La crociera della Tuonante/Capitolo 13 - Una strage

Capitolo 13 - Una strage

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13 - Una strage


Come mai tutte quelle belve erano finalmente riuscite a sfondare le sbarre delle loro gabbie quasi nello stesso tempo? L'orso le aveva prima rovesciate, servendosi del suo straordinario vigore muscolare, e poi aveva torto i ferri? Chi sa? Il fatto è che sulla coperta della nave disalberata si trovavano insieme tre o quattro giaguari, un orsaccio nero, tre coguari e più di mezza dozzina di lupi grigi. E appena fuori, tutte quelle bestie si erano scagliate in tutte le direzioni, all'impazzata, urlando orribilmente. Ma l'odore del sangue attirò subito la loro attenzione e tutte si lanciarono sul cassero, dove il povero Barba Grigia agonizzava fra le sue vittime.

«Spalancate gli occhi!» disse Testa di Pietra. «Succederà una scena che pochi uomini hanno veduto.»

«Che mangino i prosciutti di Barba Grigia?» chiese Piccolo Flocco.

«Oh, su quelli non ci conto ormai più!»

«E poi mangeranno anche noi.»

«Ho tagliato tutte le corde e le griselle, e mi pare che nessun pericolo ci minacci. Ci sarebbe l'orso nero, che è un buon arrampicatore, ma per lui serberemo i primi colpi, se mostrerà il muso all'altezza della coffa.»

«Ah, povero Barba Grigia!...» disse con un falso sospiro il giovane gabbiere.

Le belve, rese furiose dalla lunga fame, ed eccitate dall'acre odore del sangue, si erano scagliate furiosamente sul gigante delle Montagne Rocciose, ridotto ormai in tale stato, da non potersi più difendere. I giaguari e i coguari gli diedero primi l'attacco, dilaniandolo ferocemente; l'orso nero, più furbo, si gettò sulle casse dei biscotti, mentre invece i lupi, senza correre alcun pericolo, divoravano le vittime del gigante delle Montagne Rocciose. Bastarono quindici minuti perché tutto sparisse dentro i ventri affamati delle belve.

Quando non ebbero più nulla da divorare, i giaguari volsero la loro attenzione ai naufraghi. La coffa era alta, ma con un gran salto la potevano arrivare.

«Attenti miei cari!» disse il Bretone. «Ci guardano e pensano che qui c'è dell'altra carne da divorare.»

«Io sparare,» disse Hulbrik.

«Aspetta che te lo dica io. La polvere è troppo cara.»

«Io pono tiratore.»

«Allora fucila l'orso nero, che è il più pericoloso.»

«Sì, patre: io tirare.»

L'Assiano, che come tutti i Tedeschi era davvero un buon tiratore, s'inginocchiò sulla coffa, si appoggiò bene, mirò a lungo, poi lasciò partire il colpo.

L'orso nero, che stava in quel momento vuotando l'ultima cassa di biscotti, fu colpito fra le due spalle, ed ebbe fracassata la spina dorsale.

Il disgraziato plantigrado, non più fortunato di suo fratello grigio, interruppe di colpo il suo pasto; si rizzò sulle zampe di dietro, agitando disperatamente la testa, poi stramazzò. Giaguari, coguari e lupi si gettarono subito su di lui urlando per farlo a pezzi e divorarlo.

«Che cosa dire tu, patre, dei tiratori tedeschi?» chiese l'Assiano.

«Corpo d'un campanile! Hai fatto un magnifico colpo, Hulbrik, e ti faccio i miei complimenti; ma non credere che i Bretoni non siano ottimi bersaglieri. Per tua regola, noi maneggiamo più spesso i grossi pezzi delle navi che le carabine, le quali sono troppo leggiere nelle nostre mani incallite; ma se si presenta l'occasione, sappiamo imbroccare; è vero, Piccolo Flocco?»

«E ammazziamo sempre!» riprese il giovane gabbiere.

«Tirare tu, patre?» chiese l'Assiano.

«Diamine! Ma preferirei veramente avere alle mani un buon pezzo da caccia carico a mitraglia: allora vedresti che spazzatura di bestie feroci! Ma sappiamo, come ti ho detto, maneggiare anche le piccole armi da fuoco e farci onore, perché l'occhio e la mano sono sicuri... Guarda quel brutto giaguaro che sta divorando la testa della tua vittima.»

«Prutta pestia!»

«Ora te l'accomodo io in salsa bretone.»

Testa di Pietra si appoggiò per bene, puntando il gomito sinistro sul fianco, essendo l'arma assai pesante; prese la mira due o tre volte, poi uno sparo rimbombò, avvolgendo la coffa in una nuvola di fumo acre, il giaguaro mirato fece un gran salto in aria mandando un vero ruggito; sgambettò per alcuni istanti sul cassero, seguito da presso dai lupi famelici, poi si abbatté.

«Fulminato!» esclamò Testa di Pietra. «Come vedi, Hulbrik, se i Bretoni sono famosi a maneggiare i cannoni, sanno anche fare buon uso degli archibugi e delle carabine.»

«Bel colpo, patre!» rispose l'Assiano.

«Piccolo Flocco, quante cariche abbiamo ancora?» chiese il mastro.

«Un centinaio e più.»

«Allora siamo ricchi e possiamo permetterci il lusso di una grande caccia in pieno mare.»

Le belve feroci dopo l'orso si erano gettate anche sul giaguaro, e lo divoravano ancora agonizzante. Piene fino a scoppiare, si dispersero per il cassero, ad una certa distanza le une dalle altre, guardandosi con diffidenza e ringhiando. Agli uomini non pensavano più, ché la fame l'avevano abbondantemente saziata.

«Bisogna sbarazzare la tolda da quelle canaglie,» disse Testa di Pietra, «se no, non possiamo scendere per cercare dei viveri.»

«Speri di trovarne ancora?» chiese il giovane gabbiere.

«Sotto la poppa della nave ho scorto una scialuppa contenente parecchie casse.»

«Una scialuppa?»

«Ma sì, Piccolo Flocco. Credo che i naufraghi non abbiano avuto il tempo di portarla via con loro.»

«Servirà più tardi per noi.»

«Lo spero. Questa nave è ridotta in così pessime condizioni che non si potrebbe farla veleggiare per un paio d'ore, se il vento soffiasse forte... Hulbrik, dormi?»

«A chi tirare, patre?»

«Alle bestie grosse da salto: giaguari e coguari. Dei lupi non occupartene per ora. Se ci daranno noia, li accopperemo più tardi coi calci delle carabine.»

«Sì, patre.»

«Tira dunque.»

L'Assiano sparò il suo secondo colpo, ed un altro giaguaro, ferito a morte, si allungò sul cassero senza mandare un urlo.

Le altre bestie non si mossero per dilaniarlo. Avevano già mangiato abbastanza; e per qualche settimana, data la loro resistenza, potevano fare a meno di altro cibo.

Poi sparò Testa di Pietra abbattendo un coguaro, il quale pareva il più feroce di tutti.

«Una vera distruzione!» disse Piccolo Flocco.

«Una strage!» rispose il mastro. «Finché ci sarà una bestia noi continueremo a far fuoco. A te, Piccolo Flocco, che non tiri male: prova quest'archibugio.

«Che catenaccio!» disse il giovane gabbiere.

«Tu sei un asino: è una vera carabina inglese, mio caro, che colloca le palle a posto con una precisione meravigliosa.»

«Sparerò con Hulbrik.»

«Benissimo.»

Presero la mira senza affrettarsi, poiché la nave subiva di quando in quando delle fortissime oscillazioni, poi spararono quasi contemporaneamente. Non tutti i colpi dovevano riuscire mortali, specialmente facendo fuoco da una coffa, la quale risentiva, più che il resto della nave, il rollio ed il beccheggio. Ma non mancarono il bersaglio quei destri tiratori; commisero bensì l'imprudenza di ferire i due più grossi giaguari che giacevano quasi l'uno accosto all'altro.

«Corpo d'una balena!» esclamò il mastro, vedendo i due animali balzare in piedi ruggendo e fissando la coffa. «Vedrete che quei signori delle foreste calde cercheranno di vendicare le loro ferite. Attento, Hulbrik! Attento, Piccolo Flocco! Caricate subito! caricate subito!» I due giaguari, solo feriti e forse non gravemente, spiccarono quindici o venti salti attraverso il cassero, mettendo in allarme lupi e coguari; poi, come se avessero preso un fulmineo accordo, corsero verso l'albero occupato dai naufraghi.

Fortunatamente Testa di Pietra aveva avuta la saggia precauzione di tagliare tutti i cordami, le griselle soprattutto, sicché una scalata non era più possibile. Ma il pericolo esisteva sempre, poiché le tigri americane per lo slancio e la forza di garretti nulla hanno da invidiare a quelle indiane.

Giunte sotto l'albero, col pelame arruffato e macchiato di sangue ed i baffi irti, i due bestioni si provarono a spiccare un gran salto verso la coffa per gettar giù gli uomini che la occupavano. Quel primo colpo andò perduto anche per la troppa precisione; ma non erano animali da abbandonare l'impresa.

Il più grosso, dopo aver fatto cinque o sei giri intorno all'albero, sempre scattando per non esser preso di mira, si slanciò risolutamente in aria, e riuscì a piantare le unghie delle zampe anteriori sull'orlo della coffa. Un momento di ritardo e vi si sarebbe issato del tutto: ma Testa di Pietra aveva l'abitudine di non lasciarsi sorprendere. Impugnò saldamente la pesante carabina e fece uso del calcio laminato d'ottone, anche per risparmiare una carica. Si udì un crac, ed il giaguaro, dopo d'aver sgambettato per qualche istante, si lasciò andare pesantemente sulla tolda, rompendosi qualche costola contro un piccolo argano che si trovava li vicino.

«La sua testa è scoppiata come una zucca!» disse il mastro, asciugando sulla vela inferiore il calcio del fucile lordo di sangue e di brani di cervello. «Ecco un altro che non ci darà più fastidi.»

In quel momento scoppiò ai suoi fianchi una fucilata. Hulbrik aveva sparato sull'altro giaguaro e gli aveva piantato una seconda palla in pieno corpo.

«Bravo Tedesco!» gridò Testa di Pietra.

L'aveva preso proprio a volo, cioè nel momento in cui il giaguaro aveva spiccato il salto verso la coffa.

I lupi ed i coguari, spaventati da quelle continue detonazioni e dalla strage, poiché gli occhi dovevano pur averli, come diceva il Bretone, erano balzati in piedi urlando ed ululando.

Erano furiosi, e se avessero potuta raggiungere la coffa, dei tre naufraghi non sarebbero rimaste nemmeno le ossa.

«Ed ora che cosa facciamo?» chiese il giovane gabbiere.

«Si continua il fuoco,» rispose il mastro. «Finché ci sarà una bestia, noi non potremo mettere i piedi sulla tolda senza correre il pericolo di vederceli mozzare.»

«Munizioni calare,» disse il Tedesco.

«Ne abbiamo ancora abbastanza della polvere per prendere d'abbordaggio anche una fregata d'alto bordo. Oh, che bravi bersaglieri siamo noi!»

«Ohé, camerati,» disse Piccolo Flocco, «non dormiamo sugli allori. Vi sono ancora otto o nove bestie che passeggiano per il cassero e ci guardano di traverso.»

«Tira dunque!» rispose il mastro. «Ho una fame feroce, e vorrei cacciarmi in corpo almeno un biscotto.»

«Gli orsi li hanno divorati tutti.»

«Gli orsi non sono usciti dalla dispensa, quindi io credo che nella cambusa troveremo ancora qualche cosa per noi.»

«Sì, delle patate fradice, che perfino i porci rifiuterebbero,» disse Piccolo Flocco.

«Oh, il signorino dalla bocca delicata!» gridò con voce tonante Testa di Pietra. «Ce ne fossero sempre delle patate, anche guaste, durante i naufragi!... Dimmi, monello, forse al Pouliguen vi allevano coi biscottini?»

«Dimmi un pò, camerata...»

«No, camerata: in questo momento io sono il tuo mastro.»

«Continua.»

«E basta con la troppa confidenza.»

«Diamine, siamo o non siamo Bretoni?»

«Che il diavolo ti porti, impertinente? Hai la lingua più lunga di tutte le pescatrici della Bretagna... Smetti di chiacchierare e guarda alle bestie.»

«Eh, non sono ancora sulla coffa.»

«Hulbrik,» disse il mastro un pò irritato, «si può parlare con questo pappagallo? Vuole sempre aver ragione lui!»

«Mio capitano, quando io rispondere male, tirarmi dei pugni che le casematte rintronano,» rispose il Tedesco.

«Sul viso?» chiese Piccolo Flocco.

«Su mustaccia.»

«Ah, ora capisco, perché tu hai una bella faccia rotonda come la luna piena!»

Testa di Pietra a quell'uscita non poté trattenere uno scoppio di risa.

«Questo furfante d'un gabbiere scherzerebbe anche dinanzi alla bocca dei cannoni carichi a mitraglia,» disse poi.

«Certo,» rispose Piccolo Flocco. «I Bretoni non hanno paura dei pezzi grossi. Si può dire che siamo nati fra il rombo delle artiglierie.»

«Lasciale andare ora, e sbrighiamoci a uccidere le ultime belve, prima che ci giunga addosso l'uragano.»

«Ancora tempesta?» chiese il Tedesco spaventato.

«Si forma verso ponente: prima di sera si farà sentire, e la nostra nave si romperà.»

«Lo dici così tranquillamente?» osservò Piccolo Flocco.

«Mio caro, noi due siamo marinai, ed Hulbrik soldato, gente quindi votata a cadere più o meno tardi nella grande tazza senza speranza di uscire, oppure a perire colpiti da una palla di cannone o di carabina. Perché dobbiamo spaventarci? Del rimanente, io sono già abbastanza invecchiato...»

«Ma io no!» lo interruppe il giovane gabbiere. «Ho appena vent'anni, io!»

«Tu affogherai a cento e un anno,» disse Testa di Pietra gravemente. «Hai sulla fronte una ruga simile a quella che aveva papà Kartuk, il più vecchio marinaio di Batz.»

«Ed è morto?...»

«Centenario.»

«Per quella ruga?»

«Così si dice.»

«Allora non tremo più. Mi sento il coraggio di andare in bocca a un pescecane, colla certezza di uscirne vivo e verde.»

«Allora, giacché ti credi invulnerabile, và a finire quelle poche bestie che ancora rimangono.»

«Sì, sparare, Piccolo Flocco,» disse il Tedesco. «Ancora sette pestie, sette colpi: poi noi essere padroni della nave.»

«Avanti!» rispose il giovane gabbiere.

Ripresero le carabine e si misero a sparare contro le belve, che si lasciavano ammazzare senza proteste, nulla d'altronde potendo tentare contro i loro avversari, collocati troppo in alto per poterli assalire. Se vi fossero stati ancora dei giaguari, la cosa sarebbe stata diversa, ma fortunatamente non ve n'erano più.

I colpi succedevano ai colpi, e quasi tutti fortunati. Dopo cinque minuti l'ultimo coguaro e l'ultimo lupo stramazzavano l'uno quasi accanto all'altro, fra larghe pozze di sangue.

«Finito?» chiese Testa di Pietra.

«Non ne vedo altri in piedi,» rispose Piccolo Flocco.

«Che se ne trovino nella stiva?»

«Andremo a vedere. Ormai io ed Hulbrik non abbiamo più paura delle bestie feroci. Fanno ridere certi cacciatori quando si vantano d'aver guadagnata la pelle d'un giaguaro!... Povere bestie! Non sono quegli animali terribili che mi avevano descritti. Scendiamo?»

«Caricate prima,» disse Testa di Pietra.

Gettò la fune, l'unica che aveva conservata, poiché, come abbiamo detto, tutte le altre le aveva recise, si mise fra i denti il coltellaccio da manovra e cominciò a scendere. Il Tedesco ed il gabbiere lo seguirono puntando le carabine verso il boccaporto per paura che uscisse qualche altro bestione.

«Non si ode nulla,» disse Testa di Pietra. «Erano fuggiti tutti.»

«E noi li abbiamo ammazzati tutti!» aggiunse Piccolo Flocco.

Si avvicinarono al boccaporto e guardarono in giù. Vi erano dieci o dodici gabbie rovesciate, in parte sfondate e colle sbarre contorte. L'orso grigio doveva aver compiuta quella rovina con la sua forza terribile.

«Un bel capriccio!» esclamò Piccolo Flocco. «Come mai quell'animalaccio ha pensato a liberare anche i suoi compagni? Eppure si dice che gli orsi... siano orsi; è vero, Testa di Pietra?»

«Quel bestione deve aver fracassate queste gabbie in uno spaventoso accesso di furore e non già per fare un piacere ai giaguari, ai coguari e ai lupi.»

«Non è amico nemmeno degli orsi neri?»

«Si dice che non si assaltino e cerchino di evitarsi.»

«Stessa famiglia,» disse Hulbrik.

«Già, è il sangue della razza che parla,» disse il gabbiere.

«Possiamo scendere nella stiva prima che il sole scompaia completamente?»

«Andiamo,» rispose Testa di Pietra. «Se vi sarà qualche altro orso nascosto non ci farà paura.»

«Io copare subito,» disse il Tedesco.

«Come fosse un soldato americano; è vero, amico?»

«Ah, no, patre.»

«Del resto, gli yankees non ti risparmiavano ninnoli di piombo indurito. Avevi ben diritto di rispondere. Orsù, esploriamo la nave.»

«Se prendessimo un fanale?...» chiese il gabbiere. «Vi sono ancora quelli da segnali.»

«Và ad accenderne uno,» disse il mastro, porgendogli l'acciarino e l'esca.

Poi si volse a guardare il cielo e scosse la testa come uomo poco soddisfatto, ché da ponente le nubi salivano, accumulandosi nelle profondità del cielo.

Un vento violentissimo le spingeva; quel vento insistente che da settimane e settimane si abbatteva sulle coste americane, scompaginando le flotte di lord Howe e di lord Dunmore.

«Crandine?» chiese il Tedesco.

«Peggio, mio povero Hulbrik! Noi passeremo una pessima notte: te lo dico io.»

«Noi romperci?»

«Sì, anche la testa!» rispose il mastro sorridendo.

In quel momento Piccolo Flocco ritornò portando un fanale rosso, ancora pieno d'olio. Testa di Pietra lo prese e scese animosamente la scala della stiva impugnando il suo coltellaccio ben aperto.

Un tanfo orribile di bestie selvagge, che prendeva alla gola e che minacciava di soffocare, saliva da ogni parte.

I tre naufraghi raggiunsero il posto occupato dalle gabbie e si convinsero subito che altre bestie vive non v'erano. Tre coyote, che puzzavano spaventosamente, giacevano dentro una gabbia, tutti ricoperti di vermi.

Testa di Pietra e i compagni percorsero il frapponte e la stiva scendendo fino nella sentina, poi risalirono in coperta.

E intanto il tuono brontolava ed il vento aumentava rapidamente, sollevando delle grosse ondate.

«E così, Testa di Pietra?» chiese il gabbiere, vedendo il mastro piuttosto preoccupato. «Se si cenasse?... Che non sia rimasto proprio nulla per noi?»

«Scendi nella dispensa: qualche cosa, vedrai, ci sarà rimasto. Nella scialuppa ho veduto io delle casse e dei barilotti, ma sarà meglio serbarli a più tardi.»

Ciò detto, si diresse verso la poppa, risalì il cassero ingombro di bestie morte ed irrigato abbondantemente di sangue coagulato, e diede uno sguardo al timone.

«Ci servirà meno d'un remo,» disse al Tedesco.

«Noi perduti, patre?»

«Vedremo, Hulbrik.»

In quel momento udirono un grido terribile salire dalle profondità tenebrose della stiva.

«Piccolo Flocco!» gridò pure Testa di Pietra, impallidendo. «A me, Hulbrik!...»

Si precipitarono giù per la scala del boccaporto di poppa, per raggiungere più presto la dispensa. Una lotta spaventevole doveva succedere, poiché si udivano grugniti, bestemmie e colpi. In un lampo i due uomini si trovarono sotto il quadro di poppa illuminato dal fanale rosso deposto dal giovane gabbiere, e uno spettacolo orribile, impressionante, si offerse tosto ai loro occhi.

Dentro una specie di cabina, che doveva contenere una parte delle provviste della nave, si trovava un enorme orso nero, il quale scovato dal giovane gabbiere, o, meglio, interrotto nei suoi abbondanti pasti, si era scagliato furiosamente sull'intruso, cercando di afferrarlo e di soffocarlo contro il villoso petto, con una stretta possente.

Piccolo Flocco, accortosi a tempo della presenza di quel pericoloso avversario, s'era gettato indietro per non lasciarsi prendere; poi, afferrata la carabina per la canna, si era messo a picchiare col calcio, con un vigore che avrebbe meravigliato anche Testa di Pietra, se si fosse trovato presente. Se non che il plantigrado, quantunque avesse perduto più di qualche dente e sanguinasse, lo incalzava, urlando spaventosamente, e facendo sforzi disperati per prenderlo.

Già Piccolo Flocco, che non aveva potuto servirsi della carabina, anche per la strettezza della dispensa, come avrebbe voluto, si trovava addossato ad una parete divisoria, quasi nell'impossibilità di sfuggire, quando il mastro ed il Tedesco irruppero con gran fracasso e con altissime grida. L'orso, sorpreso di vedersi dinanzi altri avversari, lasciò Piccolo Flocco, dandogli così il tempo di armare finalmente la carabina, e si precipitò risoluto all'attacco, tenendosi ritto sulle zampe di dietro. Era un bestione alto quanto un orso grigio e molto grasso. La cura della dispensa doveva avergli fatto molto bene in quei pochi giorni di molta fame.

«Ah, assassino!» urlò Testa di Pietra con voce tonante, gettandosi contro il bestione col coltello aperto. «Io avrò la tua pelle!...»

Una spinta formidabile lo gettò fuori di linea, e per poco non lo fece cadere, e nel medesimo tempo il Tedesco gridò:

«Largo, patre! Io fare fuoco!»

Il mastro, sotto il violentissimo colpo, aveva dovuto appoggiarsi al tramezzo della dispensa; ma non aveva cessato di roteare il suo terribile coltellaccio.

«A noi, Hulbrik!» gridò Piccolo Flocco.

«Pronto, camarada!» rispose il bravo giovanotto.

«Fuoco!»

Due detonazioni rimbombarono, empiendo la stanza di fumo. Il plantigrado mandò un urlo altissimo, che aveva del ruggito del leone e del grido impressionante dei felini, poi cadde, colle zampe anteriori aperte, vomitando sangue.

«Corpo d'un campanile!» gridò Testa di Pietra, staccando dal tramezzo una scure che doveva aver servito al dispensiere. «Speriamo che la sia finita con queste bestie!»

E con un colpo terribile mutilò il moribondo, togliendogli uno dei suoi due superbi prosciutti.

«Potevi aspettare che fosse morto,» disse il giovane gabbiere, il quale era stato spruzzato dal sangue ancora caldo.

«Questo animale non avrebbe aspettato che tu avessi ripreso fiato per impegnare la lotta,» rispose il mastro. «Eppoi noi abbiamo fame, e la dispensa è stata vuotata da questo ghiottone. Son sicuro che non troveremo nemmeno un biscotto. Sono ingordi e insaziabili questi animali.»

Raccolse lo zampone sanguinante, diede a Hulbrik una buona stretta di mano, poi tutti e tre salirono in coperta. Proprio in quel momento l'uragano scoppiava con estrema violenza. Enormi ondate giungevano dal largo, accavallandosi sinistramente, e davano l'assalto alla nave naufragata con un frastuono infernale.

Il giovane gabbiere guardò Testa di Pietra, il quale pareva che fiutasse la tempesta, e gli domandò: «Serata d'arrosto o di naufragio?»

Il mastro stette un po' indeciso; poi, dopo aver guardato attentamente il mare e il cielo, rispose:

«Brutta notte, miei poveri ragazzi. L'arrosto non si mangerà né questa sera né domani, forse. L'uragano s'avanza.»

Prese il coltello, lo porse a Piccolo Flocco, e gli disse:

«Va' a squarciare le due vele.»

«E il timone funzionerà?»

«Non vale una pipata di tabacco.»

«Dove andiamo?»

«In braccio alla tempesta,» rispose il mastro con voce grave. «Del resto io e tu siamo marinai, e, o sotto o sopra, i Bretoni navigano sempre.»

«Preferisco navigar sopra, caro Testa di Pietra,» disse Piccolo Flocco.

«Tutti i marinai preferiscono sgambettare sopra, piuttosto che nel regno dei pescicani... Non più chiacchiere! Và e sventra.»

Il giovane gabbiere prese il coltellaccio e si slanciò verso l'alberatura, mentre i primi lampi illuminavano il rottame, accompagnati da rombi spaventevoli. «Patre,» disse l'Assiano, «morire tutti?»

Testa di Pietra scrollò le larghe spalle, lo guardò un poco sorridendo, poi rispose: «Noi dovevamo essere tutti mangiati dalle bestie feroci, e siamo ancora vivi. Se anche il mare ci porta via, poco importa. Avremo vissuto abbastanza.»

«Tu!...» gridò in quel momento il giovane gabbiere, il quale aveva ormai sventrate le due vele. «Io non voglio andarmene ancora, vecchio mio.»

«Verrà anche la tua volta.»

«Sì, ma il più tardi possibile.»

«Te lo auguro.»

«Patre,» disse l'Assiano «tu afere barba grigia e non essere ancora annegato.»

«Lo so, ma io... io sono Testa di Pietra,» rispose il mastro. «Se non fossi stato un gran marinaio, a quest'ora il mio corpo rotolerebbe attraverso i banchi e le scogliere, coperto di granchi... Ohé, saldi in gambe!»

Un'ondata mostruosa si era rovesciata ad un tratto sulla nave, sollevandola a grande altezza e scrollandola poderosamente. E a quel colpo di mare seguirono raffiche violentissime accompagnate da lampi e da tuoni.

Fortunatamente le vele erano state sventrate a tempo.

«Ecco la gran danza!» gridò Testa di Pietra. «Badate di non farvi portar via dal mare!»