete delle cattive bocche voraci. Me la mangereste tutta, senza fiato.» —

Ripresero il lavoro deliziosamente pungolati dai lunghi raggi elastici di un’aurora, cirri rossi, trilli d’uccelli e scricchiolii d’acque legnose di cui scoppiava in brilli dorati la laccatura verde.

Atmosfera inebriante prodiga di forme colori con piani di luci taglienti e levigatissime rotondità di splendori che il ronzìo di un aeroplano altissimo torniva melodiosamente.

Mani inspirate. Nari aperte per dirigere l’unghia e il dente. Alle sette nasceva dal maggior forno della cucina la passione delle bionde, alto complesso plastico di pasta sfogliata scolpita a piani degradanti di piramide ognuno dei quali aveva una lieve curva speciale di bocca ventre o fianchi, un suo modo di fluttuare sensualissimo, un sorriso suo di labbra. In alto un cilindro di pasta di grano turco girante su perno, che velocizzandosi scapigliava in tutta la camera una massa enorme di zucchero filato d’oro.

Ideato da Marinetti, realizzato sotto la sua dettatura da Giulio Onesti, improvvisatosi scultorecuoco, angosciatissimo e tremante, il complesso plastico fu da lui stesso piantato su una gigantesca casseruola di rame rovesciata.

Gareggiò subito tanto con la forza dei raggi [p. 14 modifica]solari da inebriarne il plasmatore che infantilmente baciò con la lingua la sua opera.

Vennero sformati da Prampolini e Fillìa: una snella velocità slanciatissimo «lazo» di pasta frolla, sintesi di tutte le automobili affamate di curve lontane e una leggerezza di volo che offriva alle bocche guardanti 29 argentee caviglie di donna miste di mozzi di ruote e d’ali d’eliche tutte formate con soffice pasta lievitata.

Con bocche d’antropofagi simpatici, Giulio Onesti, Marinetti, Prampolini e Fillìa si ristoravano lo stomaco di quando in quando con un saporito rottame di statua.

Nel silenzio del pomeriggio il lavoro divenne muscolarmente accelerato. Masse saporite da trasportare. Il torrente del tempo fuggiva loro sotto i piedi in bilico sui ciottoli levigati e tremanti del pensiero.

In una pausa, Giulio Onesti disse:

— «se la Nuova giunge col crepuscolo o con la notte, le offriremo un’aurora artistica mangiabile veramente inaspettata. Non lavoriamo però per lei. La sua bocca, per quanto ideale, sarà quella di una qualsiasi convitata.» —

Giulio Onesti però manifestava un’inquietudine che non rispondeva alla serenità futurista del suo cervello. Temeva la sopraveniente. Quella bocca imminente preoccupava anche i tre futuristi al lavoro. L’intuivano e l’assaporavano fra i profumi di vaniglia, di biscotti, di rose viole [p. 15 modifica]e gaggie che nel parco e nella cucina la brezza primaverile, ebbra di scolpire anch’essa, rimescolava.

Nuovo silenzio.

Bruscamente un complesso plastico di cioccolata e torrone, rappresentante le forme della nostalgia e del passato precipitò giù con fragore e inzaccherando tutto di liquide tenebre vischiose.

Con calma riprendere la materia. Crocifiggerla sotto chiodi acuti di volontà. Nervi. Passione. Gioia delle labbra. Tutto il cielo nelle nari. Schioccar della lingua. Trattenere il respiro per non guastare un sapore cesellato.

Alle sei del pomeriggio svilupparsi in alto di dolci dune di carne e sabbia verso due grandi occhi di smeraldo in cui si addensava già la notte. Il capolavoro. Aveva per titolo le curve del mondo e i loro segreti. Marinetti, Prampolini e Fillìa, collaborando, vi avevano inoculato il magnetismo soave delle donne più belle e delle più belle Afriche sognate. La sua architettura obliqua di curve molli inseguentisi in cielo nascondeva la grazia di tutti i piedini femminili in una folta e zuccherina orologeria verde di palme di oasi che meccanicamente ingranavano i loro ciuffi a ruota dentata. Più sotto si sentiva la garrula felicità dei ruscelli paradisiaci. Era un mangiabile complesso plastico a motore, perfetto.

Prampolini disse: [p. 16 modifica]— «vedrete che lui vincerà lei.» —

Squillò medianicamente il campanello in fondo al parco.



A mezzanotte, nella vasta sala d’armi, i futuristi Marinetti, Prampolini e Fillìa aspettavano il padrone di casa invitato a sua volta per inaugurare-assaggiare insieme la grande Mostra di scultura mangiabile ormai pronta.

In un angolo, presso una vetrata piena di asprigne e malsane luci sottolacustri, masse di alabarde e fascî di carabine in rissa con due enormi cannoni da montagna, erano stati ammonticchiati ricacciati brutalmente come da una magica forza sovrumana.

Sovrumana in realtà splendeva nell’angolo opposto, sotto undici globi elettrici, la Mostra dei 22 complessi plastici mangiabili.

Fra tutti, quello intitolato le curve del mondo e i loro segreti turbava. Come munti da tanto aerodinamismo lirico-plastico, giacevano stanchissimi Marinetti, Prampolini e Fillìa sopra un ampio tappeto di piume danese che per la sofficità madreperlacea nella luce elettrica pareva viaggiasse, nuvola investita da proiettore nella notte.

Pronti balzarono in piedi però al suono di due [p. 17 modifica]voci, una virile ma stanca, l’altra femminile e aggressiva. Un breve scambio di gentilezze stupori rallegramenti a lei, da lei. Poi l’immobilità e il silenzio dei cinque.

Bellissima donna, ma d’una bellezza tradizionale. Per sua fortuna, i grandi occhi verdi, pieni di falsa ingenuità infantile, sotto la breve fronte inondata di ricchi capelli quasi biondi e quasi castani, rivoluzionavano e accendevano le curve pacate e le squisite eleganze minuziose del collo, delle spalle e delle anche snelle appena inguainate di amoerri dorati.

— « non mi giudicate una sciocca — mormorò con grazia languida — sono intontita. Il vostro ingegno mi spaventa. Vi supplico di spiegarmi le ragioni, le intenzioni, i pensieri che vi hanno dominati mentre scolpivate tanti deliziosi odori sapori colori o forme.» —

A lei, che cautamente e sculturalmente scavava al proprio corpo, nei cuscini le pellicce e i tappeti, una nicchia-tana per belva raffinata, Marinetti, Prampolini e Fillìa parlarono alternandosi come tre stantuffi ben oliati della medesima macchina.

Bocconi ai loro piedi, e la faccia rivolta al centro della Terra, Giulio Onesti sognava o ascoltava.

Dissero:

— «Amiamo le donne. Spesso ci siamo torturati con mille baci golosi nell’ansia di [p. 18 modifica]mangiarne una. Nude ci sembrarono sempre tragicamente vestite. Il loro cuore, se stretto dal supremo godimento d’amore, ci parve l’ideale frutto da mordere masticare suggere. Tutte le forme della fame che caratterizzano l’amore ci guidarono nella creazione di queste opere di genio e di lingua insaziabile. Sono i nostri stati d’animo realizzati. Il fascino, la grazia infantile, l’ingenuità, l’alba, il pudore, il furente gorgo del sesso, la pioggia di tutte le smanie e di tutte le svenevolezze, i pruriti e le ribellioni contro l’antichissima schiavitù, l’unica e tutte hanno trovato qui, mediante le nostre mani, un’espressione artistica tanto intensa da esigere non soltanto gli occhi e relativa ammirazione, non soltanto il tatto e relative carezze, ma i denti, la lingua, lo stomaco, l’intestino ugualmente innamorati.

— «per carità — sospirò sorridendo — moderate la vostra selvaggeria.» —

— «nessuno vi mangerà per ora — disse Prampolini — a meno che il magrissimo Fillìa... » —

Soggiunse Marinetti:

— «in questo catalogo della Mostra di scultura mangiabile, Lei potrà leggere questa notte gli originali pettegolezzi erotici-sentimentali che suscitarono negli artisti certi sapori e certe forme apparentemente incomprensibili. Arte leggera aviatoria. Arte temporanea. Arte mangiabile. [p. 19 modifica]L’eterno femminino fuggente imprigionato nello stomaco. La spasimante superacuta tensione delle più frenetiche lussurie finalmente appagate. Ci giudicate selvaggi, altri ci credono complicatissimi e civilizzatissimi. Siamo gl’istintivi nuovi elementi della grande Macchina futura lirica plastica architettonica, tutta leggi nuove, tutta direttive nuove.» —

Una lunga pausa di silenzio fulminò di sonno Marinetti, Prampolini e Fillìa. La donna li contemplò per alcuni minuti, poi abbandonò il capo all’indietro e si addormentò anch’essa. Il fievole sciacquìo delle respirazioni cariche di desiderî, d’immagini e di slanci, s’intonava con lo sciacquìo chioccolante e tinnente del canneto nel Lago strofinato dalla brezza notturna.

Cento mosconi viola-azzurri davano un assalto artistico impazzito agli alti globi elettrici, incandescenze da scolpire ad ogni costo e al più presto anch’esse.

Ad un tratto, con la schiena sospettosa di un ladro, Giulio girando appena la testa a destra e a sinistra, si convinse che scultori e scultrice di vita dormivano profondamente. Scattò in piedi agilmente, senza far rumore, percorse con lo sguardo circolare la grande sua sala d’armi e deciso si avviò verso l’alto complesso plastico le curve del mondo e i loro segreti. Inginocchiatosi davanti, ne iniziò l’amorosa adorazione con le labbra, la lingua e i denti. Frugando e [p. 20 modifica]rovesciando il bel palmeto zuccherino, come una tigre allungata, morse e mangiò un soave piedino pattinatore di nuvole.

Alle tre di quella notte, con un tremendo torcersi di reni, addentò il folto cuore dei cuori del piacere. Scultori e scultrice dormivano. All’alba mangiò le sfere mammellari d’ogni latte materno. Quando la sua lingua sfiorò le lunghe ciglia che difendevano i grandi gioielli dello sguardo, le nuvole addensatesi velocemente sul Lago partorirono un precipitante fulmine arancione a lunghe gambe verdi che schiantò il canneto a pochi metri dalla sala d’armi.

Seguì la pioggia delle lagrime vane. Senza fine. S’intensificava così il sonno degli scultori e della scultrice di vita.

Forse per rinfrescarsi, a capo scoperto, Giulio uscì allora nel parco tutto invaso dalle sussultanti tubature dei rumori del tuono. Era insieme sgombro, liberato, vuoto e colmo. Godente e goduto. Possessore e posseduto. Unico e totale.